di Clotilde Leguil Cosa significa il controllo dell'esperienza dell'analista? Perché l'esperienza ha bisogno di essere messa alla prova del controllo? Si tratta di controllare una buona pratica, come se fosse questione di sottoporsi a regole per garantire una direzione della cura ortonormata? Le sedute di controllo sono per me l'occasione di percepire che il controllo è esattamente il contrario della verifica di una buona pratica, e che al tempo stesso prolunga l'analisi mettendo l'analista a confronto con le sue passioni proprio dove non se l'aspettava. Nel mio ultimo controllo ho pensato alla frase di Lacan in "La direzione della cura" del 1958, sull'effetto delle passioni dell’analista: “Non teme l’errore, ma l’ignoranza, non ha il gusto di soddisfare, ma di non deludere, non ha bisogno di governare, ma di tenere le redini". Ho pensato, infine, che se il controllo è permissivo, come ha detto Jacques-Alain Miller durante le giornate della scuola del 2014, è perché invita a disfarsi delle norme, quelle a cui ci si conforma senza saperlo. Ho anche pensato cosa sarebbe una pratica della psicoanalisi senza il controllo, ovvero senza l'opportunità di parlare della propria pratica. La solitudine non farebbe riaffiorare tutte le passioni segrete? Perché da dove vengono, alla fin fine, le norme che, suo malgrado, si impongono all'analista? Sono solo idee teoriche, norme sociali o sono qualcos'altro? Queste norme, se ci si confronta, sono in realtà solo la maschera delle passioni di ciascuno. Il controllo prende allora una dimensione catartica, in quanto permette di percepire in che punto si può venire ripresi dal proprio essere, dove invece dobbiamo agire con la nostra mancanza d’essere. Questa formula di Lacan del 1958 assume per me un senso più concreto oggi grazie al controllo: agire con la propria mancanza d’essere è anche agire liberandosi di qualsiasi norma, prendendo appoggio sul desiderio come unico valore dell'esperienza stessa.
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