di Miquel Bassols Fino alla metà del secolo scorso, la figura della vittima non meritava di essere studiata di per sé, essendo stato relegata in secondo piano dal discorso giuridico, a favore della figura del delinquente o del crimine. Hans von Hentig, criminologo tedesco emigrato negli Stati Uniti dopo la seconda guerra mondiale e uno dei creatori della vittimologia, fu il primo a proporre un metodo clinico nella formazione giuridica per studiare la vittima come un nuovo oggetto. L'altro co-fondatore della disciplina, Benjamin Mendelsohn, seguendo lo stesso approccio interazionista, pose il nuovo oggetto-vittima in una curiosa scala in base al coinvolgimento avuto nell'originare l'evento traumatico. Questo ha dato inizio a una tassonomia delle diverse figure della vittima, che ha preso sempre più rilievo nel discorso giuridico e sociale. È interessante notare che già in queste prime classificazioni appaia come primo elemento distintivo la resistenza o la cooperazione della vittima nelle diverse fasi dell’evento subìto. Da vittima totalmente innocente – curiosamente definita "vittima ideale" – fino alla vittima simulatrice, in base ai diversi gradi di coinvolgimento. Alla fine del secolo tuttavia è apparso un nuovo fenomeno che ha sostanzialmente modificato la condizione dell’oggetto-vittima, un fenomeno associato alla difesa dei loro diritti in tutte le singole tipologie. L’oggetto-vittima viene a incarnasi non in un singolo soggetto, ma in un gruppo o nell'intera comunità. Ciò ha portato a una collettivizzazione di massa, che estende le caratteristiche di identificazione degli oggetti-vittime con gruppi o comunità più o meno grandi.
Così, oggi si assiste ad una generalizzazione di formazioni associative di vittime, che vanno dalle associazioni di vittime del terrorismo, di vittime di incidenti stradali, delle vittime della frode nel gioco d'azzardo online, dell'aborto o degli effetti nocivi dell'amianto, fino alle vittime di violenza rurale o della negligenza medica. In questa logica, ogni soggetto sarebbe effettivamente nella posizione di oggetto-vittima, e potrebbe essere identificato in una vittimizzazione che si ripartisce in vari modi, a seconda dei gruppi sociali e sottogruppi. L’oggetto-vittima potrebbe essere classificato, in questo modo, in altrettante caratteristiche di identificazione del gruppo. Quando una persona va dallo psicoanalista, chiede di essere riconosciuto nella sua unicità, come un soggetto che soffre di un'esperienza traumatica. È principalmente una richiesta di essere riconosciuto come tale e spesso di essere identificato come vittima oggetto di tale esperienza. È a questo punto che lo psicoanalista dà una svolta a ciò che il discorso sociale e legale hanno dato al vittimismo diffuso, per sottolineare qualcosa che, in realtà, questo stesso discorso ha già introdotto in vari modi, ma senza identificare la sua vera dimensione: la responsabilità del soggetto di fronte alla sua posizione di oggetto. Dobbiamo soffermarci poi su un'altra differenza che la vittimologia trova in un modo ogni volta più importante nelle sue osservazioni. È la differenza tra "la vittimizzazione primaria", quella dell’oggetto vittima dell’evento traumatico o criminale, e la "vittimizzazione secondaria", la cui origine è nella relazione del soggetto con la sua stessa esperienza, con il discorso familiare, sociale e giuridico e con le diverse modalità d’intervento degli apparati dello Stato nel loro trattamento. Colpisce il fatto che oggi, molti degli studi siano dedicati alle difficoltà che sorgono nell’affrontare questa seconda dimensione dell'esperienza della vittima, la dimensione in cui il soggetto deve rispondere di fronte alla propria posizione di oggetto. La definizione "doppia vittimizzazione" è l'effetto peggiore e più evidente di questo ritorno sul soggetto dalla sua posizione di oggetto vittima di fronte all'Altro sociale e giuridico. Devittimizzare la vittima è così il primo modo per ridare al soggetto dell’esperienza traumatica la dignità di essere parlante, che potrebbe perdere nel gioco sociale delle identificazioni. Distinguere e separare l'asse delle identificazioni dell'Io e l'asse del rapporto dell'essere che parla di fronte alla propria posizione di oggetto, è la prima e più semplice operazione che dobbiamo desumere dall’orientamento lacaniano nel trattare la posizione della vittima senza raddoppiare la sua vittimizzazione. Si tratta di studiare quella "affinità strutturale tra l’Io e la vocazione di vittima, che deriva dalla struttura generale del misconoscimento", e della "legge dell'inevitabile vittimismo dell’io", come espresso da Jacques-Alain Miller [1]. Ed è che, propriamente parlando, il destino del soggetto – se c’è un destino – è piuttosto quello di essere scarto. È la sua vera dimensione di oggetto, quando si rivela nel fantasma che il suo apparente destino non era altro che l'incontro contingente con un reale di cui dovrà sempre sapersi far responsabile. 1 Jacques-Alain Miller, 26 Gennaio 1994, Pubblicato da Donc, la lógica de la cura. Editoriale Paidós, Buenos Aires 2011, p. 120-121
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