Incontro con Barbara Cassin, filosofa e filologa, mentre esce il volume da lei coordinato: “Derrière les grilles, sortons du tout-évaluation” (editore Mille et une nuit). È l’occasione per discutere la sua carriera, segnata da una reinterpretazione moderna del pensiero greco e da una riabilitazione della sofistica. Filosofa specializzata nel pensiero antico e filologa, membro de “l’Appel des appels" Barbara Cassin insorge in un libro collettivo, “Derrièrre le grilles”, contro l'ideologia dominante della valutazione che contamina tutti gli spazi sociali, e denuncia la follia delle griglie che aboliscono l'inventiva individuale e qualsiasi spazio di libertà. Incontro con una delle più grandi figure della filosofia attuale che attinge nella sofistica le risorse di un impegno politico orientato sul contemporaneo. L'introduzione al libro “Derrièrre le grilles”, che firma con Roland Gori, s’intitola “Tutti grigliati”. Come dobbiamo intendere la frase: “valutati,, sorvegliati, manipolati, fascistizzati, fregati"? Barbara Cassin - Tutto questo, sì. Siamo cotti, siamo andati alla griglia, sulla griglia, e siamo prigionieri dietro le sbarre. Ma è il principio della valutazione in quanto tale o non piuttosto i suoi eccessi, la sua proiezione sociale, la sua strumentalizzazione politica contro cui si rivolta? Non è il principio in sé. Se non valutiamo, ovviamente, apriamo agli abusi e all’insipienza. Intollerabile è però il modo in cui valutiamo, in tutte le direzioni, facendolo apparire come assolutamente essenziale, qualunque cosa si faccia, indipendentemente dal processo in questione. Ciò è particolarmente evidente in una pratica che io conosco bene, quella della ricerca: un ricercatore all’età fatidica di sessantacinque anni non può, per esempio, condurre dei lavori, proprio nel momento in cui il suo famoso "fattore h", il numero di pubblicazioni su riviste classificato A e misurato attraverso il numero di citazioni che ha ricevuto, è abbastanza alto, almeno nelle scienze umane, da consentirgli di avere facilmente accesso ai finanziamenti – è d’altra parte anche l'età di quanti gestiscono programmi analoghi in altri paesi, come gli Stati Uniti: CNRS si spara sui piedi. Non c’è più discernimento. Bisogna mettere crocette nelle caselle, entrare nei binari, solo per avere "accesso", e questo impegna due terzi del tempo. Lo sanno tutti, eppure continua così. Questo principio della valutazione si applica a tutti gli spazi sociali? Sì, tutti. Anche i colloqui prenatali diventano dispositivi di sorveglianza. Ed è una tendenza che non si ferma: la valutazione nella scuola materna, i questionari di salute mentale applicati ai bambini sono terrificanti. I dibattiti sul DSM IV, Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, hanno rivelato questi abusi. Non c'è bisogno di parole, si dice, ma solo di farmaci. Gli psi nel loro insieme si sono tuttavia mobilitati contro queste derive. Sì, in particolare attraverso l’Appello degli appelli. Si tratta comunque di qualcosa che resta in vigore; non ci sono più abbastanza infermieri, siamo oggi negli ospedali come del XIX secolo: si legano le persone, è la pratica della contenzione; si moltiplicano le stimolazioni cerebrali profonde, quel che si soleva chiamare elettroshock. Predominano la camicia di forza chimica e quella elettrica. Non abbiamo più tempo per occuparci del soggetto che abbiamo di fronte. Con quali mezzi si potrebbe dare una valutazione fatta bene? Con la parola? Sì, la valutazione passa più attraverso la parola che non attraverso le griglie; Ho visto valutazioni relativamente ben fatte al CNRS; si leggevano i rapporti, si ascoltava la gente, se ne discuteva. Non ci si basava sulla suddivisione tra elementi eterogenei che hanno l’unico scopo di classificare (ranking) e di eliminare. Oggi viviamo nel mondo Google: La qualità non è più una proprietà emergente della quantità. È il modello dei motori di ricerca, che tiene conto soltanto dell’opinione del maggior numero. Per definizione però, il maggior numero non ha accesso all'invenzione, al nuovo, dal momento che la mancanza di ciò che non è conosciuto non si nota (che è ciò che l’editore Jérôme Lindon diceva di Beckett). In questo contesto, i problemi finanziari fanno il resto. Attribuisce dunque questa ossessione di valutare all'imposizione del modello neoliberista? Sì, salvo che non sappiamo più bene cosa voglia dire questa parola; è troppo generica. Non so chi non è neoliberista oggi. La sinistra e l’estrema sinistra si sono un po’ perse. Credo ci sia spazio per un discorso umanista, con tutte le virgolette che volete, che prenda le misure di tutte le confusioni e le ambiguità indotte da questo cambiamento nella politica, di cui ora beneficia il Fronte Nazionale. Che cosa si intende per discorso umanista? Non è oggi un concetto più fluido di quel che è stato in altri momenti della nostra storia? A lungo ho diffidato dell’umanesimo, spesso è un termine che Sto arrivando! un po’ di cosa da eredi. Oggi mi sembra che l’umanesimo siano le cose umane, è un discorso di resistenza. Saper scegliere i propri amici nel passato, questa è la definizione di cultura per Hanna Arendt, oggi è una facoltà politica, è anzi la facoltà politica per eccellenza. Aver voglia di educare in questo senso i bambini pensare che la cultura sia una questione importante, questo è l'umanesimo. Riflettiamo per educare il gusto. Questo non può essere una storia di eredità, prendiamolo piuttosto come qualcosa da costruire, che permette di non cadere a capofitto dietro le griglie. Il gusto le sembra in pericolo? Sì, sotto Sarkozy era in pericolo, come aveva mostrato la storia de La principessa di Cleves. Ma non è cambiato nulla da allora; si è sempre in elementi del linguaggio, che per me è la banalità del male; si è sempre nelle griglie della valutazione, con la preoccupazione costante e mortale di classificare ed eliminare. Come evitare di trovarsi incasellati? Non è difficile trovare in sé le risorse per proteggersi contro la servitù volontaria? Quel che so è che urlare a voce spiegata, insieme, produce effetti. Come gli indignati in Piazza Maïdan. È praticamente l'unico contropotere che vedo. Quel che non voglio né per me né per gli altri, ebbene, lo dico. E spiego perché. E trovo persone che non vogliono la stessa cosa. E bisogna parlarne, muoversi. Per Google e i social network possono servire. Dobbiamo riprendere in mano la tecnologia. La tecnica non è dunque un suo nemico? No, non sono heideggeriana. In ogni caso, siamo in un momento di trasformazione darwiniana. Bisogna solo parlarne per esteso, pensarci a lungo, protestare forte, dovunque ci si trovi. Se quel che ci viene imposto come norma non ci va bene, ci sembra dannoso per la comunità, allora dobbiamo urlare; se si è nella posizione attiva, bisogna urlare; se si subisce, bisogna egualmente urlare. L'unica soluzione è parlare. La parola è un grande bene. Si deve sapere che mondo vogliamo e crearlo. Si crea parlando. Ecco perché mi sono così interessata alla Commissione per la Verità e la Riconciliazione in Sudafrica: era uno dei pochi settori della politica contemporanea dove si è creato qualcosa con la parola. Non sto dicendo che basti, ma il popolo arcobaleno è nato così. La reinvenzione, il gusto del minoritario, il rifiuto degli incarichi, come sente oggi, in un contesto culturale attuale piuttosto conservatore, questi motivi filosofici degli anni Sessanta? La pratica critica, il discernimento restano decisivi. Ma soprattutto penso che occorra insinuarsi dovunque sia possibile. La prima cosa che ho fatto nella mia vita è stata una rivista di poesia che usciva dove poteva; si chiamava anche: "Rivista di poesia che esce dove può”. La incollavamo sui muri, sui pali del telegrafo, andavamo dappertutto, dove ci chiedevano dove e non ci chiedevano. Difendo ancora questa gesto: dovunque sia possibile. Non vedo davvero altre possibilità. Anche la filosofia, da questo punto di vista, è dovunque sia possibile. Non solo la filosofia. Dobbiamo innanzi tutto smetterla con i generi filosofici, letterari, poetici, bisogna aprirli, è una lezione umanistica. Quando ho diretto il “Centro di ricerca sul pensiero antico Leon Robin” mi sono accorta che non c’rea Omero, accanto a Platone e accanto agli altri, questo è un puro delirio. Come si può capire Omero se non si ha in mano anche Platone?Forse fare filosofia da un punto di vista femminile vuol dire proprio questo: aprire i generi, e questo implica non avere il controllo assoluto. Il mio primo libro importante di filosofia, è stato “L'effetto sofistico”. Ma ho voluto che al tempo stesso uscisse una raccolta di racconti: “Con i corpi più piccoli e più inapparenti”, titolo tratto da un testo di Gorgia. In entrambi i casi, la questione è: “Cosa facciamo con le parole?” La lingua fa le cose, parlare cambia le cose. Si mettono in atto le cose, le si fa esistere. Non vogliamo invece, le griglie, che mettono in atto il mondo a modo loro, bisogna fare il mondo in modo diverso. La sofistica l’aiuta a fare una diagnosi del mondo contemporaneo? Mi aiuta molto, è un apriscatole universale, perché mette l’accento su una terza dimensione del linguaggio: nella prima lei parla, per esempio del tavolo, e nella seconda lei parla con qualcuno per convincerlo; la sofistica, che si attribuisce sempre alla retorica e ala demagogia, insegna a parlare per parlare, cioè a parlare per far esistere ciò che viene detto. È quel che chiamo logologia, un termine di Novalis, che ha molto a che fare con la performance e l'atto di parola. Questo è collegato a quel che ho fatto nel “Dizionario degli intraducibili”: una lingua, legata a una cultura, produce un mondo. Esiste secondo lei un modo di fare filosofia proprio alle donne? Ho creato, su richiesta dell’Unesco, “La rivista delle donne filosofe”. All’essenza “donna” oppongo un’identità strategica. Se vogliamo evitare l’attribuzione di un’essenza, bisogna giocare con il “in quanto tale". La madre di Arendt le insegnò che se fosse stata attaccata in quanto ebrea, avrebbe dovuto reagire in quanto ebrea. Propongo di fare la stessa cosa, di giocare con l’“in quanto tale”. Mi interessa sostanzialmente decidere a un certo punto, quando voglio, su quale piano pormi, ma rifiuto di essere assegnata a quel posto per sempre. Penso quindi che la sola identità sia strategica, e questa potrebbe essere la seconda lezione di quel che significa fare una filosofia al femminile. Lasciamo le attribuzioni d’essenza, e rivendichiamo attribuzioni strategiche. Oggi preferisco l’universale per ragioni strategiche, ma voglio complicarlo. Si tratta di una parola d'ordine. Come farlo? Attraverso un certa rapporto con il multiculturalismo. Credo in un relativismo ben compreso, che non significa affatto che tutto va bene ma che, in una determinata situazione, c'è un "meglio". È un confronto dedicato. Non è né vero né falso, né bene né male, ma meglio, e non meglio e basta ma meglio per, ovvero per una persona, in una situazione, per uno Stato. Quando si legge il Protagora di Platone, si vede che è esattamente quel che dice Protagora. Non posso dire che un’opinione è vera o falsa, o far passare qualcuno da un’opinione falsa a una vera, ma posso far passare qualcuno da uno stato peggiore a uno migliore; questa è la cultura per me, anche nel senso dell’educazione. Quali sono stati i punti salienti del suo lavoro? Ho avuto Michel Deguy come professore di filosofia, poi ho incontrato Char e Heidegger. Ero agli inizi del rapporto tra poesia e filosofia, nel riflettere sulla loro articolazione, rifiutando la sacralizzazione generalizzata. Il greco è stato poi per me un grande evento. Mi piace la lingua greca. Non ho mai avuto il dottorato in filosofia, ci ho provato dieci volte. Ho cercato altri maestri, Heinz Wismann e Jean Bollack, che mi sono serviti da antidoto al modo heideggeriano di leggere i testi e anche di capire il greco. Nelle lingue morte s’insinua necessariamente l’invenzione. Mi sono interessata alla sofistica grazie a Pierre Aubenque, ho fatto una tesi e ho continuato a lavorare al CNRS. Ho insegnato liceo François Villon di Vanves – in un momento in cui gli studenti frequentavano portandosi in classe delle catene – ma era appassionante. Ho insegnato anche in altri luoghi improbabili: un day hospital per psicotici, ed è lì che ho imparato più cose. Insegnavo qualcosa come la filosofia di fronte ad adolescenti mutacici, che non parlavano, e mi chiedevo come fare per aiutarli a rendersi conto di avere una lingua materna, più materna di un altra. Allora ho scritto in greco sulla lavagna, e per loro è stato uno shock e un esperienza di estraniamento. Hanno cominciato a capire come Cratilo, Socrate, Platone giocassero con quella lingua. Hanno cominciato a capire che anche loro potevano anche giocare con le parole del francese, che gli apparteneva. Vivo dell’apprendimento. Questo spostarsi continuamente definisce in un certo modo il suo gesto filosofico? Sicuramente. Come definire la sua lunga complicità con Alain Badiou? Esiste felicemente da vent’anni. Abbiamo tuttavia, una "ragion pura" teorica molto diversa; non siamo d'accordo sulla filosofia. Lui è platonico, crede nella verità, nell'Uno, diversamente da me. Traducendo la Repubblica ha sostituito l'idea del bene con l'idea della verità. Penso sia un abuso di potere da parte sua. Io non sono platonica. Credo fondamentalmente nel molteplice, ma non nell’universale. Cedo nel relativismo e in ciò che lui chiama le "dubbie proprietà del linguaggio." Io sono una “logologa", lui è un "ontologo". Ne consegue secondo me un filo che va da Parmenide a Heidegger, via Platone. Il mio filo, però, è la sofistica, con Aristotele, che interpreta Platone e sofisti, e Hannah Arendt, a differenza di Heidegger. Ci sono grandi salti! Mi piace fare il salto tra i presocratici e i postmoderni. Mi insegna molto su di noi. Jean-François Lyotard mi ha detto una volta: t’interessi ai greci non interessarti agli ebrei! È una diagnosi che ho preso in considerazione. Dovrei imparare l’ebraico, l’arabo e il cinese, è vero. Ma, al di là della nostra contesa sulla ragion pura, quel che mi avvicina a Badiou è la stessa diffidenza e persino lo stesso disgusto nei confronti della morale e della Critica della ragion pratica. Per finire, e in modo particolare, abbiamo la stessa concezione del gusto e la stessa Critica del giudizio. Questo è ciò che conta. Sono gli stessi testi che entrambi possiamo giudicare buoni e importante, e ci possono essere testi sui quali non siamo d'accordo né l'uno né l'altra.
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Marco Focchi riceve in
viale Gran Sasso 28, 20131 Milano tel. 022665651. Possibilità di colloqui in inglese, francese, spagnolo. Archivi
Ottobre 2024
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