di Daniel Sillitti
Potremmo dire che l'uso di droghe è un sintomo. Notiamo però alcune differenze. In primo luogo, non è il consumo a portare qualcuno a chiedere aiuto psicoterapeutico, ma il fallimento di quel che si otteneva con il consumo. In secondo luogo il sintomo si presenta al soggetto come enigmatico, e questo lo fa soffrire. Non sa a cosa corrisponda il suo sintomo, non riesce a capire la causa di quel che lo mette fuori fase. Il sintomo racchiude un godimento sconosciuto al soggetto. Con la droga invece, non è chiaro chi sia il soggetto che si rende conto che qualcosa non va. Di solito è un’idea che proviene da altro. Le cose non vanno, ma per l'altro. Forse potremmo dedurne che il tossicodipendente stesso è un sintomo, è lui la presenza di un disagio, la sua impronta lascia intravedere il disagio della civiltà. Se si può dire che il tossicodipendente è un sintomo, non è lo stesso per il consumo di sostanze, dato che non si interroga sul consumo, e non si interroga perché per lui su questo non vi è nessun enigma. C’è piuttosto una certezza, la certezza di un godimento che, lungi dall'essere sconosciuto, si presenta come quel che vi è di più sicuro. Bisogna notare che il fallimento della droga è ciò che apre la possibilità che tra le pieghe di ciò di cui si gode, sorga il soggetto, e quindi la possibilità di un'analisi. Si apra cioè quella mancanza d’essere che la droga come oggetto può otturare la maggior parte delle volte in modo efficace. Fonte: Daniel Sillitti, Ernesto Sinatra y Mauricio Tarrab. La droga: ¿objeto? , perteneciente al libro “Más allá de las Drogas”. 2000. Serie: Sujeto, goce y modernidad. Editorial Plural-La Paz-Bolivia. P.p 116.
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Randall C. Wyatt: Le porrò diverse questioni, data la varietà dei suoi interessi, e vorrei anche dedicare attenzione al suo lavoro come psicoterapeuta. Facciamo prima un po’ di storia. Lei è diventato famoso con il libro Il mito della malattia mentale. Riesce, in meno di mille parole, a dirmi cosa significa?
Thomas Szasz: Il mito della malattia mentale significa che la malattia mentale in quanto tale non esiste. Il concetto scientifico di malattia si riferisce a una lesione fisica, cioè a un’anomalia materiale – strutturale o funzionale – del corpo preso come una macchina. Questa è la classica definizione di Virchow di una malattia patologica, ed è la definizione di malattia ancora utilizzata dai patologi e dai medici che lavorano come terapeuti in modo scientifico. Il cervello è un organo – come le ossa, il fegato, il rene, e altri – e naturalmente può ammalarsi. Questo è il campo della neurologia. Poiché la mente non è invece un organo corporeo, non può ammalarsi, se non in senso metaforico, nel senso in cui diciamo anche che una battuta fa morire o che l'economia è malata. Questi sono modi metaforici per dire che un comportamento o una condizione sono cattivi, disapprovati, causa d’infelicità, e così via. Detto altrimenti, parlare di "menti malate" è come parlare di "battute infelici" o di "economie malate." Nel caso della malattia mentale si tratta di un modo metaforico per esprimere l'opinione di chi parla quando pensa ci sia qualcosa di sbagliato nel comportamento della persona a cui attribuisce la "malattia". In breve, come non c'erano streghe, ma solo donne disapprovate chiamate "streghe", nello stesso modo non ci sono malattie mentali, ma solo comportamenti che gli psichiatri disapprovano e che chiamano "malattie mentali". Prendiamo una persona che ha paura di uscire. Gli psichiatri chiamano il suo comportamento "agorafobia" e sostengono si tratti di una malattia. Oppure, una persona ha idee o percezioni strane, e gli psichiatri dicono che ha "deliri" o "allucinazioni". O ancora ci può essere qualcuno che fa uso di droghe illegali o che fa una strage. Sono tutti esempi di comportamenti, non di malattie. Quasi tutto quel che dico sulla psichiatria, segue da questo assunto. RW: Diciamo che la scienza moderna, con tutti i progressi della genetica e della biochimica, ha scoperto alcuni correlati tra i comportamenti e le carenze o gli squilibri biologici, o ancora i difetti genetici. Potremmo affermare che le persone che presentano allucinazioni o che sono deliranti hanno dei deficit biologici. Che cosa ne è con questo delle le sue idee? TS: Un tale sviluppo andrebbe nel senso di convalidare le mie opinioni, non di smentirle, come pensano i miei critici. Ovviamente, non nego l'esistenza di malattie del cervello, al contrario, quel che voglio dire è che se le malattie mentali fossero malattie del cervello, dovremmo chiamarle malattie del cervello e trattarle come malattie del cervello, e non chiamarle malattie mentali e trattarle come tali. Nel XIX° secolo i manicomi erano pieni di pazzi; più della metà di loro, come si è scoperto poi, aveva qualche malattia del cervello, soprattutto neurosifilide, o lesioni cerebrali, intossicazioni o infezioni. Una volta che si lo è capito, la neurosifilide ha cessato di essere una malattia mentale, ed è diventata una malattia del cervello. La stessa cosa è successa con l'epilessia. RW: È interessante, perché molti miei studenti e colleghi, che hanno letto il suoi lavori o che hanno sentito parlare delle sue idee, pensano che quando la condizione precedentemente considerata mentale si rivela una malattia del cervello, come è stato notato, le sue idee diventano discutibili. TS: È perché non hanno familiarità con la storia della psichiatria, non capiscono che cosa sia una metafora, e non vogliono vedere come e perché vengono formulate le diagnosi psichiatriche e come vengono attribuite alle persone. Ted Kaczynski, il cosiddetto Unabomber, è stato diagnosticato come schizofrenico da psichiatri nominati dal governo. Se si vuole credere che un difetto genetico induca una persona a commettere una serie di delitti concepiti in modo così geniale, e che invece quando qualcuno compone una magnifica sinfonia, questo sia dovuto al suo talento e alla sua libera volontà – ebbene così sia. I test medici oggettivi misurano cambiamenti chimici e fisici nei tessuti, non valutano né giudicare le idee o i comportamenti. Prima che esistessero test diagnostici sofisticati, per i medici era difficile distinguere tra la vera epilessia – vale a dire convulsioni neurologiche – e ciò che chiamiamo crisi isteriche, che sono semplicemente simulazioni dell’epilessia che imitano una crisi convulsiva. Quando si è capito che l'epilessia era provocata da un aumento dell’eccitabilità di alcune aree del cervello, non è più stata considerata una psicopatologia o una malattia mentale, ed è diventata una neuropatologia o una malattia del cervello. Diventa allora pertinenza della neurologia. L’epilessia esiste ancora. La neurosifilide, anche se molto rara, esiste ancora, e non è trattata dagli psichiatri, ma dagli specialisti in malattie infettive, perché è un’infezione del cervello. Se scoprissimo che tutte le malattie mentali sono malattie del cervello, questo significherebbe la scomparsa della psichiatria, che verrebbe riassorbita nella neurologia. Ma significherebbe anche che una condizione sarebbe considerata come malattia mentale solo se si potesse dimostrare, con prove oggettive, che una persona ce l’ha, o non ce l'ha. Si può dimostrare – oggettivamente, non facendo una diagnosi basata su un colloquio – che X ha la neurosifilide o non ce l’ha, ma non si può dimostrare oggettivamente che X ha o non ha la schizofrenia o la depressione clinica, o un disturbo post-traumatico da stress. Come la maggior parte dei sostantivi e dei verbi, la parola "malattia", sarà sempre utilizzata sia in senso letterale sia metaforico. Finché gli psichiatri non saranno disposti a fissare il significato letterale di malattia mentale in uno standard oggettivo, non ci sarà modo di distinguere tra il significato letterale e quello metaforico dell’espressione "malattie mentali". RW: Gli psichiatri, ovviamente, non vogliono essere messi fuori dal gioco. Vogliono tenere sulla schizofrenia quanto più a lungo possibile, e ora si aggiungono la depressione, il gioco d'azzardo, l'abuso di droga, e così via, che sono proposti come disturbi biologici o geneticamente determinati. Si crede che tutto debba avere un marcatore genetico, forse anche la normalità. Cosa ne pensa? TS: Non so proprio cosa dire di una simile sciocchezza. A meno che non s’intenda che la storia della psichiatria riguarda la semantica, è molto difficile venirne a capo. Le diagnosi non sono malattie. Punto. Gli psichiatri hanno definito alcune famose malattie per le quali non si sono mai scusati, le due più note sono la masturbazione e l’omosessualità. Le persone con queste cosiddette "malattie" sono state torturate dagli psichiatri per centinaia d’anni. I bambini sono stati torturati dai trattamenti contro la masturbazione. Gli omosessuali sono stati incarcerati e torturati dagli psichiatri. Ora tutto ciò viene opportunamente dimenticato, mentre gli psichiatri – prostitute dell'etica dominante – inventano nuove malattie, come quelle che ha citato. La guerra alla droga è l'attuale pogrom psichiatrico-giudiziario. Lo stesso vale per la battaglia sui bambini chiamati "iperattivi", avvelenati nelle scuole con la droga di strada illegale chiamata "Speed", che, quando viene ribattezzata "Ritalin", è una cura miracolosa per loro. Vorrei citare un’altra caratteristica della psichiatria strettamente correlata a questa, e che la rende diversa dal resto della medicina. Solo in psichiatria ci sono pazienti che non vogliono essere pazienti. Questo è fondamentale, perché la mia critica alla psichiatria è duplice. Una delle mie critiche è concettuale: affermo cioè, che la malattia mentale non è una vera e propria malattia. L'altra è politica, perché sostengo che la malattia mentale è un pezzo di retorica che serve come giustificazione per legittimare l'impegno civile e la difesa della follia. Dermatologi, oculisti, ginecologi, non hanno pazienti che non vogliono essere loro pazienti. Ma i pazienti degli psichiatri lo sono contro la loro volontà per definizione. Originariamente, tutti i pazienti con disturbi mentali sono stati pazienti contro la loro volontà negli ospedali statali. Questo concetto, questo fenomeno, costituisce ancora il nucleo della psichiatria. Ed è quel che vi è di fondamentalmente sbagliato nella psichiatria. A mio avviso, il ricovero coatto e la difesa della follia dovrebbero essere aboliti, esattamente come lo fu la schiavitù, o la privazione dei diritti civili delle donne, o la persecuzione degli omosessuali. Solo allora potremmo cominciare a esaminare le cosiddette malattie mentali come forme di comportamento, similmente ad altri comportamenti. RW: Nei suoi lavori ha criticato i termini di ospedalizzazione obbligatoria e di psichiatria coercitiva. TS: Mi scusi, tutta la psichiatria è coercitiva, di fatto o potenzialmente, perché una volta che una persona entra in studio di uno psichiatra, in determinate condizioni, quello psichiatra ha legalmente il diritto e il dovere di affidarla in custodia. Lo psichiatra ha il dovere di prevenire il suicidio e l'omicidio. Il sacerdote che ascolta una confessione non ha gli stessi obblighi. L'avvocato e il giudice non hanno lo stesso dovere. Nessun'altra figura sociale ha lo stesso potere dello psichiatra. E questo è il potere di cui gli psichiatri devono essere privati, proprio come alcuni bianchi hanno dovuto essere privati del potere di schiavizzare i neri. I sacerdoti un tempo potevano avere clienti involontari. Ora chiamiamo questo fenomeno “conversione religiosa forzata” e “persecuzione religiosa”, ma a suo tempo veniva chiamato "pratica della vera fede" o "amore di Dio". Oggi abbiamo conversione psichiatrica forzata e persecuzione psichiatrica, e la chiamiamo "salute mentale" e "terapia". Sarebbe divertente se non fosse così grave. RW: La natura simbolica la sociologia della psichiatria sono coercitive. Eppure, non ogni atto è alla lettera coercitivo. Qualcuno va da un dottore e dice: "Non riesco a dormire. Sono depresso. Può darmi qualcosa che mi aiuti a dormire, o che mi aiuti a svegliarmi?" Questo è un libero scambio. TS: Sì è esatto. Ci sono scambi volontari con gli psichiatri, almeno in linea di principio. Mi piace dire che approvo con tutto il cuore gli atti psichiatrici tra adulti consenzienti. Ma questi atti, nella loro natura, sono pseudo-medici, perché il problema in esame non è di carattere medico, anche perché tale tipo di transazione trae vantaggio dalla criminalizzazione del libero mercato dei farmaci. Perché si deve andare da un medico per avere un sonnifero o un tranquillante? Un centinaio di anni fa, non ce n'era bisogno, bastava andare in un drugstore, o da Sears Roebuck*, e si potevano acquistare tutti i farmaci che si voleva: oppio, eroina, idrato di cloralio. In un certo qual modo, la professione psichiatrica vive del fatto che solo i medici ora possono prescrivere farmaci, e il governo ha fatto sì che la maggior parte dei farmaci che la gente vuole richieda una prescrizione. RW: Come nota a margine, non è interessante, e preoccupante, osservare che la maggior parte di quanti finiscono in prigione per abuso o per spaccio di droga sono neri o appartengono alle minoranze, e che invece quelli con licenza di prescrivere sono spesso non-minoranza, e nella società vengono considerati eroi essenzialmente perché vendono quel che a volte è la stessa merce, anche se, ovviamente, prescritta legalmente? TS: In effetti. Discuto in dettaglio questa nuova forma di schiavizzazione nera nel mio libro Il nostro diritto ai farmaci. Per via delle leggi vigenti, i medici prescrivono gli psicofarmaci che spesso i pazienti vogliono e chiedono: è una versione medicalizzata dello spaccio di droga. I medici hanno fatto la stessa cosa che si faceva con i liquori durante il proibizionismo, cosa che era abbastanza redditizia. RW: E ora la psichiatria e la farmacologia possono costituire un giro d’affari redditizio. TS: La psichiatria è un giro d’affari redditizio solo in quanto partecipa di questi due privilegi medico-psichiatrici, o di questi due monopoli: prescrizione di farmaci che solo i medici autorizzati possono dare, e creazione dei propri pazienti, cioè trasformazione delle persone in pazienti contro la loro volontà. È una cosa che possono fare solo gli psichiatri. RW: "Qual è la sua opinione sulla cura psichiatrica per chi soffre di schizofrenia"o di male di vivere, come lo chiama lei, o difficoltà interpersonali, o intrapsichiche. Comunque le si chiamino, le persone soffrono o sono turbate per ragioni interne o per ragioni interpersonali. Qual è la sua opinione sull'uso di droghe legali o illegali per aiutare le persone a far fronte a queste cose? TS: Sto sorridendo perché so che conosce le mie opinioni! Tuttavia non vorrei formulare così la questione. A mio parere, l’uso di farmaci è un diritto umano fondamentale, come all'uso di libri o la preghiera. La questione diventa quindi cosa una persona vuole e come può ottenerlo. Se qualcuno vuole un libro, può andare in un negozio e averlo, o scaricarlo su Internet. Un farmaco dovrebbe poterlo avere nello stesso modo. Se non sa cosa prendere, allora può andare da un medico o un da farmacista e chiedere a loro. E poi dovrebbe essere in grado di andare a comprarlo. RW: Questo porta l’argomento sui farmaci di prescrizione e sulle leggi, temi sui quali ha scritto ampiamente. TS: In effetti. Le leggi sulla prescrizione dei farmaci sono una nota a piè di pagina nella proibizione delle droghe. Le leggi sulla prescrizione dovrebbero essere abrogate. Tutte le leggi sui farmaci dovrebbero essere abrogate. La gente potrebbe poi decidere da sé ciò che l’aiuta in modo più efficace nell’alleviare le proprie afflizioni esistenziali, ammettendo che lo voglia fare con una droga o un farmaco: oppio o marijuana o sigarette o Haldol o Valium. Dopo tutto, l'unico arbitro di ciò che affligge una persona mentalmente e di ciò che lo fa sentire e funzionare meglio, è il paziente, perché è lui a definire cos’è meglio. Non abbiamo nessun test di laboratorio per le nevrosi e le psicosi. Per quanto riguarda l'insonnia, di solito si tratta di un lamento, di una comunicazione indiretta per ottenere sonniferi. Non si può andare da un medico e dirgli: “Ti prego dammi la prescrizione per un barbiturico”. Chi lo facesse verrebbe diagnosticato e denunciato come tossicodipendente. Così si deve dire: "Non riesco a dormire." Come fa il medico a sapere se è vero? RW: Gli chiedi quante ore dorme, e lui dice due ore a notte. TS: Come può il medico sapere se è vero? Il termine "insonnia" può funzionare come una menzogna strategica che il paziente deve dire per ottenere la prescrizione che vuole. RW: Lei sembra avere una visione del modello medico della medicina diversa rispetto al modello medico della psichiatria. TS: Sì, moltissimo. Non parliamo del modello medico della medicina in medicina o del modello medico della polmonite. Non ci sono altri modelli. Non parliamo, per esempio, di modello elettrico del perché una lampadina si accende. Il linguaggio è molto importante. Se qualcuno dice: "Sono contro il modello medico della malattia mentale", ciò implica che la malattia mentale esiste, e che c'è n’è qualche altro modello oltre a quello medico. Ma non vi è alcuna malattia mentale. Per questo non è necessario nessun modello. La questione importante non è il modello medico, termine malamente abusato, il problema è il modello pediatrico, il modello dell’irresponsabilità, il fatto di trattare le persone etichettandole come malati mentali, come se fossero bambini piccoli e come se lo psichiatra fosse il loro genitore. I pilastri della psichiatria sono coercizioni e scuse razionalizzate dal punto di vista medico e legittimate dal punto di vista giuridico. RW: Se lei scegliesse di usare il termine “malattia mentale” come una metafora, o come uno pseudonimo, dove malattia significasse "disagio," indicando le persone che sono soggettivamente in difficoltà, assumendo il modello psicosociale della malattia mentale? Se sostituisse “malattia mentale” con "problemi emotivi"? TS: No. Non funzionerebbe. Quasi tutto può essere causa di problemi emotivi: essere nero, o essere poveri, o essere ricchi. Innumerevoli condizioni umane possono creare sofferenza. Quali dovremmo medicalizzare e quali no? Sono stati medicalizzati, psichiatrizzati, i neri in fuga dalla schiavitù, la masturbazione, l'omosessualità, la contraccezione. Oggi non lo si fa più, e si medicalizzano invece quel che una volta si chiamava malinconia, o la pigrizia, il suicidio, il razzismo, il sessismo. RW: Cambiamo marcia. TS: Non ancora. Perché voglio aggiungere che quello che chiamo "Stato terapeutico." è esattamente questa crescente tendenza a definire malattie i problemi umani, e a cercare di porvi rimedio, o di "aggredirli" come fossero malattie. RW: Certamente: tutto quel che si era soliti considerare dal punto di vista religioso ora è considerato dal punto di vista medico. È quasi una pura trasformazione. TS: Esattamente! Ed è assolutamente evidente. È necessario un sistematico ottundimento educativo e politico del pubblico perché non si veda. Trecento anni fa ogni condizione umana di difficoltà era vista come un problema religioso: la malattia, la povertà, il suicidio, la guerra. Ora tutto è visto come problemi di salute, come problemi psichiatrici, come problemi causati da geni e curabili con una "terapia". In passato, il diritto penale era intriso di teologia, oggi è intriso di psichiatria. RW: Il presidente Bill Clinton è un ottimo esempio di come usiamo modelli diversi per descrivere lo stesso problema. La moglie ha detto che i suoi problemi erano dovuti a difficoltà emotive incontrate nell’infanzia. Il fratello ha detto che era un sessuodipendente, perché era un drogato, anche lui. E Bill Clinton ha detto che era una questione di peccato, adottando il modello religioso. Così è andato da un pastore. TS: Questo è un’osservazione interessante. Ma bisogna notare che Clinton non è andato da un pastore vero e proprio. È andato da un politico, Jesse Jackson. Il suo compito era di ricostruire l’immagine di Clinton. E l’ha fatto. Clinton l’ha selezionato come ha fatto con altri, proprio come un imperatore medievale avrebbe scelto un vescovo per ricavarne un ritorno d’immagine. RW: Posso cambiare marcia adesso? TS: Certo. RW: Lei è conosciuto come un libertario. TS: Sì, sono un libertario. RW: Il libertarismo è una visione filosofica, un punto di vista economico e politico. Che cosa vuol dire rispetto al fatto di praticare la psicoterapia? TS: Inizierò dalla fine, per così dire. Se si usa la lingua con attenzione e si prendono sul serio libertarismo e psichiatria, allora il termine "psichiatra libertario" è semplicemente un ossimoro. Libertarismo significa che la libertà individuale è un valore più importante della salute mentale, comunque la si definisca. La libertà è certamente più importante che avere psichiatri che ti rinchiudono per proteggerti da te stesso. La psichiatria nasce e muore con la coercizione, con la restrizione sul piano civile. Una psichiatria non coercitiva è un ossimoro. Questo è uno dei motivi principali per cui non mi sono mai considerato uno psichiatra: ho sempre rifiutato la coercizione psichiatrica. Ora, in termini di filosofia politica, il libertarismo è quello che, nel XIX° secolo, è stato chiamato liberalismo. Al giorno d'oggi è a volte chiamato anche "liberalismo classico." Si tratta di un’ideologia politica che vede lo Stato come un apparato con il monopolio dell'uso legittimo della forza, e quindi come un pericolo per la libertà individuale. Al contrario, la moderna visione liberale considera lo Stato come un protettore, un genitore benevolo che offre sicurezza ai cittadini quasi come fossero bambini. Per me, essere un libertario significa considerare le persone come adulte, responsabili di quel che fanno, dalle quali ci si aspetta che si sostengano da sé, anziché essere sostenute dal governo, dalle quali ci si aspetta che paghino per quel che vogliono, invece di ottenerlo dai medici o dallo stato perché ne hanno bisogno. È la vecchia idea jeffersoniana che chi meno governa meglio governa. La legge dovrebbe garantire alle persone nel loro diritto alla vita, alla libertà e proprietà, proteggendole da chi vuole privarle di questi beni. La legge non dovrebbe proteggere le persone da se stesse. Ciò significa che, per quanto possibile, le cure mediche dovrebbero essere distribuite, economicamente parlando, come un servizio personale nel libero mercato. C'è molta saggezza nell’adagio, "La gente paga per ciò a cui dà valore, e dà valore a ciò che paga." È pericoloso discostarsi troppo da tale principio. RW: Perché devono per forza c’entrare i soldi? Chi ha meno soldi, non può permettersi le stesse cose di altri che hanno più soldi. Anche un povero può trarre beneficio dalla terapia. TS: Certo. La questione che lei solleva confonde però la ricerca di egualitarismo con i concetti di salute o di psicoterapia, e anche con la ricerca della salute. Perché la psicoterapia dovrebbe essere dispensata in modo più egualitario di altre cose? C’è da dire poi che spesso la gente dà maggior valore a cose diverse dalla salute, per esempio all’avventura, al pericolo, all’eccitazione, al fumo. Mi lasci elaborare questo problema. Gli economisti e gli epidemiologi hanno dimostrato, senza ombra di dubbio, che le due variabili più strettamente correlate con la buona salute sono il diritto di proprietà e la libertà individuale, il libero mercato. Chi gode oggi della migliore salute sono i cittadini dei paesi capitalisti in occidente e in Giappone, e quelli con la salute peggiore sono quelli che hanno goduto delle benedizione di ottant’anni di paternalismo statalista, sotto i regimi comunisti. In Unione Sovietica, dove la libertà politica e il benessere economico sono stati sistematicamente minati dallo Stato, dove si è avuta uguale miseria per tutti, l'aspettativa di vita è scesa da oltre settant’anni a circa cinquantacinque anni. Nello stesso periodo, nei paesi avanzati, è costantemente cresciuta ed è ora di quasi ottant’anni. La medicina c’entra poco con questo, perché la Russia ha avuto ampio accesso alla scienza medica e alla tecnologia. È soprattutto una questione di stile di vita, di quel che veniva chiamato buone o cattive abitudini. Ed è anche questione di buona salute pubblica, nel senso di mantenere una situazione ambientale protetta. RW: Lei ha scritto, L'etica della psicoanalisi nel 1965. Quel libro era la sua immersione nella psicoterapia e nella psicoanalisi. Che cosa può da dire su ciò che è utile in psicoterapia? Quali teorie tiene in considerazione o trova valide? Quando si è trovato in un rapporto libero di psicoterapia – per dirlo in breve, quello in cui una persona aiuta qualcuno sui suoi problemi personali – cos’ha trovato utile, e che teorie ha utilizzato nel suo lavoro? TS: Sta ponendo due domande: cosa ho trovato utile o interessante e che teorie ho usato. Il tipo di terapia che si fa, se lo si fa bene, a mio parere, è selezionato e dipende principalmente dal terapeuta. Persone diverse hanno diversi temperamenti e diversi modi di relazionarsi con gli altri. Poiché la relazione terapeutica è un rapporto intimo con un altro essere umano, il tipo di psicoterapia che ha senso per un terapeuta riflette il tipo di persona che è. A questo riguardo, la psicoterapia è quanto vi è di più diverso dalle terapie organiche in medicina. Il corretto trattamento del diabete non dipende, e non deve dipendere, dalla personalità del medico. È una questione di scienza medica. Per altro verso invece, il corretto trattamento di una persona in difficoltà che cerca aiuto è una questione di valori e stili personali da entrambi le parti, del terapeuta e del paziente. Un confronto adeguato per la psicoterapia non è con i trattamenti medici, ma con il matrimonio, o con il fatto di crescere dei figli. Che tipo di rapporto dovrebbe avere un uomo con sua moglie, e viceversa? Come si fa a crescere un bambino? Persone diverse si relazionano in modo diverso con le mogli o con i mariti o con i figli. Fintanto che il loro stile di vita per loro funziona, non c’è niente da aggiungere. Credo quindi, in primo luogo, che qualsiasi tipo di cosiddetta terapia – ogni tipo di situazione umana di aiuto che ha senso per entrambi i partecipanti e in cui si può entrare o uscire e che può essere condotta in modo interamente consensuale e volontario, e nella quale non c’è costrizione o frode – è, per definizione, utile. Se non fosse utile, il cliente non verrebbe e non pagherebbe. Il fatto che un cliente ritorni e paghi per quello che riceve da un terapeuta è per me le prova che la trova utile. La paragonerei, ancora una volta, alla religione, al fatto di andare in chiesa. Personalmente, io non sono religioso. Ma rispetto le religioni e quanti trovano conforto nella fede. Milioni di persone in tutto il mondo continuano ad andare in chiesa. Non vi andrebbero se non lo trovassero utile, ammesso che non vi vadano solo per motivi sociali, ma anche in questo caso ci vanno perché lo trovano utile, anche se non per motivi strettamente teologici. RW: Quale interesse inizialmente l’ha spinta a diventare psichiatra? TS: Non mi ha mai interessato diventare psichiatra e non mi sono mai considerato uno psichiatra. La psichiatria era una categoria in cui dovevo situarmi, data la società in cui viviamo. M’interessava la psicoterapia, in cui vedevo il cuore dei presupposti freudiani, e la promessa, che purtroppo non si è mai realizzata, di un codice professionale. Freud, Jung e Adler hanno avuto una buona idea, quella per cui due persone, un professionista e un cliente, s’incontrano in un rapporto di fiducia, e uno cerca di aiutare l'altro a vivere meglio la propria vita. Ognuno di questi pionieri ha messo in luce un aspetto diverso su come cavarsela nel modo migliore con questo problema. Ci sono tre angoli visuali della vita: il passato, il presente e il futuro. Freud si è soffermato sul passato, Jung si è soffermato sul futuro, Adler e Rank si sono soffermati sul presente. Tutto questo ha senso. Ma deve anche essere tagliato su misura perché abbia senso per il paziente. RW: Come funziona questo in termini di relazione terapeutica? TS: Il rapporto deve essere di totale collaborazione. I due possono incontrarsi solo poche volte, o molte volte per molti anni. Il terapeuta è al servizio del paziente. Questo non significa che deve essere d'accordo con tutto ciò che il paziente crede o vuole, lungi da ciò. Ma significa che al terapeuta è vietato, dal suo stesso codice morale, fare alcunché contro l'interesse del paziente, perché è il paziente a definire qual è il suo interesse. Questo fa parte della mia idea di contratto con il paziente. Ecco perché ho dato al mio libro il titolo L'etica della psicoanalisi. La terapia è una questione di etica, non di tecnica. È sempre stato fondamentale che i miei pazienti scegliessero da sé. Venivano quando volevano, venivano da me perché volevano vedere me, e non qualcun altro. E non c'è mai stato niente di tutto questo problema di essere pronti per terminare la terapia. Nello stesso modo in cui è il paziente a decidere se e quando iniziare la terapia, così è il paziente a decidere se e quando terminarla. Non vi è nulla di tutta questa storia per cui il terapeuta deve cambiare il paziente, o migliorarlo, o controllare il suo comportamento, o proteggerlo da se stesso, e così via. Spetta al paziente cambiare se stesso. Il compito del terapeuta è di aiutarlo a cambiare nella direzione in cui il paziente vuole cambiare, a condizione che questa direzione sia accettabile per il terapeuta. Se non lo è, tocca allora al terapeuta discuterne con il paziente e porre fine alla relazione. RW: Quali sono allora le aspettative del paziente? TS: Il paziente deve solo pagare. Questo può suonare come una battuta egoista. Non lo è. È importante. Spetta al paziente prendere quel che vuole dalla situazione. La situazione è simile a quel che succede a scuola, soprattutto all’università. Se si va a scuola e si paga per andarci, l'idea è che si dovrebbe imparare qualcosa. Ma non c'è coercizione. Alla fine, se uno non impara, sono affari suoi. È lui a perderci. RW: Lei ha detto che il cambiamento non è un requisito indispensabile, tuttavia la maggior parte delle persone vuole qualche cambiamento. TS: Non è così semplice. La gente vuole cambiare e al tempo stesso non vuole cambiare. Il comportamento che il paziente vuole cambiare è, in qualche modo – questo è molto freudiano – anche funzionale per il paziente, altrimenti l’avrebbe già cambiato, senza bisogno di terapia formale. Le persone possono cambiare da sé e lo fanno. RW: Adattamento? TS: Adattamento. Esattamente. I cosiddetti sintomi mentali sono piuttosto diversi dai sintomi medici. Un colpo di tosse, per esempio, se si ha una polmonite, è un fatto di adattamento: si libera il corpo dal muco e dal materiale infetto, da detriti di tessuti come l’espettorato. Ma è un fatto di adattamento solo in questa o in altra situazione patologica simile. Non è un adattamento a se stessi come essere umano. Una fobia invece, l’ansia, la depressione, e così via possono essere fatti di adattamento quasi come strategie di vita, strategie economiche o interpersonali. RW: Il suo obiettivo per la psicoterapia, cioè per il funzionamento umano completo, è di aumentare l’autonomia delle persone. Lei aveva questo obiettivo. TS: Questo era il mio obiettivo di fondo, quello che ho comunicato ai miei clienti come principio etico. La mia premessa è che la responsabilità, dal punto di vista morale, precede la libertà. Se quindi una persona vuole ottenere più libertà – riguardo alle sue paure, a sua moglie, al suo lavoro, e così via – deve prima assumere maggiori responsabilità nei loro confronti, poi si guadagnerà maggiore libertà rispetto a loro. L'obiettivo è di assumersi maggiori responsabilità e quindi guadagnare più libertà e più controllo sulla propria vita. I problemi o le domande per il paziente diventano fino a che punto sia disposto a riconoscere l’evasione dalle proprie responsabilità, che spesso si esprime come sintomi. RW: Si tratta di un dialogo. TS: Sì, è probabile che sia un punto focale del dialogo terapeutico. In realtà, alcuni dicono di voler fare questo o quello – per esempio vogliono smettere di fumare o vogliono essere un genitore migliore – ma in effetti poi non vogliono farlo, non vogliono rinunciare al piacere del fumo, o non vogliono farsi carico della cura di qualcuno che dipende da loro. Ci può essere qualcuno che viene a incontrare un terapeuta dicendo che vuole uccidersi. Ovviamente, non vuole solo questo. Vuole anche la psicoterapia. In breve, le persone sono spesso ambivalenti per quanto riguarda le scelte fondamentali. L'ambivalenza non è un sintomo patologico, è uno stato mentale normale di molte persone, adeguato per molte situazioni. RW: Torniamo di nuovo alla terapia. Lei non la sta più esercitando? TS: No, ma l'ho fatto per quarantacinque anni. RW: Qual era la cosa più difficile e quale la più soddisfacente per lei lavorando con le persone in situazione individuale? TS: Ho trovato molto soddisfacente esercitare la terapia, e per nulla faticoso. Ho lasciato Chicago per Siracusa principalmente per sfuggire alla necessità di mantenermi soltanto attraverso la pratica della terapia, cosa che può creare la tentazione, dal punto di vista finanziario, di rendere il paziente dipendente dalla terapia. Naturalmente, chiunque eserciti la terapia probabilmente può dirlo, ma penso che una gran quantità di persone abbiano tratto beneficio dal fatto d’intrattenere una conversazione con me. RW: Con tutto il lavoro che ha svolto in politica e in filosofia, il suo lavoro sulla psicoterapia è un po’ trascurato. Viene sottovalutato il fatto che lei fosse in trincea, ad aiutare le persone, a parlare con loro. TS: Molti di quelli che ho visto sarebbero stati diagnosticati da altri terapeuti come gravemente malati. Alcuni di loro sono stati diagnosticati come psicotici e messi sotto psicofarmaci. RW: Non hai mai prescritto farmaci? TS: No. Mai quando praticavo la psichiatria – intendo la psicoterapia. Non ho mai prescritto un farmaco. Non ho mai messo qualcuno in coma insulinico né sottoposto a elettroconvulsioni. Non ho mai fatto internare nessuno. Non ho mai testimoniato in tribunale che un criminale non fosse responsabile per i propri crimini. Sono entrato in psichiatria con gli occhi ben aperti. Non ho mai considerato la psichiatria o la psicoterapia come parte della medicina. Forse dovrei aggiungere, anche se dovrebbe essere ovvio, che non ho avuto obiezioni a che il paziente assumesse farmaci o che facesse qualsiasi altra cosa volesse. Per quanto mi riguarda, le cose che avvenivano al di fuori della stanza d’analisi non erano affari miei, nel senso che se il paziente voleva prendere farmaci doveva andare da un medico per averli, nello stesso modo in cui se avesse voluto il divorzio, avrebbe dovuto andare da un avvocato. RW: Con la situazione legislativa odierna è molto difficile, per un terapeuta o uno psichiatra praticare la psicoterapia. Si possono eludere un ricovero coatto, o altri mandati statali, o le richieste delle assicurazioni, ma quando arriva il momento critico, si è spinti a violare la discrezione o si finisce nei guai. TS: Questo è dir poco. Ai fini pratici, è impossibile. Il segno distintivo del totalitarismo è che lo Stato non ti lascia segreti personali. È il motivo per cui chiamo "Stato terapeutico" il nostro attuale sistema politico. Un simile Stato è il tuo amico, il tuo benefattore, il tuo medico. Perché gli si dovrebbe voler nascondere alcunché? Ricordiamoci che era impossibile fare psicoterapia nella Russia sovietica, o nella Germania nazista. Supponiamo che qualcuno venga da lei nella Germania nazista dicendole: "Tengo alcuni ebrei nascosti in cantina." Se non lo denuncia corre il rischio di essere messo in un campo di concentramento e gasato. Oggi se, tra gli altri compiti, non si riferisce che il paziente ha tendenze suicide, o omicide, o che è un molestatore di bambini, si cercano guai. In tal modo l’aspetto confidenziale della psicoterapia è messo fuori gioco, è finito. I terapeuti e i pazienti stessi si prendono gioco di sé dicendosi che non è così. Cosa si può fare? Niente. Di fatto siamo riusciti a rendere illegale il libero esercizio della psicoterapia! Lo psicoterapeuta è stato trasformato in un agente con l’obbligo di dichiarare, un agente dello Stato il cui compito è quello di tradire il suo paziente. Abusi sui minori, abuso di droga, violenza, suicidio: il terapeuta deve bloccare, deve impedire tutte queste cose. Il terapeuta dev’essere un poliziotto che finge di essere terapeuta. Sempre più spesso la gente si lamenta per qualcuno di questi problemi di riservatezza, ma non vede il quadro più ampio. Non vede che questo ha a che fare con l'alleanza della psichiatria e della psicoterapia con lo Stato, in un modo che replica l'alleanza tra Chiesa e Stato con tutte le sue implicazioni. RW: A maggior ragione, quando la gente va da un terapeuta che lavora in regime di convenzione, deve avere qualche problema per varcare la sua porta, per vedere il terapeuta e per parlare, o per chiedere i farmaci, ma non deve mostrare di avere troppi problemi. Se ci sono troppi problemi i pazienti sono visti come cronici e non possono ottenere aiuto. Pensa che un terapeuta che lavora in regime di convenzione sia in grado di esercitare liberamente la psicoterapia? E il paziente è libero di lavorare in psicoterapia? TS: La psicoterapia in regime di convenzione è un brutto scherzo. Sarebbe come la religione in regime di convenzione, o l'istruzione in regime di convenzione. Anche le cure mediche si complicano e si contaminano se il rapporto diretto tra medico e paziente è disturbato dall'ingresso di terzi, se il paziente, in qualche modo, non paga per ciò che riceve, e se non può ottenere ciò che vuole con i soldi che spende. La psicoterapia moderna è basata sulla psicoanalisi, e la relazione psicoanalitica era basata sul rapporto che intercorre tra il sacerdote e il penitente nel confessionale. Il punto cruciale del confessionale è l’autoaccusa da parte del penitente, e la promessa, da parte del sacerdote che la confessione ascoltata non avrà e non potrà avere conseguenze in questo mondo (ma solo in quello ultraterreno) per chi si autoaccusa . Un sacerdote che ascoltasse una confessione e che lavorasse come spia per lo Stato sarebbe un’oscenità morale. Cose del genere non si verificavano nemmeno nei giorni più bui del totalitarismo. La stessa cosa vale per la psicoterapia, basata sulla riservatezza e sulla premessa che il paziente si accusa con la speranza, così facendo e con l'aiuto del terapeuta, di essere in grado di cambiare se stesso. Quel che è veramente brutto nella psicoterapia oggi è che molti pazienti lavorano con la falsa convinzione che quel che dicono al terapeuta sia riservato, e i terapeuti non dicono prima ai pazienti che se tirano fuori certi pensieri e certe parole, il terapeuta è tenuto a segnalarlo alle autorità competenti, e che i pazienti in tal caso possono essere privatidella libertà, del lavoro, del loro buon nome, e così via. Ora, dovrebbe essere chiaro che collocare la psicoterapia sotto il controllo di una compagnia di assicurazioni o dello Stato è soltanto infilare una sciocchezza dietro l’altra. Possiamo ancora chiamarla psicoterapia, e possiamo ancora trattarla come se stessimo facendo psicoterapia, "cura delle anime," mentre, in linea di principio, non facciamo nulla di diverso da quel che si fa nella chirurgia ortopedica, sistemare un osso fratturato. Ma la psicoterapia è come quando si va in Chiesa. Ci si va volontariamente per un certo tipo di servizi che si vogliono ottenere da una certa persona. Ed è qualcosa che avviene sul piano spirituale. Non è sul piano fisico. RW: Mancano solo un paio di minuti alla fine. Vorrei porle un paio di altre domande. È stato un piacere parlare del suo modo di fare terapia, perché credo lei abbia poche occasioni di farlo, date le misure di sicurezza che stanno intorno a molte delle sue opinioni. TS: Grazie. RW: Ha ricevuto una gran quantità di critiche nel corso della sua carriera. TS: Può ben dirlo! RW: Forse una quantità enorme! Nel suo libro, Follia, lei segnala tutte le critiche. TS: Non tutte! RW: Non poteva menzionarle tutte? TS: No. Solo alcune (risate). RW: Come affronta questo aspetto? Lei è forse uno degli psichiatri più criticati della storia. Non conosco nessun altro che sia stato criticato come lei. TS: Sono stato molto fortunato. Ho avuto buoni genitori, un buon fratello, una buona educazione quando ero bambino a Budapest. Ho figli molto in gamba, buoni amici, buona salute, buone abitudini, una discreta intelligenza. Davvero, mi sono sempre sentito baciato dalla fortuna. Ha contribuito anche il fatto di sentire che molti hanno condiviso le mie opinioni. In fondo quel che sto dicendo che è semplicemente che 2 + 2 = 4. Molti però hanno paura di dirlo, e a volte può essere personalmente e politicamente imprudente dirlo. Non ho fatto nessuna scoperta scientifica. Sto semplicemente dicendo che se sei bianco e non ti piacciono i neri, o viceversa, questa non è una malattia, è un pregiudizio, o che se ti trovi inun edificio da cui non puoi uscire, non è un ospedale, è una prigione. Non m’importa quanti siano a chiamare il razzismo una malattia o il ricovero coatto un trattamento. RW: La critica l’ha mai abbattuto? TS: Certo che sì, soprattutto quando in realtà si puntava a ferirmi sul piano personale, professionale, legale. Non c'è bisogno di entrare in questi argomenti. Ho cercato di proteggermi e sono scappato, per fortuna. Ho trovato un aiuto sconfinato nella letteratura, nei grandi scrittori. Ibsen ha detto, tra le altre cose, che "una solida maggioranza ha sempre torto." RW: Un’ultima domanda. Oltre a essere stato molto criticato, lei è anche diventato per molti un po’ un eroe, per le cose per cui ha lottato, per la libertà, per i diritti individuali, per una maggiore libertà con responsabilità. Chi sono i suoi eroi, dall’infanzia a oggi? TS: Da dove iniziare? Sono molti. Shakespeare, Goethe, Adam Smith, Jefferson, Madison, John Stuart Mill, Mark Twain, Henry Louis Mencken, Tolstoj, Dostoevskij, Cechov, Orwell, Clive Staples Lewis, Ludwig von Mises, Friedrich August von Hayek, Camus e Sartre, anche se personalmente e politicamente trovo quest’ultimo piuttosto meschino. Era un simpatizzante comunista. Era disposto a chiudere un occhio sul Gulag. Ma era molto perspicace sulla condizione umana. La sua autobiografia è superba. Il suo libro sull'antisemitismo è importante. RW: Camus lo sfidò. TS: Sì, Camus ha rotto con lui, soprattutto sulla politica. Camus fu una persona migliore, un essere umano più degno di ammirazione. Fu anche uno scrittore formidabile. RW: Potremmo andare avanti su come ognuno di loro l’ha influenzato, ne sono sicuro, lo faremo un altro giorno, forse. Voglio ringraziarla per essere stato qui con noi oggi. Sono sicuro che i nostri lettori apprezzeranno la sua franchezza. TS: Grazie. * Famoso rivenditore per corrispondenza con sede a Chicago Fonte: Psychotherapy.net. Data di pubblicazione 2000 La Federazione delle Associazioni per la difesa della salute pubblica (FADSP) disapprova le Linee guida di pratica clinica per l'ADHD
Lo scorso 28 maggio è stato presentato a Madrid il libro bianco europeo sul Disturbo da deficit dell'attenzione e iperattività (ADHD). I professionisti presenti all'evento sostengono che "l’ADHD colpisce circa 1,4 milioni di persone in Spagna (300.000 bambini), che è sottodiagnosticata, che è la causa di un caso su quattro d’insuccesso scolastico, che la qualità della vita migliora dopo la diagnosi precoce e il trattamento e che dovrebbe essere considerata come una malattia cronica al fine di ridurre la spesa delle famiglie per gli psicofarmaci utilizzati per il trattamento, che passerebbe dagli attuali 40-50 euro (95-120 euro di pvp) a 4 euro al mese Questa richiesta sarebbe ragionevole se non fosse per la controversia scientifica che, in Spagna come in tutto il mondo, verte sull'eccesso di diagnosi e di trattamento di questo disturbo, che ha portato a un monito dell'UNICEF e dell’OMS. La richiesta contrasta inoltre con la petizione avanzata dalla Spagna per una giornata mondiale dell’ADHD e anche con il titolo del libro presentato "ADHD: rendere visibile l'invisibile" La richiesta ha provocato un’ondata di proteste, e non si può credere che i bambini vengano utilizzati a tale scopo. Proprio il governo degli Stati Uniti ha aperto un'inchiesta sul possibile collegamento tra questa diagnosi infantile di massa (un decimo degli alunni e un quinto degli studenti americani delle scuole superiori ne sarebbero affetti) e la crescita del numero di case farmaceutiche che commercializzano i prodotti per curarla, che hanno quintuplicato le vendite tra il 2007 e il 2012. In Spagna sono state inoltre presentate delle Linee guida cliniche sull’ADHD nei bambini e negli adolescenti, con le raccomandazioni teoricamente più appropriate per affrontare la diagnosi e il trattamento dell’ADHD. Le Linee guida sono state pubblicate nel 2010 e approvate dal MSPSI, ma come FADSP ne mettiamo in discussione l’indipendenza e la validità, in quanto: 1. C’è una totale mancanza di rappresentatività dei professionisti nel nostro SSN, perché le Linee guida sono state elaborate solo da professionisti catalani. 2. I due coordinatori e tutti gli altri componenti del gruppo di lavoro per le Linee guida sono professionisti dell'ospedale privata e religioso Sant Joan de Deu di Barcellona. 3. Allo sviluppo delle Linee guida hanno partecipato anche rappresentanti della fondazione "no-profit" Generalitat de Catalunya "ADANA" per il sostegno delle persone colpite da ADHD, il cui presidente è Isabel Rubio, membro della famiglia a cui appartiene la casa farmaceutica Rubio, che peoduce uno degli psicofarmaci più utilizzati per il trattamento del disturbo. 4. Il 70% dei dipendenti e il 50% dei revisori esterni delle Linee guida dichiarano conflitti di interesse, e sono stati trovati interessi non dichiarati che ledono tutti i contribuenti. 5. Alcuni partecipanti alle Linee guida che dichiarano conflitti di interesse sono anche autori di articoli che servono come avallo bibliografico per le Linee guida. 6. Il professionista più citato nella bibliografia (fino a 16 volte) è Joseph Biederman, indagato nel Senato degli Stati Uniti per aver ricevuto 1,7 milioni dollari da aziende farmaceutiche tra il 2002 e il 2007, per aver promosso la diagnosi di disturbi psichiatrici nell’infanzia. 7. Non sono presi in considerazione i risultati dell’agenzia basca per le tecnologie sanitarie Osteba sulla "Valutazione della situazione di cura e raccomandazioni terapeutiche in ADHD", dove si afferma che in Spagna vengono fatte prescrizioni non autorizzate, che non si seguono le indicazioni sanitarie e le cautele di base per la prescrizione di metilfenidato, come quelle dell'Agenzia spagnola di medicinali (Autorità competente) e più ampiamente che le Linee guida su questo disturbo non sono attendibili per la la loro bassa qualità. La FADSP disapprova le Linee guida per la gestione dell’ADHD in Spagna e richiede la stesura di nuove linee guida, con una partecipazione professionale pluralistica, senza di conflitti di interesse e basata sulle migliori prove disponibili, date le grandi implicazioni finanziarie, in un momento di forti tagli sui costi sanitari (secondo le aspettative degli estensori del libro bianco solo l’ADHD potrebbe costare 1,2 miliardi di euro all'anno, il 12% della spesa farmaceutica pubblica nel 2012) e per le conseguenze sulla salute attuale e futura dei bambini spagnoli e dei giovani trattati con psicofarmaci fin dall'infanzia. Federazione delle Associazioni per la Difesa della Salute Pubblica 10 giugno 2013 Intervista a François Ansermet a cura di Chiara Rosso
I progressi in campo biotecnologico relativi alla riproduzione umana non sono più appannaggio esclusivo degli specialisti in materia. Le speranze e gli sforzi di milioni di coppie che ricorrono alle tecniche di PMA (procreazione medica assistita) hanno trasformato il tema della “fecondazione in vitro” (FIV). La PMA è oggi divenuta una pratica sociale complessa. Essa tocca le origini dell’uomo, risvegliando fantasmi e desideri sepolti nella psiche umana». Così recitano le righe introduttive del libro dal titolo: Parentalité stérile et procréation médicalement assistée. Le dégel du devenir di F. Ansermet, C.M. Quijano, M. Germond, del 2006 (Genitorialità sterile e procreazione medica assistita. Il disgelo del divenire), oggetto di questa intervista, di cui il celebre Jacques Testart, molto noto in questo campo, ha curato la prefazione. Nella pratica psicoanalitica siamo messi a confronto, in modo crescente, con la sofferenza legata alle difficoltà procreative dei nostri pazienti. Talvolta accompagniamo gli «aspiranti genitori» lungo i meandri emotivi evocati dalle difficoltà che costellano il percorso della fecondazione assistita. Condividiamo gioia e sgomento per i loro successi ed insuccessi (questi ultimi purtroppo frequenti). Ma nel caso di riuscita della tecnica di PMA, che cosa succede dopo? Che cosa si dipana nella relazione tra genitori e figli e quali sono le ripercussioni sulla filiazione simbolica? Questo ed altri interrogativi giustificano la mia intervista a François Ansermet, uno degli autori di questo libro. L’opera dà voce in modo originale a più interlocutori sul tema ed è stata per me una scoperta felice e casuale, in occasione di un congresso parigino. Per esigenze di spazio, limito la mia attenzione alla parte psicoanalitica del libro, segnalando tuttavia l’interesse del contributo offerto dagli altri due autori. La semiologa Quijano ripercorre sapientemente le tracce linguistiche del trauma, insite nei discorsi delle coppie interpellate e il ginecologo Germond ci familiarizza con gli aspetti più scientifici di queste nuove frontiere tecniche. INTERVISTA D.: Professor Ansermet, lei è psichiatra, neuropsichiatra infantile e psicoanalista; assieme al Dottor Marc Germond, ginecologo e responsabile del Servizio di PMA di Losanna e alla Professoressa Claudia Quijano, linguista e semiologa, ha scritto questo lavoro, frutto di una lunga ricerca clinica, il cui scopo è quello di comprendere i movimenti inconsci che sottendono la pratica simbolica della filiazione. La vostra riflessione congiunta si focalizza sulla rappresentazione e quindi sulla relazione inconscia che hanno i genitori con il loro embrione congelato. Le coppie di volontari (23) che si sono sottoposte a questo studio avevano almeno due figli, di cui uno nato con la crioconservazione. Dalla raccolta delle interviste, emerge il disagio dei genitori nell’informare i parenti di questa scelta, profilandosi un conflitto tra il pensiero e l’azione. L’insieme delle tecniche della PMA sembra così diventare l’oggetto di un massiccio diniego. Nell’immaginario dei genitori, come voi sottolineate, viene maggiormente investita la fecondazione piuttosto che la gestazione e passa in sordina il coinvolgimento attivo dei genitori attraverso il prelievo di ovuli per la donna e la masturbazione dell’uomo, come se prevalesse ciò che il futuro genitore subisce piuttosto che ciò che fa. Tra fecondazione e gestazione vi è dunque un «differenziale sessuale» a cui si aggiunge, con il congelamento dell’embrione e con la possibilità di scegliere quando impiantarlo, un «differenziale temporale». Si realizza allora un divario tra il divenire dell’embrione e la genitorialità; la perdita del legame di filiazione, legame già compromesso dalla FIV, ha un effetto di discontinuità sul lignaggio, e innesca così un’onda d’urto che investe anche la generazione dei nonni. Nella vostra ricerca, infine, non mancate di interrogarvi sulle dimensioni psichiche assunte dalla ferita della sterilità. A chiusura di questo mio breve colpo d’occhio vorrei chiederle innanzitutto: Quali sono le ragioni e le circostanze che l’hanno condotta a scrivere questo libro assieme ai suoi colleghi? R.: Ho cominciato la mia carriera lavorativa in ambito perinatale a contatto con la dimensione traumatica connessa alla prematurità. I pediatri neonatologi con cui mi relazionavo non mancavano di sottolineare i grandi progressi realizzati nel campo del trattamento dei prematuri; nascevano infatti neonati con prognosi sempre più favorevole malgrado un peso corporeo al limite della sopravvivenza. Tuttavia ci chiedevamo, una volta scongiurata la problematica vitale, quali traumi psichici avrebbero dovuto affrontare in seguito questi bambini prematuri e i loro genitori? Nel corso di un’intensa attività clinica e di ricerca ci è stato possibile dimostrare come il vissuto traumatico dei genitori rappresentasse un elemento predittivo importante nell’influenzare lo sviluppo del bambino prematuro, al di là del grado del suo grado di prematurità ed in assenza di lesioni cerebrali. In qualità di psichiatra e di psicoanalista questi risultati mi hanno sorpreso, sono rimasto colpito da quanto il trauma dei genitori potesse influenzare l’avvenire del figlio! Negli anni seguenti, all’interno di una équipe composta da chirurghi pediatrici, neonatologi, medici genetisti, neuropsichiatri infantili, ginecologi ostetrici ed esperti in PMA, si è molto riflettuto sulle numerose problematiche connesse alla prematurità e alla diagnostica prenatale. Abbiamo dovuto prendere decisioni difficili nel caso di malformazioni fetali e siamo stati messi a confronto con situazioni delicate nell’ambito della PMA. Quando la PMA era agli esordi, si verificavano spesso gravidanze multiple. Coll’approfondirsi della ricerca si è deciso di ridurre questo inconveniente considerandolo un rischio maggiore rispetto all’affrontare più di un tentativo di PMA. Il lavoro congiunto in seno all’équipe suddetta ci ha permesso di inaugurare una nuova area d’intervento; quella del «campo perinatale» in cui viene sancita la continuità tra medicina riproduttiva, ginecologia ostetrica, diagnostica prenatale e pediatria.(1) Di formazione lacaniana, ho vissuto in un’epoca in cui la psicoanalisi era considerata il riferimento principale nell’ambito della psichiatria infantile. Del resto è difficile orientarsi in questo campo senza conoscenze psicoanalitiche. Già allora, tuttavia, sorgevano le prime resistenze alla psicoanalisi nell’area della psichiatria adulta e in quelle dell’assistenza sociale e della neuropsichiatria infantile. Con il tempo, ho potuto constatare quanto fosse importante affrontare il «campo perinatale» con strumenti psicoanalitici che mettessero in luce il tema del desidero inconscio, del trauma e dell’effrazione di ciò che viene considerato impensabile. Sempre più immerso in questo campo, ho avuto occasione di rivisitare i concetti psicoanalitici classici ribadendone l’utilità e adattandoli alla nuova dimensione. La clinica perinatale si pone dunque ai confini della pensabilità e investe la dimensione simbolica del linguaggio portando nuova linfa alla pratica psicoanalitica. Ho ripercorso la mia storia personale, seppur viziata da una ricostruzione in aprés coup, del resto soffriamo tutti di amnesia infantile e la questione delle origini investe maggiormente il «reale irrappresentabile» rispetto alla dimensione dell’«originario». Non sappiamo da dove veniamo, perché siamo noi e non altri, dove eravamo prima di nascere e via dicendo. Ci confrontiamo di continuo con la dimensione irrappresentabile della morte, come Freud la descrive nelle Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte, del 1915, oppure ancora in Al di là del principio del piacere, del 1920. Ma per tornare alla sua domanda, ho incontrato Marc Germond nel 1993 e ho lavorato con la sua équipe della PMA a Losanna. Di recente erano state scoperte nuove tecniche tra cui la ICSI (iniezione intracitoplasmatica di spermatozoi), realizzata per la prima volta a New York dall’italiano Palermo. Come si è spesso potuto constatare, gli specialisti della medicina riproduttiva si confrontano a domande senza risposta nella loro attività clinica. Mi ricordo, agli albori della PMA, del caso di una paziente che dopo sei anni di trattamento per la sterilità – una durata ottimale visto la tecnica ancor giovane – era finalmente rimasta incinta con la fecondazione omologa (quella eterologa pone altre problematiche ancora riguardo alla filiazione). Dopo i primi mesi di gestazione questa paziente richiese una interruzione di gravidanza. Per l’équipe fu un episodio traumatico ed incomprensibile e questo evento rappresentò un vero e proprio «momento di vertigine» per tutti noi! In quella precisa occasione la psicoanalisi venne convocata «d'urgenza» nel «campo perinatale», campo in cui lo psicoanalista non è uno specialista in più, ma la figura giusta, deputata ad affrontare temi esistenziali fondamentali e delicati, talvolta traumatici che afferiscono alle origini dell’uomo. Mentre la psichiatria mostrava crescenti resistenze alla psicoanalisi, ho potuto incontrare medici e operatori biologi delle biotecnologie di avanguardia, felici di trovare un punto d’incontro con gli psicoanalisti attorno al tema dell’impensabile e dell’irrappresentabile. Ciò avviene quando gli psicoanalisti stessi non si trincerino dietro la roccaforte del loro sapere, sentendosi sotto accusa per essere antiquati e fuori dal tempo e comunque non all’altezza dei bisogni attuali di una scienza soggetta allo statuto della prova. Nel corso della mia collaborazione con Marc Germond ho approfondito la questione della sterilità e della procreazione medica assistita tramite numerosi studi clinici, indagando il vissuto dei soggetti coinvolti. La ricerca clinica in psicoanalisi è molto importante, la clinica rappresenta l’esperienza che si esprime attraverso le varie «singolarità». È auspicabile trovare nuovi punti di riferimento a questa giovane frontiera clinica della PMA. A tal proposito sono ricorso all’aiuto di una semiologa e linguista di impronta «de Saussuriana». Il linguista Ferdinand de Saussure (2) sosteneva che nel particolare si trovasse l’universale. Il caso clinico contiene di per sé un insegnamento: se lo analizziamo dettagliatamente, ritroviamo in esso, pur nella sua specificità, costanti universali. Allora, piuttosto che paragonare dei casi ordinandoli secondo un asse soggettivo non confrontabile, perché non analizzare la stessa serie clinica secondo l’ottica delle loro peculiarità specifiche? Seguendo questo orientamento, il libro è frutto di una riflessione clinica corale alla luce della medicina riproduttiva, del pensiero semiologico e di quello psicoanalitico. D.: Il suo testo è di gradevole leggibilità e presenta uno stile unitario malgrado la scrittura a più mani. Contrariamente all’opinione comune che ci ricorda quanto talvolta siano poco «psicoanalitici» certi professionisti della salute, mi colpisce il taglio «psicologico» del suo libro. Si percepisce un profondo filo conduttore che lega insieme, voi tre Autori. A questo proposito partendo proprio dal titolo, vorrei chiederle due cose: cosa può dirmi sul concetto di «genitorialità sterile» che lei indica come un ossimoro ed in secondo luogo, quale tipo di trauma evoca la sterilità? R.: La nostra ricerca si centra sulla procreazione medica assistita autologa, ciò significa che la filiazione biologica, che oggi occupa un posto centrale nelle nostre rappresentazioni culturali, è conservata. Ripenso a quelle coppie che per le ragioni più svariate vivono situazioni difficili coi loro bambini e che si rivolgono a me con la seguente frase: «Noi siamo dei genitori sterili». Ecco allora che ci troviamo di fronte ad un paradosso, abbiamo dei genitori sterili che hanno avuto bisogno di una procreazione assistita ma che poi hanno un figlio nato da loro! Ma in fondo, quante forme di assistenza alla procreazione conosciamo? C’è il desiderio, l’amore, la sessualità, l’hotel, un periodo di vacanza, una panne di elettricità e, perché no, anche un’assistenza medica. La questione è che questi genitori non riescono a conciliare la loro fertilità, che è stata assistita, con la loro genitorialità. Parlare di «genitori sterili» significa trovarsi di fronte ad un «ossimoro», perché sì, si trattava di genitori sterili che in seguito sono divenuti non sterili grazie alla fecondazione assistita. Da un lato la clinica della PMA mette in rilievo il legame tra l’origine, la sessualità, la procreazione, la gravidanza e la nascita e dall’altro sottolinea l’eterogeneità di questi elementi. Dal punto di vista della mentalità biologica vi è senz’altro una continuità tra gli elementi suddetti mentre da quello psicologico le cose cambiano; siamo di fronte a passaggi di difficile raffigurazione come per esempio quello tra sessualità e procreazione. I bambini e più tardi gli adulti vivono il diniego della sessualità dei genitori, la sessualità non è rappresentabile, essa deve rimanere misteriosa e quasi scomparire. Se dunque sul piano della logica il legame tra sessualità e procreazione è chiaro, non avviene la stessa cosa sul piano soggettivo. Secondo la mia opinione, il problema insito nelle tecniche di PMA è, paradossalmente, proprio quello di porre l’accento sul ruolo della sessualità nella sua (esclusiva) dimensione procreativa, ciò avviene nella misura in cui la sessualità stessa viene aggirata. Questo aspetto sostanzia il dibattito etico, politico e religioso attorno la PMA. Ripensando alle teorie sessuali infantili, notiamo come nella dimensione procreativa, esse presentino la caratteristica di evitare il sesso. Nella immaginazione infantile, il «bambino» esce dalla bocca oppure dall’ombelico oppure ancora dall’ano ma in ogni caso tutto accade da solo. Mi capita di affermare in modo scherzosamente provocatorio che, alla fine, siamo tutti figli della PMA! Infatti è molto difficile ammettere che la sessualità abbia avuto un ruolo determinante nella nostra nascita. Ricordiamoci di come Freud abbia insistito sulla sessualità nello sviluppo infantile dei bambini e di come Jung stesso gli abbia rimproverato il suo pansessualismo. La PMA è «scomoda» perché sottolinea il posto occupato dalla sessualità nella procreazione; condizione ineludibile e a cui non possiamo sottrarci, ce lo dimostra il fatto di averla aggirata. I genitori sterili che si rivolgono alla PMA soffrono di un eccesso di «significatività sessuale» che incombe sull’origine dei loro bambini, mentre gli altri genitori dimenticano questo aspetto. I genitori che si rivolgono alla PMA hanno avuto difficoltà procreative e hanno fatto sesso a richiesta fino alla nausea. In questa particolare pratica clinica la questione sessuale si rivela essere fondamentale. Qui non si tratta solo di affrontare il problema dell’evitamento della sessualità quanto quello di porsi più domande rispetto ad altre condizioni cliniche della perinatalità. Per quanto concerne la PMA, dovremmo imboccare la strada della rimozione. Quando cominciamo a dire: «Il mio bambino è nato con...» ecco che l’enigma del sessuale si presentifica. L’amore o il bambino suppliscono alla impossibilità di pensare il rapporto sessuale. D.: Nel vostro libro ipotizzate la presenza di un trauma identitario per le persone coinvolte dalla PMA. È un trauma che destabilizza le fondamenta dell’ identità del soggetto nella misura in cui tocca le origini. Esso va al di là delle difficoltà procreative e delle ripercussioni sulla filiazione. Anche in base alla mia esperienza di confronto con colleghi o in ambito seminariale concordo con gli aspetti che lei descrive e ho notato inoltre l’emergere di intensi sentimenti di rabbia. Quale è la sua opinione in proposito e quali sono le sue riflessioni rispetto al vissuto dei genitori? R.: Sul piano identitario notiamo come spesso, a monte degli aspetti propriamente «traumatici» della PMA, siano in gioco le teorie sessuali infantili rimosse; si rischia dunque di fare confusione tra la causa e l’effetto. Nel caso estremo della interruzione di gravidanza di cui parlavo, si è visto che il rifiuto della gravidanza da parte della paziente era legato alle fantasie sulla procreazione e ai suoi aspetti traumatici. È importante valutare come venga vissuta soggettivamente la sterilità; si tratta di una castrazione, di uno stato di impotenza? Che cosa è esattamente la sterilità? La sterilità rappresenta l’interdetto di procreare come ricorda il mito di Edipo. Inizialmente, nel mito, Laio suscita l’ira degli dei per la sua relazione sentimentale con l’adolescente Crisippo, e viene punito con il divieto di procreare. Il mito narra che Laio non si curi di questo divieto e che un giorno, ubriaco, ingravidi la sterile Giocasta. Un grande ellenista, Jean Bollack, sottolinea nel mito edipico l’aspetto fondamentale del divieto di procreare. La trasgressione del divieto attacca la filiazione provocando l’estinzione della discendenza. Con questo voglio dire che probabilmente, coloro che si rivolgono alla PMA vivono la sterilità come un «divieto» alla procreazione; potremmo anche chiederci se la procreazione non inneschi un movimento atto a contrastare questo divieto. Per quanto concerne poi il vissuto genitoriale trovo interessante il modo in cui i padri parlano della PMA. Ho notato in loro una ripetuta tendenza a fare confusione tra l’ICSI (iniezione intracitoplasmatica di spermatozoi) e la IAD (iniezione artificiale di donatore). Dunque i padri, per il solo fatto di essere separati dai propri spermatozoi li confondono con gli spermatozoi di un terzo come se si sentissero defraudati del loro sperma. Alcuni padri dicono: «Avremmo potuto scegliere un altro spermatozoo». In questa situazione, al posto del caso spunta l’idea reificata di poter «scegliere»; la biologa ha scelto quello spermatozoo piuttosto che quest’altro; è l’equipe di terzi, dei tecnici PMA, ad aver scelto lo spermatozoo che darà origine a quel bambino e non a un altro. Si potrà allora attribuire la paternità o la «colpa» all’équipe. Tutte queste situazioni sono accomunate dal fatto che il padre tende ad auto-squalificarsi. Sul piano tecnico, l’ICSI consente l’assoluta la certezza di paternità, sempre che l’équipe sia, beninteso, ispirata a una corretta deontologia medica. Ovviamente si spera che non si realizzi ciò che Milan Kundera descrive nel suo romanzo Il valzer degli addii (3) dove il protagonista, ginecologo, utilizza il proprio sperma per la IAD! Nella PMA il padre deve ristabilire «l’incertezza» per esercitare la sua funzione paterna che è pur sempre connessa al fatto di non esser mai certa. Ed è paradossale l’idea di reintrodurre l’incertezza paterna nel cuore della certezza «tecnica» dell’ICSI! Eppure il padre affronta la propria elaborazione personale tramite la costruzione di uno scenario fittizio perché, mai come in questo caso, la genitorialità è una finzione. Ritornando al tema del rapporto tra genitorialità e sessualità potremmo dire che da circa una ventina d’anni la «genitorialità» è un concetto di successo, da quando cioè il bambino occupa un posto di importanza crescente nella nostra società. Ma più si mette l’accento sulla genitorialità, meno lo si mette sulla sessualità. Come neuropsichiatri infantili di ispirazione psicoanalitica abbiamo approfondito i concetti di genitorialità e di maternità a contatto con l’infanzia abbandonata e le madri depresse. La nostra professione del resto si è sviluppata per affrontare un deficit di genitorialità. La mia opinione è che la questione della sessualità maschile e femminile andrebbe ripresa all’interno della PMA poiché il concetto di genitorialità è insufficiente. Va ritrovata la necessaria separatezza tra l’uomo/padre e la donna/madre. E se la madre coltiva il suo esser donna è forse grazie alle cure del marito/padre. Ma capita che questa separazione tra la figura della madre e quella della donna venga ostacolata da un’ideale schiacciante di maternità e che la stessa cosa accada per l’uomo. Vi sarà allora «troppa» madre e «troppo» padre, e i genitori, fortemente impregnati dal loro ruolo genitoriale, appesantiscono il bambino. Qualcuno della mia famiglia che aveva partorito da poco mi mandò il messaggio seguente: «Sono dal parrucchiere, faccio rinascere la donna dalla madre!». Ecco un esempio della separatezza di cui parlavo prima. Nella PMA l’ideale di genitorialità è ingombrante e, a seconda dell’ottica dei professionisti che vi lavorano, possono sorgere difficoltà allorquando il legame sessuale tra l’uomo e la donna viene messo in secondo piano. Del resto a troppo volere si uccide il desiderio! La clinica della PMA ci invita a rivisitare in senso psicoanalitico le categorie del volere e del desiderare. Il desiderio è inconscio, va e viene come un furetto. E quando qualcuno mi dice: «È stato un bambino desiderato», credo che sia sicuramente un bene avere figli desiderati rispetto a quelle situazioni in cui i bambini sono maltrattati e rifiutati, tuttavia mi sembra necessario che le origini rimangano avvolte da un alone enigmatico e misterioso. D.: Le sue parole mi fanno venire in mente un detto che suona più o meno così: «È impossibile cogliere l’attimo in cui l’erba cresce, bisogna distogliere lo sguardo e costatarne, solo dopo, l’avvenuta crescita». In altre parole anche i bambini per crescere, così come l’erba, dovrebbero essere talvolta dimenticati e tenuti al riparo da uno sguardo di «abbagliante» premura, così carico di aspettative... R.: Sono d’accordo, questi bambini devono soddisfare delle attese, in caso contrario sorgono problemi. Un altro scoglio presentato dall’aspetto della sterilità e da come viene trattato all’interno della PMA è quello di rinviare continuamente il bambino alle sue origini. Una espressione classica di certe madri è la seguente: «Vieni qui, piccolo findus!», dove la madre sottolinea il legame tra il figlio e le sue condizioni di procreazione. Anche i tecnici della PMA e gli psicoanalisti corrono questo rischio adottando un atteggiamento conservatore. D.: A proposito della simbolizzazione, vi è un capitolo del suo libro – L’Edipo o il sopravissuto – in cui lei mette in luce le caratteristiche «eccezionali» di questi bambini, così come vengono dipinti dall’immaginazione dei genitori. Sono dei bambini «speciali» sopravvissuti alle tecniche di congelamento-scongelamento. Mi ha colpito l’esempio di una madre che, fantasticando su liti tra bambini, immagina che a suo figlio possa venir detto: «Taci tu che sei stato congelato!». Si direbbe dunque che al di là del destino eroico del bambino o di una sua diversità che potrebbe costituire un ostacolo evolutivo, la rappresentazione che di lui hanno i suoi genitori coincide con l’idea di «una traccia incisa come un solco nella mente e nel corpo in cui si registrano nuove e immaginarie coordinate relative al caldo e al freddo, facenti parte integrante dello schema corporeo». R.: Nel rinviare mentalmente questi bambini al loro luogo d’origine si può correre il rischio di «ri- congelarli». Non mi stanco mai di segnalare il problema legato ad un eccesso di conoscenza, al proliferare di immagini e di connessioni del tipo causa-effetto. Nel campo delle PMA il professionista può avere, in maniera più o meno grande, la responsabilità di indurre, provocare e quasi di prescrivere un legame biunivoco e continuativo tra la PMA e il divenire del bambino. Il professionista della prima infanzia che nel corso di una visita al piccolo paziente apprende le circostanze della sua nascita, rischia di sviluppare una «proiezione retrospettiva». Ciò accade di frequente da parte dei genitori, il problema è quando anche i curanti cedono a questa tentazione. D.: Lei non crede che le persone implicate a diverso titolo nella PMA si difendano in qualche modo dal trauma? R: È molto probabile che s'instauri un meccanismo di difesa nei confronti del trauma poiché tutto ciò che avviene in questo campo tocca profondamente ed in modo improvviso la soggettività di chi è coinvolto, di noi professionisti e degli altri operatori. Del resto non è perché un bambino è stato procreato alla tal ora, da tale équipe, che le sue origini diventino per questo spiegabili. Affinché il «divenire» possa spiccare il volo bisognerà ristabilire l’enigma delle origini. D.: Nel suo libro vi è un passaggio che ricorda il ruolo dell’amnesia nell’ambito delle PMA. Forse si dovrebbe oscurare un pochino una tecnica così illuminata dai riflettori, in altre parole «velare» le origini. R.: Ottima immagine! Bisogna rimettere il «velo» alle origini, in fondo se la prospettiva psicoanalitica è quella di svelare i meccanismi del trauma, questa pratica clinica della PMA ci mostra, come lei ricorda, la funzione dell’amnesia e del velo, necessari per permetterci di riappropriarsi della nostra soggettività. D.: A questo proposito, ho apprezzato molto una sua frase verso la fine del libro: «L’amnesia può forgiare una culla di libertà per questi genitori e i loro figli (...) sarà necessario conservare un posto vacante per un cammino inedito e bisognerà prevedere, letteralmente, un futuro imprevedibile!». R.: Nel campo delle PMA è dunque importante limitare la nostra conoscenza rispetto alle origini, non dovremmo in quanto psicoanalisti divenire specialisti nel predire il passato! Spesso ci può capitare di trasformare l’ipotesi in una prescrizione. Uno dei miei primi casi, seguito in collaborazione con l’équipe di Germond, era quello di un bambino nato con un rene policistico. Sia il chirurgo sia l’équipe avevano chiamato in causa il legame con la PMA e in un periodo successivo, la medicina riproduttiva venne aspramente criticata per questo fatto. Questo è un esempio della trappola insita in un legame troppo deterministico, un legame che dobbiamo contrastare perché ciascuno di noi possa sognare liberamente il proprio avvenire e diventare artefice del suo destino. L’esperienza clinica e le conoscenze acquisite debbono aiutarci a non trasformare in un «destino» la PMA. A questo proposito nel mio primo libro su questo argomento (4) sottolineavo il rischio di passare dallo spavento delle origini alla fascinazione per il destino. D.: Il nostro colloquio sta per terminare e ringraziandola per la generosità e ricchezza del suo contributo volevo, in ultima istanza, sottolineare il ruolo assegnato all’intervistatore nella sua opera. L’intervistatore riflette sui risultati delle interviste ai genitori, in seno ad una équipe di lavoro. È come se fossero necessari più livelli operativi per elaborare «in progress» gli aspetti traumatici del materiale raccolto. La struttura stessa dell’intervista, composta da più domande secondo una griglia stabilita, rappresenta forse la modalità più adatta per gestire un materiale così «scottante»? E l’intervistatore, potrebbe assumere il ruolo di un «terzo»? A questo proposito mi collego a quanto lei sottolinea circa la necessità di introdurre una triangolazione, pur sempre instabile e a rischio di scomparsa. Nel capitolo dal titolo «Ouranos/Cronos o della riproduzione speculare dell’onnipotenza» lei ci ricorda come il legame di filiazione si strutturi normalmente sulla base di una relazione a tre, per un minimo di tre generazioni diverse che si sviluppano secondo due linee genealogiche, una per ogni sesso. Senza il «terzo», dunque, il legame di filiazione verrebbe risucchiato in una dimensione speculare tale da diventare solo una «Immagine riflessa che si specchia negli occhi del genitore onnipotente». Della triade madre/padre/bambino nell’immaginario parentale non resterebbe allora che la dualità: genitore onnipotente /bambino. Quale è la sua opinione? R.: È chiaro che attraverso il lavoro di équipe creiamo un altro scenario, un artifizio, come avviene in psicoanalisi dove non è tanto il divano di per sé stesso che «fa» la psicoanalisi ma il divario che esso contribuisce a creare tra analista e paziente costituendo così una parte del setting. Allo stesso modo, più livelli di intervento creano un divario, articolano uno spazio. Tornando ad un tema che mi è caro, mi piace pensare che le nostre riflessioni conducano soprattutto ad una elaborazione della causalità. Come ho già sottolineato, noi psicoanalisti tendiamo a collegare la causa con l’effetto anche se sappiamo che non sempre è il caso. In filosofia per esempio, vi è il paradosso del «futuro contingente». Ad un momento X un certo avvenimento può o meno avere luogo. Ecco la contingenza. Tale spermatozoo, tale ovulo. Una volta che l’incontro si è realizzato non è possibile tornare indietro, il contingente dunque, diventa necessario. Per il clinico e per l’individuo si profila un’insidia perché se il contingente che scaturisce dal caso è divenuto necessario, si potrà pensare in modo analogo, che la stessa contingenza rientri già nella categoria del necessario. D.: Come direbbe Aristotele: «Il passato è necessario e il futuro è possibile?» R.: Assolutamente sì! A proposito di questo paradosso del «futuro contingente» sia i genitori che noi professionisti cadiamo nella trappola di poter avere tutto sotto controllo allorquando non si può far altro che trasformare qualcosa di contingente in qualcosa di necessario, come ho appena detto. Una volta che il bambino arriva non si può tornare indietro ma è chiaro che quel bambino avrebbe potuto non esserci. Tutto ciò rappresenta un momento di vertigine per l’essere umano, un momento di cui noi, troppo esperti dei legami consecutivi e diretti, dovremmo tener conto. Sarebbe importante adeguare la nostra scienza alle risposte del soggetto piuttosto che insistere sulle cause determinanti. Riconsegnando le origini al mistero, inscriviamo nuovamente il futuro nel campo del possibile. 1 La «Collection La vie de l’enfant», curata da Sylvain Missioner (ed. érès), raccoglie pubblicazioni su questi argomenti. Tale Collezione viene fondata nel 1959 da Michel Soulé. 2 F. de Saussure, svizzero, noto per il suo celebre Corso di linguistica generale, del 1915, sviluppò la linguistica strutturale a cui si ispirò Lacan nella sua interpretazione dell’opera freudiana, introducendo l’uso del concetto di «significante». Il figlio Raymond, brillante psicoanalista è uno dei fondatori della Società psicoanalitica di Parigi, nel 1926, assieme a Charles Odier. 3 M. Kundera (2004). Il valzer degli addii. Milano, Adelphi (trad.it. Serena Vitale). 6 4 F. Ansermet (1999). Clinique de l’origine. L’enfant entre la médecine et la psychanalyse. Lausanne, Payot. (trad. ital) Clinica dell’origine. Il bambino tra medicina e psicoanalisi. Milano, FrancoAngeli, 2004. Da tempo in Italia, in Spagna, in Francia, il problema dell'autismo è venuto all'attenzione della politica, che si è mossa sul piano amministrativo per promuovere piani d'intervento, diversi nei vari paesi, ma che hanno dovunque suscitato polemiche. Ricevuiamo e volentieri pubblichiamo il comunicato dell'Association des Psicholoques freudiens, che fa valere in questo senso una posizione critica
Comunicato stampa dell’Association des Psychologues Freudiens Marie Arlette Carlotti, vice Ministro per la disabilità e la lotta contro l'emarginazione, ha presentato giovedì 2 maggio 2013 il terzo piano per l’autismo che sarà valido per il periodo 2013-2017. Il progetto segna la volontà amministrativa di coartare le pratiche di sostegno e cura. Al tempo stesso le osservazioni del ministro riportate dalla stampa – "Sia chiaro, saranno forniti i mezzi per funzionare solo alle istituzioni che lavoreranno nel senso in cui chiediamo loro di lavorare" – confermano una volontà di gestione e d’intromissione nel dibattito scientifico sull‘autismo, a scapito dei bambini e delle loro famiglie. L’associazione Psicologues Freudiens non ha nessuna intenzione di fare pressione. Chiede solo il rispetto dei diversi approcci all'autismo, nel momento stesso in cui negli Stati Uniti, che per certe politiche servono come termine di paragone, vengono utilizzati come esempio di ciò che si fa di meglio in questo campo. Gli studi anglosassoni indicano tuttavia un’evoluzione della situazione, dopo il momento in cui venivano erogate sovvenzioni esclusivamente per le pratiche educative. Il terzo livello del piano sull’autismo, pur pretendendo di "recuperare un ritardo" commette in realtà gli errori che nel contesto degli Stati Uniti risalgono ad anni fa. Veniamo a sapere, al tempo stesso, che il Ministro Carlotti sta usando il proprio archivio elettronico di associazioni di genitori per collegare questo piano alla sua candidatura come sindaco di Marsiglia. Questa confusione non può certo rassicurare i professionisti, in particolare gli psicologi freudiani, sulle vere intenzioni di questo piano. Psicologues freudiens fa notare di aver partecipato con entusiasmo, il 2 giugno 2012, al Forum sul problema clinico dell’autismo, organizzato dall’ACF del Massiccio centrale a Tulle, insieme con l'Istituto Psicoanalitico di Bambino . Questo Forum si è tenuto, grazie agli auspici di Francois Hollande, nella sala Corrèze all'Hotel du Departement "Marbot", come ricorda Jean-Robert Rabanel, presidente di IR3, nella sua lettera aperta al Ministro. L'Associazione Psicologues freudens, i suoi membri, la sua segreteria, dichiarano di rifiutare la prospettiva mercantile di un piano che per lo Stato sancirebbe la rinuncia a una politica pubblica sull’autismo di più ampio respiro. Siamo a disposizione del Ministro e dei parlamentari manifestare questo rifiuto e testimoniare loro del lavoro quotidiano che svolgiamo nelle unità terapeutiche, nelle associazioni o negli ospedali in cui siamo presenti. Nathalie Georges Lambrichs, Presidente Stella Harrison, vice Presidente & René Fiori, vice-Presidente Consiglieri: Isabelle Galland, Luc Garcia, Teresa Petitpierre, René Saboural http://www.psychologuesfreudiens.org/ Inquietante proposta del Dipartimento di Salute Mentale di Oristano che si prefigge di “rilanciare” l’elettroshock.
Oristano. L’elettroshock “è persino preferibile, rispetto ai farmaci, per le donne in gravidanza”, questa l’agghiacciante dichiarazione riportata dalla stampa locale del Direttore del Dipartimento di Salute Mentale Giampaolo Minnai. Dopo l’inquietante iniziativa del Dipartimento di Salute Mentale di Oristano che pochi giorni fa ha organizzato un convegno per rilanciare la barbara pratica dell’elettroshock, il Comitato dei Cittadini per i Diritti Umani ha deciso di intraprendere una serie di iniziative, inclusa la segnalazione alle autorità competenti, al fine di difendere le persone affette da disagio mentale. Secondo quanto riportato dalla stampa locale, il convegno sull’elettroshock organizzato all’ospedale “San Martino” di Oristano appare essere una sfacciata promozione di questa “pratica” che, tra l’altro, viene effettuata proprio in tale sede. L’opera di disinformazione attuata dagli organizzatori è sconvolgente. Per prima cosa l’uso stesso della parola “terapia elettroconvulsivante (TEC)” è fuorviante, dato che si tratta sempre e comunque di un elettroshock camuffato con farmaci bio-rilassanti che rendono la procedura meno sgradevole alla vista, ma certamente non meno dannosa. E un altro mito diffuso dagli organizzatori è che l’elettroshock non sia redditizio. A questo proposito ci chiediamo quali siano gli introiti dell’ospedale per gli elettroshock amministrati nello stesso e soprattutto chi abbia finanziato il convegno. Il nostro comitato ha informato anche la dirigenza di CittadinanzAttiva in merito al loro presunto sostegno all’elettroshock pubblicizzato alla stampa locale. Ci risulta infatti che Cittadinanzattiva assieme a Libera, Unasam, Legacoopsociali aderisca alla campagna di Psichiatria democratica “No elettroshock” che si batte contro tale pratica disumana, distruttiva e altamente lesiva dei diritti dei pazienti. Nelle parole degli organizzatori riportate dalla stampa, fioccano anche altre affermazioni prive di fondamento in cui, a dispetto del recente documento delle Nazioni Unite che include l’elettroshock tra gli strumenti di tortura, si sostiene addirittura che l’elettroshock abbia “meno effetti collaterali e migliori risultati clinici” o addirittura che “migliori l’attività cerebrale e dia migliori effetti sul sistema nervoso centrale”. Ci chiediamo come sia possibile che queste affermazioni provengano da medici regolarmente assunti nel sistema sanitario pubblico e che si presume abbiano una laurea universitaria. Ci auguriamo vengano smentite e chiarite esaurientemente dagli interessati. Infatti, uno studio del 14 marzo 2010 “L’efficacia della terapia elettroconvulsivante: una revisione della letteratura” di John Read (Dipartimento di Psicologia, Università di Auckland – Nuova Zelanda) e Richard Bentall (Dipartimento di Psicologia, Università di Bangor, Galles – Regno Unito) è giunto a queste conclusioni: «Una revisione precedente, opera di uno degli autori di questo testo (Read, 2004), giunse alla conclusione che: “Non esiste assolutamente nessuna prova che questa terapia abbia alcun beneficio per nessuno che duri più di qualche giorno. L’ECT non previene il suicidio. Il beneficio che alcuni possono trarne nel breve periodo semplicemente non giustifica correre i rischi che la terapia comporta.” … Non c’è assolutamente nessuna prova del fatto che la terapia abbia effetti benefici per alcuna persona oltre il periodo del trattamento, o che prevenga il suicidio. Il brevissimo beneficio ottenuto da una piccola minoranza non può giustificare i rischi significativi a cui sono esposti tutti i pazienti sottoposti a ECT.» Secondo la nota del Ministero della sanità alle regioni del 15 febbraio 1999 la letalità della TEC è di circa 2-3 per 100 mila applicazioni somministrate e di 1 per 10 mila pazienti trattati. Sono state poi riscontrate lesioni celebrali, perdita di memoria (a volte transitoria) e di identità e, comunque, nell'80 per cento dei casi il paziente è soggetto a ricadute. L'elettroshock, pertanto, ben lungi dall'essere una terapia efficace, si caratterizza per l'invalidazione intellettiva e sociale che provoca ai pazienti, degradandone la dignità e compromettendone il reinserimento nella collettività. Il nostro comitato continuerà l’opera di segnalazione e informazione, finché gli organizzatori del convegno non saranno stati correttamente sanzionati per la loro opera di disinformazione, e questa pratica brutale non sarà stata abolita in tutta la Sardegna e nel resto d’Italia. Per maggiori informazioni sull’elettroshock: http://www.ccdu.org/ect/elettroshock Silvio De Fanti Comitato dei Cittadini per i Diritti Umani Onlus www.ccdu.org Come avvennero l'espunzione dell'omosessualità dal DSM e la nascita della terapia riparativa16/6/2013 Un esponente di primo piano della psichiatria si scusa per il sostegno alla 'cura' degli omosessuali
Il dr. Robert L. Spitzer è uno dei più importanti artefici della moderna classificazione dei disturbi mentali. Alex Di Suvero PRINCETON, NJ - Il fatto nudo e crudo è che ha commesso un errore e, a termine di una carriera lunga e rivoluzionaria, non importa quante volte abbia avuto ragione, quanto potente fosse un tempo, o che cosa questo avrebbe potuto significare per il suo lascito intellettuale. Il dr. Robert L. Spitzer, considerato da alcuni come uno dei padri della psichiatria moderna, rimase sveglio fino alle quattro di mattina sapendo di dover fare una delle cose che gli vengono meno facili. Si alzò e camminò barcollando nel buio. La scrivania gli sembrava incredibilmente lontana. Il dr. Spitzer, che compirà ottant'anni la prossima settimana, soffre del morbo di Parkinson, ha difficoltà a camminare e a sedersi, anche tenendo la testa in posizione verticale. La parola che a volte usa per descrivere questi limiti è "patetico ", ed è la stessa parola che per decenni ha brandito come un'arma per combattere le idee stupide, le teorizzazioni vuote e gli studi che sono solo spazzatura. Ora davanti al suo computer, era pronto a ritrattare uno studio che lui stesso aveva fatto, una ricerca mal formulata nel 2003 nella quale sosteneva l'opportunità di utilizzare la cosiddetta terapia riparativa per "curare" l'omosessualità in persone fortemente motivate a cambiare. Che dire? La questione del matrimonio omosessuale stava ancora una volta agitando la politica nazionale. In California si stava discutendo un disegno di legge per vietare definitivamente la terapia riparativa come pericolosa. Un giornalista che era stato sottoposto alla terapia da adolescente gli aveva recentemente fatto visita per spiegargli come l'esperienza fosse stata per lui disperatamente disorientante. Avrebbe poi saputo che un rapporto dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, pubblicato il giovedì precedente, definiva la terapia come "una grave minaccia per la salute, il benessere, e anche la vita delle persone interessate." Le dita del dottor Spitzer scattarono sui tasti del computer, inarrestabili, come schiacciassero le parole. E in un attimo fu fatto: una breve lettera da pubblicare entro il mese, nella stessa rivista in cui apparve lo studio originale. "Credo", conclude, "di dovere le mie scuse alla comunità omosessuale." Disturbatore della pace L'idea di studiare la terapia riparativa fu soltanto di Spitzer, dicono quelli che lo conoscono bene, e fu un tentativo di contrastare un'ortodossia che lui stesso aveva contribuito a creare. Alla fine del 1990, così come oggi, l'istituzione psichiatrica considerava inutile questa forma di terapia. Pochi terapeuti pensavano che omosessualità fosse una malattia. Non è però stato sempre così. Fino agli anni Settanta, il DSM aveva invece classificato l'omosessualità come una malattia, definendola un "disturbo sociopatico della personalità." Molti terapeuti proponevano un trattamento, e tra questi anche gli analisti freudiani, che a quell'epoca dominavano il campo. Il movimento degli omosessuali si era furiosamente opposto all'idea e, nel 1970, un anno dopo le proteste che ebbero luogo a Stonewall – proteste che segnano un punto di riferimento storico – per far smettere le incursioni della polizia in un bar di New York, un gruppo di manifestanti per i diritti omosessuali fece irruzione in un convegno di terapeuti comportamentali riunitisi a New York per discutere l'argomento. La riunione fu sciolta, ma non prima che un giovane professore della Columbia University si fosse seduto con i manifestanti per sentire il loro punto di vista. "Sono sempre stato attratto dalle polemiche, e quel che sentivo aveva senso", ha detto il dottor Spitzer, in un'intervista nella sua casa di Princeton la scorsa settimana. "Ho cominciato allora a pensare: bene, se si tratta di un disturbo mentale, allora cosa lo rende tale?" Paragonando l'omosessualità ad altre condizioni definite come disturbi, quali la depressione e l'alcolismo, si rese subito conto che quest'ultimo è causa di forte disagio o genera uno stato invalidante, cosa che non sempre succede con l'omosessualità. Considerò anche la possibilità di fare qualcosa al riguardo. Il dr. Spitzer era allora membro di una commissione dell'American Psychiatric Association che aveva il compito di riscrivere il DSM, e ha rapidamente organizzato un simposio per discutere la collocazione del problema dell'omosessualità. Questo ha dato il via a una serie di aspri dibattiti, che hanno portato il dr. Spitzer a scontrarsi con una coppia di autorevoli anziani psichiatri che non voleva cedere. Alla fine, l'American Psychiatric Association nel nel 1973 si schierò con il dr. Spitzer, decidendo di escludere l'omosessualità dal DSM e sostituendola con la menzione alternativa "disturbo sessuale dell'orientamento", per indicare le persone il cui orientamento sessuale, omo o etero che fosse, causava sofferenza. Nonostante la formula adottata fosse un po' arcana, l'omosessualità non era più un "disturbo". Il dr. Spitzer era riuscito in un tempo record a realizzare un importante passo avanti importante nell'affermazione dei diritti civili. "Non direi che il nome di Robert Spitzer sia diventato familiare nella base del movimento omosessuale, ma la declassificazione dell'omosessualità è stata ampiamente celebrata come una vittoria", ha detto Ronald Bayer, docente presso il Centro per la Storia e l'Etica della Salute pubblica alla Columbia University. "Alcuni giornali omosessuali titolavano: 'Non più malati'." Come conseguenza di questo, il dr. Spitzer s'incaricò del compito di aggiornare il DSM. Si mise al lavoro insieme a una collega, la dr.ssa Janet Williams, ora sua moglie. Non è stata ancora pienamente valutata l'ampiezza del suo pensiero sul tema dell'omosessualità, pensiero che ha portato una vasta riconsiderazione su ciò che è la malattia mentale, e su dove occorra tracciare la linea di confine tra ciò che è normale e ciò che non lo è. Il nuovo manuale, un volume della mole di cinquecentosessantasette pagine, pubblicato nel 1980, contro ogni previsione è diventato un best seller in America e all'estero, e ha immediatamente stabilito lo standard per i futuri manuali di psichiatria, innalzando il suo principale artefice, che si stava allora avvicinando ai cinquanta, al vertice della propria disciplina. È stato il custode del libro, in parte dirigendolo, in parte facendosene ambasciatore, e in parte sacerdote scontroso, ringhiando al telefono contro scienziati, giornalisti o politici che pensava non fossero interlocutori all'altezza. Ha assunto su di sé il ruolo come se fosse nato per questo, dicono i colleghi, per aiutare a mettere ordine in un angolo storicamente caotico della scienza. Ma il potere lo ha confinato in una sorta di isolamento. Il dr. Spitzer poteva ancora turbare la pace, è vero, ma non poteva più lavorare ai fianchi, come un ribelle. Ora era in posizione istituzionale. Alla fine del 1990, dicono gli amici, era inquieto come sempre, desideroso di sfidare i luoghi comuni. È questo il momento in cui s'imbatte in un altro gruppo di protesta, in occasione della riunione annuale dell'associazione psichiatrica tenutasi nel 1999: si tratta di un gruppo di sedicenti ex-omosessuali. Come gli omosessuali che protestavano nel 1973, anche loro erano indignati per il fatto che la psichiatria stesse negando la loro esperienza e qualsiasi terapia che potesse aiutarli. La terapia riparativa La terapia riparativa, a volte chiamata "riorientamento sessuale" o terapia di "conversione", affonda le radici nel' idea di Freud che le persone nascono bisessuali e possono muoversi in un continuum da un estremo all'altro. Alcuni terapeuti erano rimasti legati a queste idee, e il dr. Charles W. Socarides – che fu uno dei principali rivali del dr. Spitzer nel dibattito del 1973 – fondò un'organizzazione chiamata Associazione Nazionale per la Ricerca e la Terapia dell'omosessualità (National Association for Research and Therapy of Homosexuality o NARTH), nel sud della California, per promuoverle. Nel 1998 il NARTH aveva formato forti alleanze con alcuni gruppi sociali conservatori, iniziando insieme a questi un'aggressiva campagna e pubblicando annunci a tutta pagina nei principali giornali dove si esaltavano storie di successo terapeutico dell'omosessualità. "Un certo numero di persone che fondamentalmente condividevano la stessa visione del mondo si erano riunite creando i propri gruppi di esperti che offrissero prospettive politiche alternative", dice il dr. Jack Drescher, psichiatra di New York e coeditore di "La ricerca sugli ex omosessuali: analizzare lo studio di Spitzer e le sue relazioni con la scienza, la religione, la politica e la cultura ". Per il dottor Spitzer, la questione che valeva la pena di porsi sul piano scientifico era: qual è stato l'effetto della terapia, se c'è stato? Gli studi precedenti erano stati svianti e inconcludente. "Alcuni in quel momento mi hanno detto: 'Bob, ti rovini la carriera, non farlo – dice il dr. Spitzer – ma io mi sentivo invulnerabile." Reclutò così duecento persone, uomini e donne, nei centri dove si stava conducendo la terapia, tra cui l'Exodus International, con sede in Florida, e il NARTH. Fece loro prolungati colloqui telefonici, interrogandoli sulle loro pulsioni sessuali, sui sentimenti e sui comportamenti prima e dopo aver fatto la terapia, valutando le risposte su una scala. Confrontò i punteggi di questo questionario, prima e dopo la terapia. "La maggioranza dei partecipanti riferì di un cambiamento di orientamento sessuale da un orientamento prevalentemente o esclusivamente omosessuale prima della terapia, a uno prevalentemente o esclusivamente eterosessuale rilevato lo scorso anno," concluse nel suo articolo. Lo studio, presentato prima della pubblicazione in un convegno di psichiatria nel 2001, fece immediatamente sensazione, e gruppi di ex-omosessuali vi si attestarono come solida prova del loro caso. Si trattava dopo tutto del dr. Spitzer, l'uomo che agevolmente aveva eliminato l'omosessualità dal DSM. Nessuno poteva accusarlo di parzialità. Ma i leader del movimento omosessuale lo accusarono di tradimento, e avevano le loro ragioni. Lo studio incontrò seri problemi. Si basava infatti sulle sensazioni che le persone ricordavano da anni prima, ricordi spesso confusi. Includeva poi alcuni militanti del movimento degli ex-omosessuali politicamente attivi. E non metteva alla prova nessuna particolare terapia: solo la metà dei partecipanti era impegnata con un terapeuta, mentre gli altri avevano lavorato con consulenti religiosi, o da soli avevano fatto studi sulla Bibbia. Diversi colleghi, dice il dr. Spitzer, avevano cercato di fermarlo prima, pregandolo di non pubblicare lo studio. Tuttavia, fortemente investito, dopo tutto il lavoro svolto, si rivolse a un amico ed ex collaboratore, il dottor Kenneth J. Zucker, psicologo, direttore del Centro per la Salute Mentale e Dipendenze di Toronto ed editore della prestigiosa rivista Archives of Sexual Behavior. "Conoscevo Bob e la qualità del suo lavoro, e accettai di pubblicare lo studio," ha detto il Dott. Zucker in un'intervista settimana scorsa. Il lavoro non passò attraverso l'abituale processo di revisione, in cui esperti anonimi leggono e criticano un manoscritto prima della pubblicazione. "Gli dissi però – aggiunge il dr. Zucker – che lo avrei pubblicato così solo se insieme allo studio avessi pubblicato anche i commenti" di risposta di altri scienziati ". Quei commenti, con poche eccezioni, furono spietati. Uno citava il codice etico di Norimberga per denunciare lo studio come non solo distorto, ma come moralmente errato. "Siamo preoccupati per le ripercussioni che questo studio potrà avere, come un aumento della sofferenza, del pregiudizio e della discriminazione", ha concluso un gruppo di quindici ricercatori del New York State Psychiatric Institute, lo stesso Istituto di cui il dr. Spitzer era affiliato. Il dr. Spitzer nel suo studio, non aveva minimamente considerato che essere omosessuali fosse una scelta, o che chiunque volesse cambiare orientamento potesse farlo in terapia. Ma questo non ha impedito ai gruppi conservatori di citare il documento proprio a sostegno di quei punti, secondo Wayne Besen, direttore esecutivo de "La verità vince", un gruppo che lotta contro i pregiudizi contro l'omofobia. In un'occasione, secondo il dottor Drescher, un uomo politico in Finlandia impugnò in Parlamento lo studio per dar forza all'argomento contro le unioni civili. "Bisogna dire che tutte le volte che questo studio è stato strumentalizzato a fini politici per sostenere che gli omosessuali dovrebbero essere curati - ed è successo molte volte - Bob ha risposto immediatamente, correggendo le idee sbagliate", ha affermato il dottor Drescher, che è omosessuale. Ma il dottor Spitzer non poteva controllare il modo in cui il suo studio veniva interpretato da chiunque, e non riusciva a eliminare il più grave difetto scientifico, aspramente attaccato in molti dei commenti: fondarsi sulla risposta che le persone danno quando si domanda loro se hanno cambiato non costituisce una prova di reale cambiamento. Le persone mentono, per se stessi e gli altri. Cambiano continuamente le loro storie, per soddisfare le proprie esigenze e gli stati d'animo. In breve, da qualsiasi punto di vista lo studio non ha superato la prova del rigore scientifico che per tanti anni lo stesso dr. Spitzer è stato così deciso nel far rispettare . "Mentre leggevo i commenti, ho capito che questo era un problema, un grosso problema, e non ho potuto rispondere," ha detto il dr. Spitzer. "Come si fa a sapere che qualcuno è davvero cambiato?" Lasciar andare Ci sono voluti undici anni per lui per ammetterlo pubblicamente. In un primo momento si aggrappò all'idea che lo studio fosse stato esplorativo, semplicemente un tentativo di indurre gli scienziati a pensarci due volte prima di liquidare definitivamente la terapia riparativa. Poi si rifugiò nella posizione che lo studio era meno focalizzato sull'efficacia della terapia e più sul modo in cui le persone che vi erano impegnate descrivevano i cambiamenti nell'orientamento sessuale. "Forse non è una questione molto interessante – ha affermato – ma per molto tempo ho pensato che forse non avrei dovuto affrontare il problema maggiore, cioè come misurare il cambiamento." Dopo essersi ritirato nel 2003, il dr. Spitzer è rimasto attivo su molti fronti, ma lo studio sulla terapia riparativa è rimasto un punto fermo nelle polemiche culturali e una fonte di personale rammarico che non lo avrebbe lasciato. I sintomi del Parkinson sono peggiorati l'anno scorso, sfinendolo mentalmente e fisicamente, cosa che rende ancora più difficile tenere a bada i rimorsi. Un giorno di marzo, il dottor Spitzer ha ricevuto una visita. Era Gabriel Arana, un giornalista della rivista The American Prospect, che lo ha intervistato sullo studio della terapia riparativa. Non si trattava però solo di un'intervista. Gabriel Arana è stato sottoposto da adolescente alla terapia riparativa, e la sua terapeuta aveva reclutato il giovane per lo studio del dr. Spitzer (Arana non ha poi partecipato). "Gli ho chiesto un'opinione sui suoi critici, e lui ha risposto: 'Penso abbiano per lo più ragione'" ha affermato Gabriel Arana, che ha scritto della sua esperienza il mese scorso. Arana ha detto che la terapia riparativa in definitiva ha ritardato la sua accettazione di sé come omosessuale e ha indotto in lui pensieri di suicidio. "Ma nel momento in cui sono stato reclutato per lo studio del dr. Spitzer, sono stato indicato come un caso riuscito. Avrei sostenuto che stavo facendo progressi ". Così è andata. Lo studio sembrava allora una semplice nota a piè di pagina in una vita che stava ampliandosi in un capitolo. E aveva bisogno di un finale vero e proprio, una decisa correzione, proveniente direttamente dal suo autore, non da un giornalista o da un collega. Una bozza della lettera è già trapelata online ed è stata riferita. "Sa, è il mio unico rimpianto, l'unico sul piano professionale," ha detto dello studio il dr. Spitzer alla fine di una lunga intervista. "E penso che, nella storia della psichiatria, non ho mai visto uno scienziato scrivere la lettera dicendo che i dati c'erano tutti, ma che erano stati totalmente fraintesi, e che lo ammettesse scusandosi con i lettori ". Ha distolto poi lo sguardo, con gli occhi confusi dall'emozione: "Questo è qualcosa, non crede?" Fonte: New York Times del 18 maggio 2012 Eroi dell'incertezza Stiamo vivendo in un'epoca empirica. I risultati intellettuali più impressionanti sono stati raggiunti nella fisica e nella biologia, e questi campi hanno stabilito un peculiare modello di credibilità. di David Brooks Per essere figure autorevoli, bisogna essere disinvoltamente scientifici. Bisogna possedere un arcano corpo di competenze tecniche. Bisogna che la propria mente sia uno strumento neutro, in grado di elaborare complessi dati quantificabili. Gli studiosi che operano nel campo delle scienze umane hanno cercato di mimare questo modello d'autorità. L'American Psychiatric Association per esempio, ha appena pubblicato la quinta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi mentali. Si tratta del manuale di base nel settore. Definisce tutte le malattie mentali note. Determina norme stabili, in modo che le compagnie di assicurazione possano riconoscere le varie diagnosi e sentirsi tranquille con i farmaci prescritti per trattare i disturbi che queste definiscono. Le recenti edizioni del manuale trasmettono un'impressionante aura di autorità scientifica. Trattano le malattie mentali come malattie cardiache o del fegato. Danno l'impressione che si dovrebbe andare dallo psichiatra perché questi dispone di un ampio corpo di conoscenze tecniche che gli permetterà di risolvere tutti i nostri problemi. Con la loro austera neutralità, fanno pensare che gli psichiatri trattino metodicamente dei sintomi, non delle persone. Il problema è che le scienze del comportamento, come la psichiatria, non sono davvero scienze, sono scienze a metà. La realtà di base che descrivono non presenta le stesse regolarità che presenta, per esempio, la realtà del sistema solare. Come hanno notato molti critici del manuale, gli psichiatri usano termini come "disturbo mentale" o "comportamento normale", ma non c'è accordo su cosa significhino questi concetti. Se si considerano le definizioni che psichiatri abitualmente utilizzano per descrivere i vari disturbi, si nota che contengono termini vaghi che sarebbero inaccettabili in qualsiasi forma d'analisi scientifica attuale: termini come "eccessivo", "abbuffata", "ansioso" Le malattie mentali non si spiegano nello stesso modo in cui si spiegano per esempio le epatopatie, cioè come patologie organiche, riguardanti il corpo, i suoi tessuti e le sue cellule. I ricercatori sanno spiegare la struttura sottostante di pochissimi disturbi mentali. Quel che gli psichiatri definiscono come malattia è di solito solo un'etichetta per un gruppo di sintomi. Come scrive nel suo libro Salvare la normalità l'eminente psichiatra Allen Frances, un termine come schizofrenia può essere considerato un'utile costruzione, non una malattia: "Si tratta della descrizione di un particolare insieme di problemi psichiatrici, non una spiegazione della loro causa". I fenomeni psichiatrici sono inoltre notoriamente di natura proteiforme. I farmaci sembrano inizialmente funzionare, ma poi non fanno più nulla. La mente è un cosmo irregolare, e per questo motivo la psichiatria non è stata in grado di fare i rapidi progressi che sono normali in fisica e in biologia. Così si è espresso sullo Washington Post all'inizio di quest'anno Martin Seligman, già presidente dell'American Psychological Association: "Mi sono reso conto che i farmaci sono una terapia deludente e che offrono ai malati di mente poco più aiuto di quanto non facessero venticinque anni fa, nonostante i miliardi di dollari versati per finanziare la ricerca ". Tutto questo non significa un giudizio di condanna per chi lavora nel campo della salute mentale. Al contrario, queste persone sono eroi che alleviano la più elusiva di tutte le sofferenze, anche se sono sopraffatte dalla complessità e dalla variabilità dei problemi cui sono confrontati. Vorrei solo poterli ritrarre come realmente sono. Gli psichiatri non sono eroi della scienza. Sono eroi dell'incertezza, e lavorano con l'improvvisazione, con la conoscenza di cui dispongono e con l'arte che riescono a mettere in pratica per migliorare la vita delle persone. Il campo della psichiatria è migliore nella pratica che nella teoria. I migliori psichiatri non sono austeri tecnici, come li presenta la versione ufficiale del manuale; uniscono competenza tecnica e conoscenza personale. Sono audaci nell'adattare le cose e nell'arrangiarsi nei modi più fantasiosi che non con il rigore scientifico. I migliori psichiatri non sono cresciuti con regole astratte che omogeneizzano i trattamenti. Combinano piuttosto una consapevolezza dei modelli comuni con un'acuta attenzione alle circostanze specifiche di un essere umano nella sua unicità. Certo non si mettono a inventare nuove malattie per medicalizzare i modesti disturbi di chi, stando bene, è solo preoccupato. Se gli autori del manuale di psichiatria volessero inventare una nuova malattia, dovrebbero aggiungere nel loro manuale la diagnosi di Invidia della Fisica. Il desiderio di imitare le scienze rigorose ha distorto l'economia, l'educazione, le scienze politiche, la psichiatria e altri campi di studio del comportamento. Ha portato gli studiosi di questi settori a rivendicare più conoscenza di quel che si può avere. Ha svalutato un certo tipo di mentalità ibrida che è più adatto a questo tipo di problemi, la mentalità che ha un piede nel mondo della scienza e uno nelle arti liberali, e che permette di coordinare molteplici punti di vista sul comportamento umano. Ippocrate osservò una volta, "È più importante sapere che tipo di persona ha una malattia, che non sapere che tipo di malattia una persona ha." Questo vale certamente per le scienze del comportamento e per le decisioni politiche in generale, anche se oggi è una verità che viene spesso trascurata. Fonte: New York Times del 27. 05. 2013 Hollywood si mobilita per sradicare lo stigma della malattia mentale
Glenn Close e Bradley Cooper conducono la campagna a sostegno di un'iniziativa della Casa Bianca Eva Saiz, Washington, 7 giugno 2013 Oggi Glenn Close non avrebbe recitato nello stesso modo nel ruolo di Alex Foster, la vendicativa protagonista del film Attrazione fatale, una delle sue interpretazioni più indimenticabili. Le diagnosi ricevute da sua sorella e da sua nipote, rispettivamente di disturbo bipolare e di disturbo schizo-affettivo, hanno cambiato il suo modo di considerare la malattia mentale e di trattare con i malati di mente. Il ruolo del giovane bipolare ne Il lato positivo, con il quale Bradley Cooper ha vinto una nomination all'Oscar come miglior attore, ha invece risvegliato in lui la volontà di contrastare l'isolamento e l'incomprensione che colpiscono coloro che soffrono di questi disturbi. Entrambe le star sostengono l'iniziativa del governo degli Stati Uniti a favore della prevenzione e della diagnosi di queste malattie, volta a por fine allo stigma che bolla chi ne soffre. I due attori hanno manifestato il loro impegno in questo senso la scorsa settimana durante il Congresso sulla Salute Mentale che si è tenuto alla Casa Bianca. Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha qui sostenuto che il suo obiettivo è di far sapere alle persone affette da disturbi mentali che "non sono sole". L'evento ha avuto luogo nel quadro della battaglia ingaggiata da Obama per il controllo delle armi da fuoco, dopo la strage di Newtown, avvenuta il 14 novembre scorso, e perpetrata da Adam Lance, un giovane di vent'anni diagnosticato come disturbo bipolare. Gleen Close e Bradkley Cooper non sono i soli rappresentanti di Hollywood che sostengono il programma della Casa Bianca. Demi Lovato e Cher sono tra le altre star che hanno registrato messaggi video per raccontare il loro rapporto con la malattia mentale, video che sono disponibili sul sito web mentalhealth.gov. Bradley Cooper è già stato ricevuto alla Casa Bianca all'inizio dell'anno per discutere i problemi dei disturbi psichiatrici. Ha incontrato il vicepresidente americano Joe Biden e ha risposto alle domande di varie persone da tempo affette dalla malattia mentale. L'attore ha denunciato l'equivoco che aleggia intorno alle persone con diagnosi di disturbo bipolare. "Sono persone fortemente stigmatizzate. Non è un problema facile da affrontare. Si tratta di una condizione che, se non viene diagnosticata in tempo, si complica. Spero quindi che un film come quello che ho girato renda più facile parlare apertamente di questa malattia ", ha detto l'attore. Il ruolo di Bradley Cooper nel film lo ha reso consapevole dell'isolamento sociale vissuto dai malati di mente. L'esperienza familiare di Glenn Close ha prodotto in lei lo stesso effetto di sensibilizzazione. Dal 2009, l'attrice è in prima linea nella sua fondazione, Bring Change 2 Mind, una ONG che ha la finalità a combattere la discriminazione associata ai disturbi psichiatrici. Gleen Close è anche la narratrice in un documentario trasmesso qualche settimana fa dalla televisione americana, Cambiare mentalità: basta con lo stigma sulla malattia. "Il mondo dello spettacolo deve assumersi la responsabilità di comunicare in modo preciso e adeguato su questo problema", ha detto l'attrice in un'intervista al Daily News, in occasione della sua visita alla Casa Bianca. Gleen Close si rimprovera il fatto che Attrazione fatale non presentasse il suo personaggio come una donna affetta da un disturbo psichiatrico. La sua dichiarazione è stata ripresa a Hollywood. Lo Entertainment Industries Council (EIC), e i Servizi di Salute Mentale della California, hanno promosso una serie di seminari per spiegare agli attori, agli sceneggiatori, ai produttori, agli studi cinematografici e televisivi e ai dirigenti come trattare in modo adeguato il problema dei disturbi psichiatrici. "Ritrarre in modo inadeguato personaggi con problemi mentali può accrescere la confusione sull'argomento e favorire la discriminazione", ha affermato Brian Dyak, Presidente della EIC, in un'intervista al The Hollywood Reporter . Fonte: El Pais di Stefano Cecconi e Giovanna del Giudice, Comitato StopOpg.
(La legge Basaglia compie 35 anni e ...) Marco Cavallo ricomincia il suo viaggio con stopOPG: per chiudere gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari e aprire i Centri di Salute Mentale h24. A 35 anni dall'approvazione della legge 180 sulla chiusura dei manicomi, il comitato StopOpg rinnova il proprio impegno promuovendo il viaggio di Marco Cavallo, il cavallo azzurro che con Franco Basaglia quarant'anni fa sfondò il muro di cinta del manicomio di Trieste, diventando da quel giorno simbolo di libertà e di speranza Questa volta Marco Cavallo viaggia per chiudere gli gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari e applicare la legge 180, aprendo ovunque i Centri di Salute Mentale h 24.E' dunque un viaggio di denuncia, perché gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari italiani sono ancora in funzione, con oltre mille persone internate, rinchiuse in luoghi che il Presidente Napolitano ha definito " indegni per un Paese appena civile". Ma il viaggio lancia anche un allarme: al posto degli OPG si stanno progettando delle "strutture speciali" in ogni regione, i cosiddetti mini OPG, in cui trasferire e rinchiudere gli internati. Ecco perché il viaggio è dedicato all'apertura dei Centri di Salute Mentale 24 ore. Il viaggio, organizzato dal Comitato StopOpg, si svolgerà in due momenti: - a maggio, con tappe a Brescia il 16 Maggio, a Castiglione delle Stiviere (sede di OPG) il 17 e a Reggio Emilia (sede di OPG) il 18 - A ottobre, da sud a nord, a Barcellona Pozzo di Gotto, Napoli, Aversa, Roma e Montelupo Fiorentino. Tutte le informazioni, anche sulla sottoscrizione che è stata aperta per finanziare l'iniziativa su: www.stopopg.it |
Marco Focchi riceve in
viale Gran Sasso 28, 20131 Milano tel. 022665651. Possibilità di colloqui in inglese, francese, spagnolo. Archivi
Agosto 2024
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