![]() di Elisabetta Corrà – La stampa - TuttoGreen Se c’è un aspetto della precarizzazione della società che ha maggiormente alimentato ciò che di recente Pankaj Mishra ha definito “the age of anger” (l’età della rabbia), il sentimento di umiliazione rancorosa e disperata di chi è escluso dalla ricchezza e dai consumi, è il culto della performance. La domanda prestazionale, declinata in migliaia di modi, affligge i precari, i giovani, tutti coloro che provano nel concreto dei propri corpi e delle proprie vite la “manipolazione collettiva” che Michela Marzano ha smascherato nei suoi studi sulla religione del lavoro, e del successo. Alessandro D’Avenia ha scritto un libro ispirato contro tutto questo, un libro avvincente e onesto che parla del nostro presente con coraggio: L’arte di essere fragili (Mondadori). Il libro racconta la vita di Giacomo Leopardi, poeta non votato ad un pessimismo logorante, ma, spiega l’autore, affamato di infinito e di felicità che seppe creare con i suoi versi una alternativa feconda al proprio stesso devastante dolore. D’Avenia ha scritto un libro contro il diffuso scetticismo dei nostri tempi, uno scetticismo che diventa, a seconda delle circostanze, viltà, cinismo, nichilismo, carrierismo, godimento indiscriminato per la palude di mancanza di sogni, progetti, alternative in cui sembriamo sprofondare sempre di più quando al mattino apriamo la homepage di un qualunque quotidiano. Non è operazione da poco, perché D’Avenia parla prima di tutto ai giovani, le vittime per eccellenza di un sistema economico e culturale che li vuole consumatori assoluti, e poi profughi in casa propria, senza una dignitosa prospettiva di futuro. Un libro che, quindi, è suo malgrado un programma politico: nella poesia, nel canto come tentativo di cogliere l’infinito nel finito - “l’arte di riparare l’incompiutezza delle cose” - , sta la possibilità, mai spenta, di cambiare la realtà, di vederla da un altro punto di vista, di pensare qualcosa di diverso (una luna piena, un pastore, una gallina sull’aia) abbandonando la scorciatoia della rinuncia. Trovando, invece, l’ardire di dire il proprio nome a voce alta.
Anche quando la realtà è spaventosa, perché non lascia scampo, apparentemente desertificata. Si parla di sfighe concrete e non di vane lamentele, in questo libro. Leopardi, al contrario di quanto spesso viene insegnato, non si rovinò la salute per il troppo studio, ma troppo studiò per poter ottenere dal padre quell’amore che un genitore distaccato e autoritario gli negava in una intensità minimamente adeguata. Poi il suo travolgente genio (era sul serio un poeta, non si illudeva di diventarlo) fecero il resto. E non solo nel senso che il corpo fu segnato ben presto dalle “ferite di guerra” riportate in biblioteca, ma anche nel senso che Leopardi non fu compreso dai suoi contemporanei. La sua poesia non era di moda, lui era un innovatore, un anticonformista, dava fastidio con la sua ostinazione che appariva eccentrica e ridicola. Oltre alla devastazione della malattia, il giovane Giacomo dovette sempre patire il misconoscimento del suo talento e della sua poesia. Fu rifiutato come poeta e come uomo, e le due umiliazioni alla fine divennero una cosa sola. Quindi questo libro non parla di una persona che è sopravvissuta a una sconfitta, a un amore andato male, ad una famiglia disfunzionale, ai mali che di solito vengono denunciati sul lettino di uno psicoanalista. Questo libro di Alessandro D’Avenia parla di una persona a cui tutto è andato storto, e che però, fino all’ultimo giorno, è stata in grado, da qualche parte dentro di sé, di rimanere fedele ad una sorta di incantamento interiore, di convinzione, di coerenza intellettuale ed emotiva, una saldezza martoriata dagli eventi che però persisteva nel riscrivere continuamente la propria storia, rendendola infine vitale. Lacan lo chiamava desiderio. Che cosa consenta a questa spinta di non arrendersi, e di tenere contro la tempesta, è quesito che tutti coloro che sono usciti da una analisi continuano a porsi negli anni successivi all’ultima seduta con il proprio analista. Questo libro, che come tutti i buoni libri arriva anche dove il suo autore non avrebbe mai immaginato di spingerlo, attraverso l’esempio luminoso di Giacomo Leopardi, interroga di nuovo questa domanda - come rimanere vivi quando tutto ti è contro ? - e dà delle risposte serie. Per rimanere vivi davvero bisogna imparare a essere fragili. D’Avenia definisce l’arte di essere fragili come una “riparazione” e la identifica con la fase della vita che di solito chiamiamo maturità. Al contrario della vulgata comune, per cui essere maturi, oggi, vorrebbe dire essere capaci di successo, di redditi consistenti, di intransigente furbizia, di doti manipolatorie verso gli altri, il libro propone un altro atteggiamento. Nella “terra degli sbagliati” si impara ad aspettare che le stagioni facciano il proprio corso, e che la bellezza è sempre fragile, e va protetta: “la leggerezza degli uccelli dipende proprio dal peso delle loro ali: è una leggerezza forte, non frutto di superficialità, ma di aspra lotta”. La ginestra deve combattere per sopravvivere nel deserto, ma i suoi fiori sono gialli su un mare di lava nera. Le persone mature sanno essere malinconiche perché “malinconia è vedere l’enorme fragilità del mondo e non scappare”. Riparare, dunque, è “sinonimo di amare”, tutto l’opposto dei programmi di realizzazione narcisistica che dominano i legami sociali del nostro tempo. La minaccia più grave che pesa sui giovani, e sul futuro di tutti, è il nulla, una dimensione rinunciataria della vita in cui i progetti personali si sciolgono sotto la seduzione dei beni di consumo, ma, forse ancora di più, anche per effetto della generale atrofizzazione della capacità di provare emozioni autentiche, meravigliosamente inopportune e perciò miracolose. Questo nulla incombente è come un fantasma che pervade il libro, perché è uno spettro del nostro tempo. D’Avenia lo sa, e ci ritorna spesso. Si tratta di una figura antropologica ben precisa, il nichilista contemporaneo, che ad una prima occhiata gode di tutto ed è in cima alla scala sociale: “Ci accontentiamo della continua ripetizione di esperienze ed emozioni, che alla lunga annoiano o spingono alla ricerca di sensazioni sempre più forti, fino a quella più forte di tutte, l’autodistruzione”. Infatti, “la morte è sempre alla moda”, scrive D’Avenia, ricorrendo al Dialogo della Moda e della Morte contenuto nelle Operette Morali. Il nichilista alla moda è un narcisista convinto di dover soddisfare ogni desiderio per poter essere originale, un sensations seeker che scivola sempre più lontano da se stesso nel tentativo di colmare il proprio vuoto attraverso il consumo, il glamour, il palcoscenico del successo; questo tipo di nichilista, argomenta D’Avenia, è un esiliato dal proprio incantamento, un rinunciatario, un soggetto in cui “il desiderio di altezza si estingue”. Il rischio della performance è che alla ricerca dell’infinito -la scoperta del proprio talento, della propria vocazione - si sostituisca l’aspirazione ad essere guardati, ammirati, cliccati. La vita sul palcoscenico, avverte D’Avenia attraverso i fallimenti “professionali” di Leopardi, è una grande menzogna, perché la pubblica accettazione non è la misura del proprio valore non negoziabile, ossia di quella scintilla di originalità che ogni individuo possiede. L’esibizionismo non coltiva il talento, si limita a perseguire un programma di tipo narcisistico, che alla realtà sostituisce lo specchio. Leopardi sapeva di non piacere ai suoi contemporanei, e che di lui si rideva sulle riviste ad ampia tiratura. Eppure, non ha mai smesso di tener fede alla propria idea di poesia, che considerava vera e rispondente al suo sentimento. La realtà interiore al posto dello specchio, questo è l’esempio sommo di Leopardi: il rischio della propria verità, contro l’esibizionismo del bisogno di approvazione. Chiunque, come accadde a Leopardi, ad un certo punto, è chiamato a scegliere tra finzione e autenticità, e questo momento arriva superati i 30 anni: “Le due vite che si aprono nella maturità sono: creare e distruggere. Distruggere è l’atto creativo di chi ha perso speranza nella propria originalità, nel bello che è venuto a portare nel mondo”. In che cosa consiste, allora, l’arte di essere fragili? Perché essere fragili, soprattutto, dovrebbe servire a qualcosa? Perché noi possiamo incontrare la nostra origine (parola su cui l’autore insiste molto, ricorrendovi in più di un passo), e quindi il nostro talento, qualunque esso sia, proprio dove ci possiamo spezzare, e siamo vulnerabili: “Il giovane deve essere antico, perché per poter essere originale deve essere originario”. La nostra origine è l’epoca interiore in cui tutto ciò che speravamo è andato distrutto: perdendo ogni cosa, non è rimasta che la materia grezza del nostro desiderio. Quella tensione pura, quasi incontaminata, che non smette di comporre le sue poesie perché sa che nella propria solitudine sta la propria incompiuta bellezza. Una radura di pensieri ed emozioni (cuore e ragione, dice D’Avenia) che giocano una partita ridotta all’osso, e cioè ricondotta alla semplice verità del soggetto davanti a se stesso. Il punto di Hilflosigkeit contiene una sua stupefacente bellezza. Fragilità, infatti, è accettare che “maturare è anche un po’ morire”; è rimanere fedeli alla propria vocazione costi quel che costi, non rinunciare a se stessi per quanto possa essere controcorrente, impegnativo e dissacrante rivendicare l’aderenza, come direbbe Lacan, al proprio desiderio. Questa adesione al proprio nucleo più vero è senz’altro fragile, perché il mondo resiste sempre al programma di felicità che tentiamo di estorcere alle cose; eppure, scrive D’Avenia, in questa resistenza il talento si affina, si rafforza, si definisce. Ma la fragilità è anche uno straordinario strumento di conoscenza delle cose del mondo, come mostrano i canti di Leopardi che interrogano la luna, le stelle e gli astri. Non si può davvero arrivare al nocciolo insondabile della nostra presenza sul Pianeta (il mistero della vita, in una accezione non meno scientifica che umanistica) se non riconoscendo dentro di noi la nostra impossibilità ad essere tutto ciò che vogliamo. Senza la siepe, l’infinito non sarebbe possibile. Leopardi, allora, insegna a non farsi sommergere dalla paura del proprio talento, del proprio desiderio, a non rinunciare per viltà: “la mancanza di conoscenza di se stessi porta all’infedeltà a se stessi. Questa infedeltà può imboccare due strade, una meno rumorosa dell’altra, ma ugualmente disperata. La prima è fuggire da se stessi, scegliere vie illusorie ma protettive, viaggiare senza sosta, cercare fuori ciò che non si ha il coraggio di trovare dentro. Per mancanza di destinazione, ci si sottomette ai copioni inadeguati, alle maschere, alla moda, alla fama (...) La seconda strada è indirizzare quell’ardore a distruggere”. Invece, “A questi due possibili percorsi si oppone solo una terza strada, l’unica da imboccare al trivio in cui l’esistenza è inevitabilmente posta: la fedeltà al cuore”. Il pastore errante dell’Asia e la ginestra dimostrano che la fedeltà a se stessi è l’unica opportunità possibile per conservare la capacità di amare. Perciò la fragilità non è un ripiegamento titubante, ma una vera erotica che insegna l’arte di sopravvivere anche quando il cielo è scuro: “Ciò che sai amare decanta e si fa storia”. Leopardi non ha tagliato la corda. Non ha detto di sì al nulla, non ha smesso di scrivere di poesie. Al contrario, ha fatto della rinuncia ad ogni illusione, della fine della giovinezza, un canto. Ha cantato quando tutto in lui avrebbe voluto tacere. Ha scritto quando ogni motivazione sembrava svanita, e ad occhio altrui pareva addirittura frivola, sciocca e mal posta: “Ecco il tuo vero destino: emergere come una fenice dalle ceneri della tua ragione (...) l’ultima parola non ce l’hanno il nulla, il dolore, lo smarrimento, ma la creazione” perché “creare è sinonimo di amare (...) Non hai trasformato il nulla in nulla, ma in bellezza”, ossia “il canto dell’infinito incastonato nel limite”. Perciò: “Questo è il tuo retaggio. Il buono e il bello fatto al mondo, a qualsiasi costo. Questa la tua storia. Il resto è scoria”. La chiusura del libro di D’Avenia è sensazionale ed è un inno al cambiamento sociale di cui il nostro Paese ha bisogno in modo radicale. D’Avenia dice a Giacomo Leopardi ti voglio bene. Tre parole, così rare in un mondo votato all’affermazione e alla sopraffazione, così indispensabili perché un ragazzo possa diventare un eroe.
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