Randall C. Wyatt: Le porrò diverse questioni, data la varietà dei suoi interessi, e vorrei anche dedicare attenzione al suo lavoro come psicoterapeuta. Facciamo prima un po’ di storia. Lei è diventato famoso con il libro Il mito della malattia mentale. Riesce, in meno di mille parole, a dirmi cosa significa?
Thomas Szasz: Il mito della malattia mentale significa che la malattia mentale in quanto tale non esiste. Il concetto scientifico di malattia si riferisce a una lesione fisica, cioè a un’anomalia materiale – strutturale o funzionale – del corpo preso come una macchina. Questa è la classica definizione di Virchow di una malattia patologica, ed è la definizione di malattia ancora utilizzata dai patologi e dai medici che lavorano come terapeuti in modo scientifico. Il cervello è un organo – come le ossa, il fegato, il rene, e altri – e naturalmente può ammalarsi. Questo è il campo della neurologia. Poiché la mente non è invece un organo corporeo, non può ammalarsi, se non in senso metaforico, nel senso in cui diciamo anche che una battuta fa morire o che l'economia è malata. Questi sono modi metaforici per dire che un comportamento o una condizione sono cattivi, disapprovati, causa d’infelicità, e così via. Detto altrimenti, parlare di "menti malate" è come parlare di "battute infelici" o di "economie malate." Nel caso della malattia mentale si tratta di un modo metaforico per esprimere l'opinione di chi parla quando pensa ci sia qualcosa di sbagliato nel comportamento della persona a cui attribuisce la "malattia". In breve, come non c'erano streghe, ma solo donne disapprovate chiamate "streghe", nello stesso modo non ci sono malattie mentali, ma solo comportamenti che gli psichiatri disapprovano e che chiamano "malattie mentali". Prendiamo una persona che ha paura di uscire. Gli psichiatri chiamano il suo comportamento "agorafobia" e sostengono si tratti di una malattia. Oppure, una persona ha idee o percezioni strane, e gli psichiatri dicono che ha "deliri" o "allucinazioni". O ancora ci può essere qualcuno che fa uso di droghe illegali o che fa una strage. Sono tutti esempi di comportamenti, non di malattie. Quasi tutto quel che dico sulla psichiatria, segue da questo assunto. RW: Diciamo che la scienza moderna, con tutti i progressi della genetica e della biochimica, ha scoperto alcuni correlati tra i comportamenti e le carenze o gli squilibri biologici, o ancora i difetti genetici. Potremmo affermare che le persone che presentano allucinazioni o che sono deliranti hanno dei deficit biologici. Che cosa ne è con questo delle le sue idee? TS: Un tale sviluppo andrebbe nel senso di convalidare le mie opinioni, non di smentirle, come pensano i miei critici. Ovviamente, non nego l'esistenza di malattie del cervello, al contrario, quel che voglio dire è che se le malattie mentali fossero malattie del cervello, dovremmo chiamarle malattie del cervello e trattarle come malattie del cervello, e non chiamarle malattie mentali e trattarle come tali. Nel XIX° secolo i manicomi erano pieni di pazzi; più della metà di loro, come si è scoperto poi, aveva qualche malattia del cervello, soprattutto neurosifilide, o lesioni cerebrali, intossicazioni o infezioni. Una volta che si lo è capito, la neurosifilide ha cessato di essere una malattia mentale, ed è diventata una malattia del cervello. La stessa cosa è successa con l'epilessia. RW: È interessante, perché molti miei studenti e colleghi, che hanno letto il suoi lavori o che hanno sentito parlare delle sue idee, pensano che quando la condizione precedentemente considerata mentale si rivela una malattia del cervello, come è stato notato, le sue idee diventano discutibili. TS: È perché non hanno familiarità con la storia della psichiatria, non capiscono che cosa sia una metafora, e non vogliono vedere come e perché vengono formulate le diagnosi psichiatriche e come vengono attribuite alle persone. Ted Kaczynski, il cosiddetto Unabomber, è stato diagnosticato come schizofrenico da psichiatri nominati dal governo. Se si vuole credere che un difetto genetico induca una persona a commettere una serie di delitti concepiti in modo così geniale, e che invece quando qualcuno compone una magnifica sinfonia, questo sia dovuto al suo talento e alla sua libera volontà – ebbene così sia. I test medici oggettivi misurano cambiamenti chimici e fisici nei tessuti, non valutano né giudicare le idee o i comportamenti. Prima che esistessero test diagnostici sofisticati, per i medici era difficile distinguere tra la vera epilessia – vale a dire convulsioni neurologiche – e ciò che chiamiamo crisi isteriche, che sono semplicemente simulazioni dell’epilessia che imitano una crisi convulsiva. Quando si è capito che l'epilessia era provocata da un aumento dell’eccitabilità di alcune aree del cervello, non è più stata considerata una psicopatologia o una malattia mentale, ed è diventata una neuropatologia o una malattia del cervello. Diventa allora pertinenza della neurologia. L’epilessia esiste ancora. La neurosifilide, anche se molto rara, esiste ancora, e non è trattata dagli psichiatri, ma dagli specialisti in malattie infettive, perché è un’infezione del cervello. Se scoprissimo che tutte le malattie mentali sono malattie del cervello, questo significherebbe la scomparsa della psichiatria, che verrebbe riassorbita nella neurologia. Ma significherebbe anche che una condizione sarebbe considerata come malattia mentale solo se si potesse dimostrare, con prove oggettive, che una persona ce l’ha, o non ce l'ha. Si può dimostrare – oggettivamente, non facendo una diagnosi basata su un colloquio – che X ha la neurosifilide o non ce l’ha, ma non si può dimostrare oggettivamente che X ha o non ha la schizofrenia o la depressione clinica, o un disturbo post-traumatico da stress. Come la maggior parte dei sostantivi e dei verbi, la parola "malattia", sarà sempre utilizzata sia in senso letterale sia metaforico. Finché gli psichiatri non saranno disposti a fissare il significato letterale di malattia mentale in uno standard oggettivo, non ci sarà modo di distinguere tra il significato letterale e quello metaforico dell’espressione "malattie mentali". RW: Gli psichiatri, ovviamente, non vogliono essere messi fuori dal gioco. Vogliono tenere sulla schizofrenia quanto più a lungo possibile, e ora si aggiungono la depressione, il gioco d'azzardo, l'abuso di droga, e così via, che sono proposti come disturbi biologici o geneticamente determinati. Si crede che tutto debba avere un marcatore genetico, forse anche la normalità. Cosa ne pensa? TS: Non so proprio cosa dire di una simile sciocchezza. A meno che non s’intenda che la storia della psichiatria riguarda la semantica, è molto difficile venirne a capo. Le diagnosi non sono malattie. Punto. Gli psichiatri hanno definito alcune famose malattie per le quali non si sono mai scusati, le due più note sono la masturbazione e l’omosessualità. Le persone con queste cosiddette "malattie" sono state torturate dagli psichiatri per centinaia d’anni. I bambini sono stati torturati dai trattamenti contro la masturbazione. Gli omosessuali sono stati incarcerati e torturati dagli psichiatri. Ora tutto ciò viene opportunamente dimenticato, mentre gli psichiatri – prostitute dell'etica dominante – inventano nuove malattie, come quelle che ha citato. La guerra alla droga è l'attuale pogrom psichiatrico-giudiziario. Lo stesso vale per la battaglia sui bambini chiamati "iperattivi", avvelenati nelle scuole con la droga di strada illegale chiamata "Speed", che, quando viene ribattezzata "Ritalin", è una cura miracolosa per loro. Vorrei citare un’altra caratteristica della psichiatria strettamente correlata a questa, e che la rende diversa dal resto della medicina. Solo in psichiatria ci sono pazienti che non vogliono essere pazienti. Questo è fondamentale, perché la mia critica alla psichiatria è duplice. Una delle mie critiche è concettuale: affermo cioè, che la malattia mentale non è una vera e propria malattia. L'altra è politica, perché sostengo che la malattia mentale è un pezzo di retorica che serve come giustificazione per legittimare l'impegno civile e la difesa della follia. Dermatologi, oculisti, ginecologi, non hanno pazienti che non vogliono essere loro pazienti. Ma i pazienti degli psichiatri lo sono contro la loro volontà per definizione. Originariamente, tutti i pazienti con disturbi mentali sono stati pazienti contro la loro volontà negli ospedali statali. Questo concetto, questo fenomeno, costituisce ancora il nucleo della psichiatria. Ed è quel che vi è di fondamentalmente sbagliato nella psichiatria. A mio avviso, il ricovero coatto e la difesa della follia dovrebbero essere aboliti, esattamente come lo fu la schiavitù, o la privazione dei diritti civili delle donne, o la persecuzione degli omosessuali. Solo allora potremmo cominciare a esaminare le cosiddette malattie mentali come forme di comportamento, similmente ad altri comportamenti. RW: Nei suoi lavori ha criticato i termini di ospedalizzazione obbligatoria e di psichiatria coercitiva. TS: Mi scusi, tutta la psichiatria è coercitiva, di fatto o potenzialmente, perché una volta che una persona entra in studio di uno psichiatra, in determinate condizioni, quello psichiatra ha legalmente il diritto e il dovere di affidarla in custodia. Lo psichiatra ha il dovere di prevenire il suicidio e l'omicidio. Il sacerdote che ascolta una confessione non ha gli stessi obblighi. L'avvocato e il giudice non hanno lo stesso dovere. Nessun'altra figura sociale ha lo stesso potere dello psichiatra. E questo è il potere di cui gli psichiatri devono essere privati, proprio come alcuni bianchi hanno dovuto essere privati del potere di schiavizzare i neri. I sacerdoti un tempo potevano avere clienti involontari. Ora chiamiamo questo fenomeno “conversione religiosa forzata” e “persecuzione religiosa”, ma a suo tempo veniva chiamato "pratica della vera fede" o "amore di Dio". Oggi abbiamo conversione psichiatrica forzata e persecuzione psichiatrica, e la chiamiamo "salute mentale" e "terapia". Sarebbe divertente se non fosse così grave. RW: La natura simbolica la sociologia della psichiatria sono coercitive. Eppure, non ogni atto è alla lettera coercitivo. Qualcuno va da un dottore e dice: "Non riesco a dormire. Sono depresso. Può darmi qualcosa che mi aiuti a dormire, o che mi aiuti a svegliarmi?" Questo è un libero scambio. TS: Sì è esatto. Ci sono scambi volontari con gli psichiatri, almeno in linea di principio. Mi piace dire che approvo con tutto il cuore gli atti psichiatrici tra adulti consenzienti. Ma questi atti, nella loro natura, sono pseudo-medici, perché il problema in esame non è di carattere medico, anche perché tale tipo di transazione trae vantaggio dalla criminalizzazione del libero mercato dei farmaci. Perché si deve andare da un medico per avere un sonnifero o un tranquillante? Un centinaio di anni fa, non ce n'era bisogno, bastava andare in un drugstore, o da Sears Roebuck*, e si potevano acquistare tutti i farmaci che si voleva: oppio, eroina, idrato di cloralio. In un certo qual modo, la professione psichiatrica vive del fatto che solo i medici ora possono prescrivere farmaci, e il governo ha fatto sì che la maggior parte dei farmaci che la gente vuole richieda una prescrizione. RW: Come nota a margine, non è interessante, e preoccupante, osservare che la maggior parte di quanti finiscono in prigione per abuso o per spaccio di droga sono neri o appartengono alle minoranze, e che invece quelli con licenza di prescrivere sono spesso non-minoranza, e nella società vengono considerati eroi essenzialmente perché vendono quel che a volte è la stessa merce, anche se, ovviamente, prescritta legalmente? TS: In effetti. Discuto in dettaglio questa nuova forma di schiavizzazione nera nel mio libro Il nostro diritto ai farmaci. Per via delle leggi vigenti, i medici prescrivono gli psicofarmaci che spesso i pazienti vogliono e chiedono: è una versione medicalizzata dello spaccio di droga. I medici hanno fatto la stessa cosa che si faceva con i liquori durante il proibizionismo, cosa che era abbastanza redditizia. RW: E ora la psichiatria e la farmacologia possono costituire un giro d’affari redditizio. TS: La psichiatria è un giro d’affari redditizio solo in quanto partecipa di questi due privilegi medico-psichiatrici, o di questi due monopoli: prescrizione di farmaci che solo i medici autorizzati possono dare, e creazione dei propri pazienti, cioè trasformazione delle persone in pazienti contro la loro volontà. È una cosa che possono fare solo gli psichiatri. RW: "Qual è la sua opinione sulla cura psichiatrica per chi soffre di schizofrenia"o di male di vivere, come lo chiama lei, o difficoltà interpersonali, o intrapsichiche. Comunque le si chiamino, le persone soffrono o sono turbate per ragioni interne o per ragioni interpersonali. Qual è la sua opinione sull'uso di droghe legali o illegali per aiutare le persone a far fronte a queste cose? TS: Sto sorridendo perché so che conosce le mie opinioni! Tuttavia non vorrei formulare così la questione. A mio parere, l’uso di farmaci è un diritto umano fondamentale, come all'uso di libri o la preghiera. La questione diventa quindi cosa una persona vuole e come può ottenerlo. Se qualcuno vuole un libro, può andare in un negozio e averlo, o scaricarlo su Internet. Un farmaco dovrebbe poterlo avere nello stesso modo. Se non sa cosa prendere, allora può andare da un medico o un da farmacista e chiedere a loro. E poi dovrebbe essere in grado di andare a comprarlo. RW: Questo porta l’argomento sui farmaci di prescrizione e sulle leggi, temi sui quali ha scritto ampiamente. TS: In effetti. Le leggi sulla prescrizione dei farmaci sono una nota a piè di pagina nella proibizione delle droghe. Le leggi sulla prescrizione dovrebbero essere abrogate. Tutte le leggi sui farmaci dovrebbero essere abrogate. La gente potrebbe poi decidere da sé ciò che l’aiuta in modo più efficace nell’alleviare le proprie afflizioni esistenziali, ammettendo che lo voglia fare con una droga o un farmaco: oppio o marijuana o sigarette o Haldol o Valium. Dopo tutto, l'unico arbitro di ciò che affligge una persona mentalmente e di ciò che lo fa sentire e funzionare meglio, è il paziente, perché è lui a definire cos’è meglio. Non abbiamo nessun test di laboratorio per le nevrosi e le psicosi. Per quanto riguarda l'insonnia, di solito si tratta di un lamento, di una comunicazione indiretta per ottenere sonniferi. Non si può andare da un medico e dirgli: “Ti prego dammi la prescrizione per un barbiturico”. Chi lo facesse verrebbe diagnosticato e denunciato come tossicodipendente. Così si deve dire: "Non riesco a dormire." Come fa il medico a sapere se è vero? RW: Gli chiedi quante ore dorme, e lui dice due ore a notte. TS: Come può il medico sapere se è vero? Il termine "insonnia" può funzionare come una menzogna strategica che il paziente deve dire per ottenere la prescrizione che vuole. RW: Lei sembra avere una visione del modello medico della medicina diversa rispetto al modello medico della psichiatria. TS: Sì, moltissimo. Non parliamo del modello medico della medicina in medicina o del modello medico della polmonite. Non ci sono altri modelli. Non parliamo, per esempio, di modello elettrico del perché una lampadina si accende. Il linguaggio è molto importante. Se qualcuno dice: "Sono contro il modello medico della malattia mentale", ciò implica che la malattia mentale esiste, e che c'è n’è qualche altro modello oltre a quello medico. Ma non vi è alcuna malattia mentale. Per questo non è necessario nessun modello. La questione importante non è il modello medico, termine malamente abusato, il problema è il modello pediatrico, il modello dell’irresponsabilità, il fatto di trattare le persone etichettandole come malati mentali, come se fossero bambini piccoli e come se lo psichiatra fosse il loro genitore. I pilastri della psichiatria sono coercizioni e scuse razionalizzate dal punto di vista medico e legittimate dal punto di vista giuridico. RW: Se lei scegliesse di usare il termine “malattia mentale” come una metafora, o come uno pseudonimo, dove malattia significasse "disagio," indicando le persone che sono soggettivamente in difficoltà, assumendo il modello psicosociale della malattia mentale? Se sostituisse “malattia mentale” con "problemi emotivi"? TS: No. Non funzionerebbe. Quasi tutto può essere causa di problemi emotivi: essere nero, o essere poveri, o essere ricchi. Innumerevoli condizioni umane possono creare sofferenza. Quali dovremmo medicalizzare e quali no? Sono stati medicalizzati, psichiatrizzati, i neri in fuga dalla schiavitù, la masturbazione, l'omosessualità, la contraccezione. Oggi non lo si fa più, e si medicalizzano invece quel che una volta si chiamava malinconia, o la pigrizia, il suicidio, il razzismo, il sessismo. RW: Cambiamo marcia. TS: Non ancora. Perché voglio aggiungere che quello che chiamo "Stato terapeutico." è esattamente questa crescente tendenza a definire malattie i problemi umani, e a cercare di porvi rimedio, o di "aggredirli" come fossero malattie. RW: Certamente: tutto quel che si era soliti considerare dal punto di vista religioso ora è considerato dal punto di vista medico. È quasi una pura trasformazione. TS: Esattamente! Ed è assolutamente evidente. È necessario un sistematico ottundimento educativo e politico del pubblico perché non si veda. Trecento anni fa ogni condizione umana di difficoltà era vista come un problema religioso: la malattia, la povertà, il suicidio, la guerra. Ora tutto è visto come problemi di salute, come problemi psichiatrici, come problemi causati da geni e curabili con una "terapia". In passato, il diritto penale era intriso di teologia, oggi è intriso di psichiatria. RW: Il presidente Bill Clinton è un ottimo esempio di come usiamo modelli diversi per descrivere lo stesso problema. La moglie ha detto che i suoi problemi erano dovuti a difficoltà emotive incontrate nell’infanzia. Il fratello ha detto che era un sessuodipendente, perché era un drogato, anche lui. E Bill Clinton ha detto che era una questione di peccato, adottando il modello religioso. Così è andato da un pastore. TS: Questo è un’osservazione interessante. Ma bisogna notare che Clinton non è andato da un pastore vero e proprio. È andato da un politico, Jesse Jackson. Il suo compito era di ricostruire l’immagine di Clinton. E l’ha fatto. Clinton l’ha selezionato come ha fatto con altri, proprio come un imperatore medievale avrebbe scelto un vescovo per ricavarne un ritorno d’immagine. RW: Posso cambiare marcia adesso? TS: Certo. RW: Lei è conosciuto come un libertario. TS: Sì, sono un libertario. RW: Il libertarismo è una visione filosofica, un punto di vista economico e politico. Che cosa vuol dire rispetto al fatto di praticare la psicoterapia? TS: Inizierò dalla fine, per così dire. Se si usa la lingua con attenzione e si prendono sul serio libertarismo e psichiatria, allora il termine "psichiatra libertario" è semplicemente un ossimoro. Libertarismo significa che la libertà individuale è un valore più importante della salute mentale, comunque la si definisca. La libertà è certamente più importante che avere psichiatri che ti rinchiudono per proteggerti da te stesso. La psichiatria nasce e muore con la coercizione, con la restrizione sul piano civile. Una psichiatria non coercitiva è un ossimoro. Questo è uno dei motivi principali per cui non mi sono mai considerato uno psichiatra: ho sempre rifiutato la coercizione psichiatrica. Ora, in termini di filosofia politica, il libertarismo è quello che, nel XIX° secolo, è stato chiamato liberalismo. Al giorno d'oggi è a volte chiamato anche "liberalismo classico." Si tratta di un’ideologia politica che vede lo Stato come un apparato con il monopolio dell'uso legittimo della forza, e quindi come un pericolo per la libertà individuale. Al contrario, la moderna visione liberale considera lo Stato come un protettore, un genitore benevolo che offre sicurezza ai cittadini quasi come fossero bambini. Per me, essere un libertario significa considerare le persone come adulte, responsabili di quel che fanno, dalle quali ci si aspetta che si sostengano da sé, anziché essere sostenute dal governo, dalle quali ci si aspetta che paghino per quel che vogliono, invece di ottenerlo dai medici o dallo stato perché ne hanno bisogno. È la vecchia idea jeffersoniana che chi meno governa meglio governa. La legge dovrebbe garantire alle persone nel loro diritto alla vita, alla libertà e proprietà, proteggendole da chi vuole privarle di questi beni. La legge non dovrebbe proteggere le persone da se stesse. Ciò significa che, per quanto possibile, le cure mediche dovrebbero essere distribuite, economicamente parlando, come un servizio personale nel libero mercato. C'è molta saggezza nell’adagio, "La gente paga per ciò a cui dà valore, e dà valore a ciò che paga." È pericoloso discostarsi troppo da tale principio. RW: Perché devono per forza c’entrare i soldi? Chi ha meno soldi, non può permettersi le stesse cose di altri che hanno più soldi. Anche un povero può trarre beneficio dalla terapia. TS: Certo. La questione che lei solleva confonde però la ricerca di egualitarismo con i concetti di salute o di psicoterapia, e anche con la ricerca della salute. Perché la psicoterapia dovrebbe essere dispensata in modo più egualitario di altre cose? C’è da dire poi che spesso la gente dà maggior valore a cose diverse dalla salute, per esempio all’avventura, al pericolo, all’eccitazione, al fumo. Mi lasci elaborare questo problema. Gli economisti e gli epidemiologi hanno dimostrato, senza ombra di dubbio, che le due variabili più strettamente correlate con la buona salute sono il diritto di proprietà e la libertà individuale, il libero mercato. Chi gode oggi della migliore salute sono i cittadini dei paesi capitalisti in occidente e in Giappone, e quelli con la salute peggiore sono quelli che hanno goduto delle benedizione di ottant’anni di paternalismo statalista, sotto i regimi comunisti. In Unione Sovietica, dove la libertà politica e il benessere economico sono stati sistematicamente minati dallo Stato, dove si è avuta uguale miseria per tutti, l'aspettativa di vita è scesa da oltre settant’anni a circa cinquantacinque anni. Nello stesso periodo, nei paesi avanzati, è costantemente cresciuta ed è ora di quasi ottant’anni. La medicina c’entra poco con questo, perché la Russia ha avuto ampio accesso alla scienza medica e alla tecnologia. È soprattutto una questione di stile di vita, di quel che veniva chiamato buone o cattive abitudini. Ed è anche questione di buona salute pubblica, nel senso di mantenere una situazione ambientale protetta. RW: Lei ha scritto, L'etica della psicoanalisi nel 1965. Quel libro era la sua immersione nella psicoterapia e nella psicoanalisi. Che cosa può da dire su ciò che è utile in psicoterapia? Quali teorie tiene in considerazione o trova valide? Quando si è trovato in un rapporto libero di psicoterapia – per dirlo in breve, quello in cui una persona aiuta qualcuno sui suoi problemi personali – cos’ha trovato utile, e che teorie ha utilizzato nel suo lavoro? TS: Sta ponendo due domande: cosa ho trovato utile o interessante e che teorie ho usato. Il tipo di terapia che si fa, se lo si fa bene, a mio parere, è selezionato e dipende principalmente dal terapeuta. Persone diverse hanno diversi temperamenti e diversi modi di relazionarsi con gli altri. Poiché la relazione terapeutica è un rapporto intimo con un altro essere umano, il tipo di psicoterapia che ha senso per un terapeuta riflette il tipo di persona che è. A questo riguardo, la psicoterapia è quanto vi è di più diverso dalle terapie organiche in medicina. Il corretto trattamento del diabete non dipende, e non deve dipendere, dalla personalità del medico. È una questione di scienza medica. Per altro verso invece, il corretto trattamento di una persona in difficoltà che cerca aiuto è una questione di valori e stili personali da entrambi le parti, del terapeuta e del paziente. Un confronto adeguato per la psicoterapia non è con i trattamenti medici, ma con il matrimonio, o con il fatto di crescere dei figli. Che tipo di rapporto dovrebbe avere un uomo con sua moglie, e viceversa? Come si fa a crescere un bambino? Persone diverse si relazionano in modo diverso con le mogli o con i mariti o con i figli. Fintanto che il loro stile di vita per loro funziona, non c’è niente da aggiungere. Credo quindi, in primo luogo, che qualsiasi tipo di cosiddetta terapia – ogni tipo di situazione umana di aiuto che ha senso per entrambi i partecipanti e in cui si può entrare o uscire e che può essere condotta in modo interamente consensuale e volontario, e nella quale non c’è costrizione o frode – è, per definizione, utile. Se non fosse utile, il cliente non verrebbe e non pagherebbe. Il fatto che un cliente ritorni e paghi per quello che riceve da un terapeuta è per me le prova che la trova utile. La paragonerei, ancora una volta, alla religione, al fatto di andare in chiesa. Personalmente, io non sono religioso. Ma rispetto le religioni e quanti trovano conforto nella fede. Milioni di persone in tutto il mondo continuano ad andare in chiesa. Non vi andrebbero se non lo trovassero utile, ammesso che non vi vadano solo per motivi sociali, ma anche in questo caso ci vanno perché lo trovano utile, anche se non per motivi strettamente teologici. RW: Quale interesse inizialmente l’ha spinta a diventare psichiatra? TS: Non mi ha mai interessato diventare psichiatra e non mi sono mai considerato uno psichiatra. La psichiatria era una categoria in cui dovevo situarmi, data la società in cui viviamo. M’interessava la psicoterapia, in cui vedevo il cuore dei presupposti freudiani, e la promessa, che purtroppo non si è mai realizzata, di un codice professionale. Freud, Jung e Adler hanno avuto una buona idea, quella per cui due persone, un professionista e un cliente, s’incontrano in un rapporto di fiducia, e uno cerca di aiutare l'altro a vivere meglio la propria vita. Ognuno di questi pionieri ha messo in luce un aspetto diverso su come cavarsela nel modo migliore con questo problema. Ci sono tre angoli visuali della vita: il passato, il presente e il futuro. Freud si è soffermato sul passato, Jung si è soffermato sul futuro, Adler e Rank si sono soffermati sul presente. Tutto questo ha senso. Ma deve anche essere tagliato su misura perché abbia senso per il paziente. RW: Come funziona questo in termini di relazione terapeutica? TS: Il rapporto deve essere di totale collaborazione. I due possono incontrarsi solo poche volte, o molte volte per molti anni. Il terapeuta è al servizio del paziente. Questo non significa che deve essere d'accordo con tutto ciò che il paziente crede o vuole, lungi da ciò. Ma significa che al terapeuta è vietato, dal suo stesso codice morale, fare alcunché contro l'interesse del paziente, perché è il paziente a definire qual è il suo interesse. Questo fa parte della mia idea di contratto con il paziente. Ecco perché ho dato al mio libro il titolo L'etica della psicoanalisi. La terapia è una questione di etica, non di tecnica. È sempre stato fondamentale che i miei pazienti scegliessero da sé. Venivano quando volevano, venivano da me perché volevano vedere me, e non qualcun altro. E non c'è mai stato niente di tutto questo problema di essere pronti per terminare la terapia. Nello stesso modo in cui è il paziente a decidere se e quando iniziare la terapia, così è il paziente a decidere se e quando terminarla. Non vi è nulla di tutta questa storia per cui il terapeuta deve cambiare il paziente, o migliorarlo, o controllare il suo comportamento, o proteggerlo da se stesso, e così via. Spetta al paziente cambiare se stesso. Il compito del terapeuta è di aiutarlo a cambiare nella direzione in cui il paziente vuole cambiare, a condizione che questa direzione sia accettabile per il terapeuta. Se non lo è, tocca allora al terapeuta discuterne con il paziente e porre fine alla relazione. RW: Quali sono allora le aspettative del paziente? TS: Il paziente deve solo pagare. Questo può suonare come una battuta egoista. Non lo è. È importante. Spetta al paziente prendere quel che vuole dalla situazione. La situazione è simile a quel che succede a scuola, soprattutto all’università. Se si va a scuola e si paga per andarci, l'idea è che si dovrebbe imparare qualcosa. Ma non c'è coercizione. Alla fine, se uno non impara, sono affari suoi. È lui a perderci. RW: Lei ha detto che il cambiamento non è un requisito indispensabile, tuttavia la maggior parte delle persone vuole qualche cambiamento. TS: Non è così semplice. La gente vuole cambiare e al tempo stesso non vuole cambiare. Il comportamento che il paziente vuole cambiare è, in qualche modo – questo è molto freudiano – anche funzionale per il paziente, altrimenti l’avrebbe già cambiato, senza bisogno di terapia formale. Le persone possono cambiare da sé e lo fanno. RW: Adattamento? TS: Adattamento. Esattamente. I cosiddetti sintomi mentali sono piuttosto diversi dai sintomi medici. Un colpo di tosse, per esempio, se si ha una polmonite, è un fatto di adattamento: si libera il corpo dal muco e dal materiale infetto, da detriti di tessuti come l’espettorato. Ma è un fatto di adattamento solo in questa o in altra situazione patologica simile. Non è un adattamento a se stessi come essere umano. Una fobia invece, l’ansia, la depressione, e così via possono essere fatti di adattamento quasi come strategie di vita, strategie economiche o interpersonali. RW: Il suo obiettivo per la psicoterapia, cioè per il funzionamento umano completo, è di aumentare l’autonomia delle persone. Lei aveva questo obiettivo. TS: Questo era il mio obiettivo di fondo, quello che ho comunicato ai miei clienti come principio etico. La mia premessa è che la responsabilità, dal punto di vista morale, precede la libertà. Se quindi una persona vuole ottenere più libertà – riguardo alle sue paure, a sua moglie, al suo lavoro, e così via – deve prima assumere maggiori responsabilità nei loro confronti, poi si guadagnerà maggiore libertà rispetto a loro. L'obiettivo è di assumersi maggiori responsabilità e quindi guadagnare più libertà e più controllo sulla propria vita. I problemi o le domande per il paziente diventano fino a che punto sia disposto a riconoscere l’evasione dalle proprie responsabilità, che spesso si esprime come sintomi. RW: Si tratta di un dialogo. TS: Sì, è probabile che sia un punto focale del dialogo terapeutico. In realtà, alcuni dicono di voler fare questo o quello – per esempio vogliono smettere di fumare o vogliono essere un genitore migliore – ma in effetti poi non vogliono farlo, non vogliono rinunciare al piacere del fumo, o non vogliono farsi carico della cura di qualcuno che dipende da loro. Ci può essere qualcuno che viene a incontrare un terapeuta dicendo che vuole uccidersi. Ovviamente, non vuole solo questo. Vuole anche la psicoterapia. In breve, le persone sono spesso ambivalenti per quanto riguarda le scelte fondamentali. L'ambivalenza non è un sintomo patologico, è uno stato mentale normale di molte persone, adeguato per molte situazioni. RW: Torniamo di nuovo alla terapia. Lei non la sta più esercitando? TS: No, ma l'ho fatto per quarantacinque anni. RW: Qual era la cosa più difficile e quale la più soddisfacente per lei lavorando con le persone in situazione individuale? TS: Ho trovato molto soddisfacente esercitare la terapia, e per nulla faticoso. Ho lasciato Chicago per Siracusa principalmente per sfuggire alla necessità di mantenermi soltanto attraverso la pratica della terapia, cosa che può creare la tentazione, dal punto di vista finanziario, di rendere il paziente dipendente dalla terapia. Naturalmente, chiunque eserciti la terapia probabilmente può dirlo, ma penso che una gran quantità di persone abbiano tratto beneficio dal fatto d’intrattenere una conversazione con me. RW: Con tutto il lavoro che ha svolto in politica e in filosofia, il suo lavoro sulla psicoterapia è un po’ trascurato. Viene sottovalutato il fatto che lei fosse in trincea, ad aiutare le persone, a parlare con loro. TS: Molti di quelli che ho visto sarebbero stati diagnosticati da altri terapeuti come gravemente malati. Alcuni di loro sono stati diagnosticati come psicotici e messi sotto psicofarmaci. RW: Non hai mai prescritto farmaci? TS: No. Mai quando praticavo la psichiatria – intendo la psicoterapia. Non ho mai prescritto un farmaco. Non ho mai messo qualcuno in coma insulinico né sottoposto a elettroconvulsioni. Non ho mai fatto internare nessuno. Non ho mai testimoniato in tribunale che un criminale non fosse responsabile per i propri crimini. Sono entrato in psichiatria con gli occhi ben aperti. Non ho mai considerato la psichiatria o la psicoterapia come parte della medicina. Forse dovrei aggiungere, anche se dovrebbe essere ovvio, che non ho avuto obiezioni a che il paziente assumesse farmaci o che facesse qualsiasi altra cosa volesse. Per quanto mi riguarda, le cose che avvenivano al di fuori della stanza d’analisi non erano affari miei, nel senso che se il paziente voleva prendere farmaci doveva andare da un medico per averli, nello stesso modo in cui se avesse voluto il divorzio, avrebbe dovuto andare da un avvocato. RW: Con la situazione legislativa odierna è molto difficile, per un terapeuta o uno psichiatra praticare la psicoterapia. Si possono eludere un ricovero coatto, o altri mandati statali, o le richieste delle assicurazioni, ma quando arriva il momento critico, si è spinti a violare la discrezione o si finisce nei guai. TS: Questo è dir poco. Ai fini pratici, è impossibile. Il segno distintivo del totalitarismo è che lo Stato non ti lascia segreti personali. È il motivo per cui chiamo "Stato terapeutico" il nostro attuale sistema politico. Un simile Stato è il tuo amico, il tuo benefattore, il tuo medico. Perché gli si dovrebbe voler nascondere alcunché? Ricordiamoci che era impossibile fare psicoterapia nella Russia sovietica, o nella Germania nazista. Supponiamo che qualcuno venga da lei nella Germania nazista dicendole: "Tengo alcuni ebrei nascosti in cantina." Se non lo denuncia corre il rischio di essere messo in un campo di concentramento e gasato. Oggi se, tra gli altri compiti, non si riferisce che il paziente ha tendenze suicide, o omicide, o che è un molestatore di bambini, si cercano guai. In tal modo l’aspetto confidenziale della psicoterapia è messo fuori gioco, è finito. I terapeuti e i pazienti stessi si prendono gioco di sé dicendosi che non è così. Cosa si può fare? Niente. Di fatto siamo riusciti a rendere illegale il libero esercizio della psicoterapia! Lo psicoterapeuta è stato trasformato in un agente con l’obbligo di dichiarare, un agente dello Stato il cui compito è quello di tradire il suo paziente. Abusi sui minori, abuso di droga, violenza, suicidio: il terapeuta deve bloccare, deve impedire tutte queste cose. Il terapeuta dev’essere un poliziotto che finge di essere terapeuta. Sempre più spesso la gente si lamenta per qualcuno di questi problemi di riservatezza, ma non vede il quadro più ampio. Non vede che questo ha a che fare con l'alleanza della psichiatria e della psicoterapia con lo Stato, in un modo che replica l'alleanza tra Chiesa e Stato con tutte le sue implicazioni. RW: A maggior ragione, quando la gente va da un terapeuta che lavora in regime di convenzione, deve avere qualche problema per varcare la sua porta, per vedere il terapeuta e per parlare, o per chiedere i farmaci, ma non deve mostrare di avere troppi problemi. Se ci sono troppi problemi i pazienti sono visti come cronici e non possono ottenere aiuto. Pensa che un terapeuta che lavora in regime di convenzione sia in grado di esercitare liberamente la psicoterapia? E il paziente è libero di lavorare in psicoterapia? TS: La psicoterapia in regime di convenzione è un brutto scherzo. Sarebbe come la religione in regime di convenzione, o l'istruzione in regime di convenzione. Anche le cure mediche si complicano e si contaminano se il rapporto diretto tra medico e paziente è disturbato dall'ingresso di terzi, se il paziente, in qualche modo, non paga per ciò che riceve, e se non può ottenere ciò che vuole con i soldi che spende. La psicoterapia moderna è basata sulla psicoanalisi, e la relazione psicoanalitica era basata sul rapporto che intercorre tra il sacerdote e il penitente nel confessionale. Il punto cruciale del confessionale è l’autoaccusa da parte del penitente, e la promessa, da parte del sacerdote che la confessione ascoltata non avrà e non potrà avere conseguenze in questo mondo (ma solo in quello ultraterreno) per chi si autoaccusa . Un sacerdote che ascoltasse una confessione e che lavorasse come spia per lo Stato sarebbe un’oscenità morale. Cose del genere non si verificavano nemmeno nei giorni più bui del totalitarismo. La stessa cosa vale per la psicoterapia, basata sulla riservatezza e sulla premessa che il paziente si accusa con la speranza, così facendo e con l'aiuto del terapeuta, di essere in grado di cambiare se stesso. Quel che è veramente brutto nella psicoterapia oggi è che molti pazienti lavorano con la falsa convinzione che quel che dicono al terapeuta sia riservato, e i terapeuti non dicono prima ai pazienti che se tirano fuori certi pensieri e certe parole, il terapeuta è tenuto a segnalarlo alle autorità competenti, e che i pazienti in tal caso possono essere privatidella libertà, del lavoro, del loro buon nome, e così via. Ora, dovrebbe essere chiaro che collocare la psicoterapia sotto il controllo di una compagnia di assicurazioni o dello Stato è soltanto infilare una sciocchezza dietro l’altra. Possiamo ancora chiamarla psicoterapia, e possiamo ancora trattarla come se stessimo facendo psicoterapia, "cura delle anime," mentre, in linea di principio, non facciamo nulla di diverso da quel che si fa nella chirurgia ortopedica, sistemare un osso fratturato. Ma la psicoterapia è come quando si va in Chiesa. Ci si va volontariamente per un certo tipo di servizi che si vogliono ottenere da una certa persona. Ed è qualcosa che avviene sul piano spirituale. Non è sul piano fisico. RW: Mancano solo un paio di minuti alla fine. Vorrei porle un paio di altre domande. È stato un piacere parlare del suo modo di fare terapia, perché credo lei abbia poche occasioni di farlo, date le misure di sicurezza che stanno intorno a molte delle sue opinioni. TS: Grazie. RW: Ha ricevuto una gran quantità di critiche nel corso della sua carriera. TS: Può ben dirlo! RW: Forse una quantità enorme! Nel suo libro, Follia, lei segnala tutte le critiche. TS: Non tutte! RW: Non poteva menzionarle tutte? TS: No. Solo alcune (risate). RW: Come affronta questo aspetto? Lei è forse uno degli psichiatri più criticati della storia. Non conosco nessun altro che sia stato criticato come lei. TS: Sono stato molto fortunato. Ho avuto buoni genitori, un buon fratello, una buona educazione quando ero bambino a Budapest. Ho figli molto in gamba, buoni amici, buona salute, buone abitudini, una discreta intelligenza. Davvero, mi sono sempre sentito baciato dalla fortuna. Ha contribuito anche il fatto di sentire che molti hanno condiviso le mie opinioni. In fondo quel che sto dicendo che è semplicemente che 2 + 2 = 4. Molti però hanno paura di dirlo, e a volte può essere personalmente e politicamente imprudente dirlo. Non ho fatto nessuna scoperta scientifica. Sto semplicemente dicendo che se sei bianco e non ti piacciono i neri, o viceversa, questa non è una malattia, è un pregiudizio, o che se ti trovi inun edificio da cui non puoi uscire, non è un ospedale, è una prigione. Non m’importa quanti siano a chiamare il razzismo una malattia o il ricovero coatto un trattamento. RW: La critica l’ha mai abbattuto? TS: Certo che sì, soprattutto quando in realtà si puntava a ferirmi sul piano personale, professionale, legale. Non c'è bisogno di entrare in questi argomenti. Ho cercato di proteggermi e sono scappato, per fortuna. Ho trovato un aiuto sconfinato nella letteratura, nei grandi scrittori. Ibsen ha detto, tra le altre cose, che "una solida maggioranza ha sempre torto." RW: Un’ultima domanda. Oltre a essere stato molto criticato, lei è anche diventato per molti un po’ un eroe, per le cose per cui ha lottato, per la libertà, per i diritti individuali, per una maggiore libertà con responsabilità. Chi sono i suoi eroi, dall’infanzia a oggi? TS: Da dove iniziare? Sono molti. Shakespeare, Goethe, Adam Smith, Jefferson, Madison, John Stuart Mill, Mark Twain, Henry Louis Mencken, Tolstoj, Dostoevskij, Cechov, Orwell, Clive Staples Lewis, Ludwig von Mises, Friedrich August von Hayek, Camus e Sartre, anche se personalmente e politicamente trovo quest’ultimo piuttosto meschino. Era un simpatizzante comunista. Era disposto a chiudere un occhio sul Gulag. Ma era molto perspicace sulla condizione umana. La sua autobiografia è superba. Il suo libro sull'antisemitismo è importante. RW: Camus lo sfidò. TS: Sì, Camus ha rotto con lui, soprattutto sulla politica. Camus fu una persona migliore, un essere umano più degno di ammirazione. Fu anche uno scrittore formidabile. RW: Potremmo andare avanti su come ognuno di loro l’ha influenzato, ne sono sicuro, lo faremo un altro giorno, forse. Voglio ringraziarla per essere stato qui con noi oggi. Sono sicuro che i nostri lettori apprezzeranno la sua franchezza. TS: Grazie. * Famoso rivenditore per corrispondenza con sede a Chicago Fonte: Psychotherapy.net. Data di pubblicazione 2000
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