Jacques-Alain Miller Conferenza tenuta il 18 ottobre 1981 a San Paolo Non vedo modo migliore di iniziare questo incontro se non evocando il secondo caso che volevo presentarvi. È un caso di cui ho sentito parlare di recente in Argentina. Vi chiedo di prestare attenzione alla presentazione perché qui, a differenza del primo caso la cui diagnosi era chiaramente di psicosi, si pone una questione diagnostica. Si tratta del caso di una giovane di nome Virginia. L’analista che l'ha avuta in cura ne presenta la storia partendo dalla genealogia. Il nonno materno era bigamo, e aveva avuto una figlia non con la moglie legittima ma con un'altra donna. Questa figlia era la madre di Virginia. Il padre di Virginia era stato a sua volta accusato di aver violentato una ragazzina, un'amica di famiglia. La coppia si separò presto e Virginia fu cresciuta da una zia. Fin da piccola Virginia era triste, pallida e timida, l'opposto di sua madre che si truccava, si pettinava con cura, aveva gli occhi vispi e sorrideva spesso, anche nelle situazioni difficili. Madre e figlia formavano un contrasto evidente. Dopo il divorzio dei genitori la ragazza frequentò una scuola religiosa, motivo per cui potè vedere il padre solo nei fine settimana.
A ventitré anni, quando viveva con sua madre, sostenendo che questa la odiava, chiese al padre di portarla a casa sua, ma il padre si rifiutò. Così madre e figlia, sempre in contrasto, continuarono a vivere insieme. Con quel che guadagnava svolgendo mansioni amministrative, Virginia riusciva a mantenersi: era molto importante per lei essere indipendente. Allo stesso tempo litigava di frequente con sua madre, che considerava portatrice del bene, mentre lei, invece, era portatrice del male. La madre valeva più di lei, perché gli uomini la ammiravano quando camminava per strada. Verso l’ottobre del 1979, in un istituto sociale, Virginia cominciò una terapia psichiatrica che, invece di migliorarla, peggiorò la sua triste situazione. Come sappiamo è normale che i disturbi si aggravino quando s’inizia una terapia. Per quanto riguarda Virginia, le sue esigenze nei confronti della madre aumentarono fino a chiedere la rigorosa separazione di tutti gli oggetti d’uso personale. La ragazza si sentiva profondamente angosciata, e si lavava così tanto le mani da sviluppare una malattia della pelle. Di notte, com’è naturale, la sua angoscia aumentava: apriva gli armadi, guardava sotto il letto per verificare se ci fosse un uomo nascosto. Temeva che, nel buio, la prendessero per il collo e la strangolassero. La sua vita privata si rifletteva sul lavoro, dove cominciava ad avere anche lì dei problemi. Proprio in ottobre passò quasi un mese senza dormire. Fece molti sogni. Si lamentava che il padre non andasse a trovarla né la chiamasse. Nel gennaio 1980 lo psichiatra le propose per la prima volta un ricovero, ma né lei né la madre accettarono. Racconta che a febbraio il suo capoufficio, uscito per qualche ora, era tornato di cattivo umore. Occorre sottolineare l'importanza che quest’uomo rivestiva per lei: lo considerava come un padre, e credeva di piacergli molto, anche se era un uomo terribile e collerico. Nel momento in cui questi entrò in ufficio e le chiese alcuni documenti, disse: “Qui ci sono persone non qualificate". Questo la umiliò, visto che era molto dedita al suo lavoro. Prese alla lettera l’affermazione ingiusta del datore di lavoro, e dichiarò di non poter più lavorare, venendo poi ricoverata nel mese di maggio per venti giorni. Nel luogo del ricovero incontrò la persona che le avrebbe fatto da analista, la quale si domandò se Virginia non fosse psicotica. È quindi evidente che non poteva più vivere con la madre, ma percepiva uno stipendio senza lavorare – un congedo con retribuzione – e potè pagarsi le spese. D'altra parte, non sopportava di essere separata dalla madre, e chiedeva con insistenza di non essere ricoverata. Anche in ospedale era sconvolta perché aveva paura di essere violentata. La paziente attribuiva la sua paura a una fantasia che non riusciva a togliersi dalla testa, avendo la costante impressione che fosse reale. Chiedeva a chi le era vicino, soprattutto alla madre, di negare questa fantasia. La madre lo faceva, ma questo non cambiava la sua convinzione che nelle sue fantasticherie ci fosse almeno un po' di verità, e continuò ad aver bisogno di rassicurazioni. Perseguitava quindi la madre tutto il giorno, implorandola di ripeterle sempre le stesse cose, dicendo di non aver prestato ascolto. Questo è il motivo principale che portò la madre ad accettare il ricovero della figlia. A questo punto del racconto propongo, come esercizio, di fare delle osservazioni per discutere il caso. Il compito è semplificato poiché ho scandito i momenti e gli eventi più importanti. Quindi potete ora formulare le prime ipotesi psicoanalitiche. Discussione sul caso di Virginia P.: Vorrei porle una domanda che ha in sé un'ipotesi. C'è una relazione tra il discorso di Virginia, la richiesta di terapia, e il commento del capoufficio: “Qui ci sono persone non qualificate”? J.-A.M.: È opportuno tener presente la sequenza degli eventi dal mese di gennaio, quando lo psichiatra ha considerato che le sue condizioni potessero richiedere il ricovero in ospedale. A febbraio si è verificato l'episodio che l'ha portata a confrontarsi con il suo datore di lavoro e che ha raccontato in terapia. A marzo l'hanno ricoverata. Su quanto accaduto a febbraio Virginia si è lamentata con il superiore del suo capo. Da quel momento il suo lavoro ha cominciato a deteriorarsi e lei ha cominciato a essere assente, il che ha aumentato la sua angoscia. Abbiamo qui una sequenza di eventi, uno stato di acuzie che cresce con l'angoscia e che alla fine le fa accettare il ricovero in ospedale. P.: La mia ipotesi è che lei fosse in crisi e che abbia chiesto protezione cercando la metafora paterna attraverso una storia che avesse a che fare con il padre e gli uomini della famiglia. La stato finale mi sembra un tentativo di produrre il posto degli uomini. Vorrei sviluppate questo punto, prima di concludere in termini di diagnosi. Per definirla strutturalmente mancano infatti elementi e dati proprio su questo punto. J.-A.M.: Oltre a rilevare dati su questo punto per stabilire la diagnosi, sarebbe anche utile scegliere prima la direzione da seguire. Ci sono elementi che sembrano confermare e altri smentire la diagnosi iniziale. Avendo un'idea del caso, si può formulare un'ipotesi e, senza chiuderla, possiamo tentare di verificarla attraverso uno, due o tre punti. Da qui si passa poi agli elementi che servono per sostenere l’ipotesi o a quelli che le si oppongono. Che modalità volete seguire? P.: La considererei come un’isterica, nevrotica in senso generale, e in crisi rispetto alla funzione paterna. Ciò che ha attirato maggiormente la mia attenzione, nella sequenza, sono le domande che fa a sua madre, non avendo altra persona a cui farle, nessuno su cui appoggiarsi. Non ascolta ciò di cui la madre non parla, perché lei non le dice niente. Non riesce a capire cosa le dice sua madre sugli uomini, specialmente sul padre. J.-A.M.: Dove vede il fatto che Virginia non capisce cosa dice la madre in relazione agli uomini? P.: Nel discorso. Virginia afferma di non sentire le parole della madre e ripete instancabilmente la domanda. Penso che la questione abbia a che fare con l'uomo che, all'inizio della crisi, lei cerca sotto il letto. Quell'uomo che ha dichiarato che la qualità delle persone era pessima, e che l'ha toccata profondamente. Su questi elementi che ho elencato farei la mia prima ipotesi. J.-A.M.: Anche io penserei a un caso di isteria, per quanto nel racconto presenti segni di ossessione, di difese ossessive. Penso che questa donna cerchi di trovarsi nella condizione di essere sessuato, ma come donna. Mi sembra che ci sia in lei un'inconsapevolezza della propria condizione di donna. Dalla nonna – non riconosciuta poiché il nonno era bigamo – alla madre – il cui marito era sospettato di aver avuto rapporti con una ragazzina. Quando Virginia cerca una figura sotto il letto, va nel senso di rinforzare un fantasma, sospetta di vedere questa figura come una realtà. La mia prima ipotesi sarebbe quella di una paziente isterica che cerca di includersi nella condizione di donna, perché non sa chi è. P.: Jacques-Alain Miller questa mattina ha detto che ci vogliono tre generazioni per dar luogo a una psicosi, e allo stesso tempo ha detto di aver considerato la possibilità di una nevrosi. È nevrosi o psicosi? P.: Inizierei pensando al nome Virginia, alla verginità e alla paura dello stupro. E all'atto mancato tra i 15 e i 23 anni, quando ha detto che il padre aveva un'amante giovanissima, quasi una ragazza. È così: bisogna dare importanza alle tre generazioni. P.: Bisogna un po’ immaginare, perché né l'analista né l'analizzante sono presenti. Che cosa si può immaginare? Partirei dal discorso, dalla scelta del caso, dalla posizione del padre tra le due donne e la vergine. Menzionerei anche la zia che l'ha cresciuta, e che qui è stata tralasciata. P.: In che posto è questa ragazza? Disegnando la storia sulla lavagna, Miller ha fatto un piccolo lapsus: non ha chiarito i posti occupati dalla giovane, dal padre e dalla madre. Chi è il padre? Chi è la madre? Forse la donna dovrebbe essere l'altra. Ma abbiamo anche la questione del maltrattamento del proprio corpo come sintomo ossessivo, fino alla malattia sulla pelle delle mani. Il corpo è come uno strumento. Questa giovane ha qualcosa dell’isterica, ma anche qualcosa della psicotica. P.: Non mi affretterei a definire se si tratti di una psicosi o di una nevrosi. Il caso presenta, molto chiaramente, il problema del campo oscuro della sessualità femminile. Qual è la relazione tra il lavaggio compulsivo delle mani, il letto e l'uomo che ci sta sotto? E il congedo con retribuzione di cui gode senza lavorare? Mi chiedo: com'è la vita sessuale di questa paziente? In sostanza, la separazione degli oggetti per uso personale – uno dei sintomi – sarebbe da mettere in relazione con la femminilità e la castrazione. metterei in relazione il godimento con la masturbazione e con il ruolo svolto dalla zia. P.: Il caso denominato Virginia ci è stato portato come il caso di un’analista che non conosciamo. È stato presentato qui oggi quando ci aspettavamo di sentir parlare del rapporto tra desiderio e godimento. Quale discorso analitico ci si sta proponendo qui? La storia di un caso passato attraverso tre narrazioni. P.: Non ho ben capito a che punto l'analista entra in questa storia. La paziente è stata ricoverata, c'era un'analista che lavorava nell’istituto, ma Virginia non ha richiesto la sua presenza. Allora perché viene sollevata questa questione? P.: C'è qualcosa qui che definirei sintomo di gruppo. Ieri ha detto seriamente che ci sono cose che non si dicono. Oggi sembra che il gruppo eviti per l’appunto di dire alcune cose: per esempio il fatto che lei non abbia parlato di quello che ci aveva promesso. Il gruppo è un po' isterico, e sembra che il problema sia da un’altra parte: lei non ha un caso perché non ha una clinica formalizzata, e quindi qui non parla di casi propri ma di altri. È come se fosse così: nessuno la interroga direttamente su questo. Mi chiedo: perché non il caso di un altro analista? Penso che il problema, il sintomo, sia del gruppo. J.-A.M.: Quando i sintomi sono gravi non cambiano, non sono fluttuanti. Il gruppo è in sé un sintomo: non ha un sintomo, ma lo è. Per non considerare come gruppo l’insieme che voi formate qui, porrei a ciascuno di voi – in quanto appartenenti al campo freudiano, o come persone che esercitano la psicoanalisi o la psicoterapia – la seguente domanda, che sicuramente ha fatto anche l’analista stessa che ha seguito il caso, caso che per lei è stato problematico, dal momento che è venuta a presentarlo pubblicamente a Buenos Aires. È innanzitutto necessario sapere qual è la legge di ogni supervisione. Anche se lo statuto della supervisione nella psicoanalisi non è regolato teoricamente, resta sempre una questione teorica aperta. Dobbiamo constatare che la supervisione, nella psicoanalisi, è diventata una tradizione, ed la si fa sia nella Società Internazionale sia dalla Scuola Freudiana di Parigi. E si considera che vi siano certi effetti di verità, che vi sia trasmissione del sapere analitico, che è possibile anche senza la presenza del paziente di cui si parla. La psichiatria richiede la presenza del paziente. La psicoanalisi, invece, anche senza la presenza del paziente, considera vi siano effetti di verità e di trasmissione del sapere. La psicoanalisi concepisce la possibilità indiretta della presentazione, senza la presenza del paziente, perché alla fine si sa che ciò che conta sono i significanti, i cui elementi essenziali e la cui impalcatura possono essere messi in risalto, possono essere isolati. Succede in qualsiasi supervisione, e chi fa la supervisione la fa grazie alla mediazione dell'analista, traendo conclusioni che utilizza poi nelle conferenze e nelle sue riflessioni. A me chiedono proprio questo: che io rifletta e che tragga conclusioni sul caso che mi viene presentato. Nel momento in cui traggo le conclusioni, non c’è nulla di irragionevole nel farvene partecipi. E, secondo me, non fa molta differenza di quanti gradi è indiretto il discorso: succede che il discorso sia il discorso del discorso, è ciò che accade, ci crediamo. Ovviamente se l'essenziale fosse il corpo della paziente, sarebbe necessario che lei fosse qui. Poiché però non si tratta di psicoanalisi del corpo, ma del significante, questo carattere indiretto è perfettamente garantito. Consideriamo anche il dispositivo della passe, che Lacan ha istituito e per il quale siamo abituati a pensare che non sia necessaria la presenza del candidato a mostrare la concretezza del suo corpo. Sappiamo che il paradosso della passe, lungi dal rendere necessaria la presenza del candidato, interpone quelli che Lacan chiama i passanti. Il racconto del candidato arriva alla giuria solo attraverso la loro mediazione. Sebbene qualcosa si perda in questa mediazione, l'essenziale si conserva. Lacan ha detto che la passe ha la struttura di un motto di spirito, poiché non appena i passanti sentono quel che succede al candidato, vanno a raccontarlo all'Altro che rappresenta la giuria. C'è un carattere mediato, organizzato volontariamente e artificialmente, come nel caso di Virginia: voi stessi lo racconterete, e in questo modo comincerà a circolare. D'altra parte, dobbiamo ricordare che Freud non esitò a scrivere il suo testo essenziale sulla psicosi lavorando su un paziente che non aveva mai visto, e avvalendosi solo delle sue memorie scritte. Mi riferisco a Schreber. Freud, nonostante avesse incontrato alcuni pazienti psicotici e avesse anche potuto ascoltare resoconti di casi da Jung e da Abraham, scelse di svolgere l’analisi strutturale più profonda proprio utilizzando un testo. E Lacan, che era uno psichiatra, sostiene nella sua tesi che ci sono stati almeno trenta casi come quello di Aimée. Ne ha seguito solo uno: la paziente che ha continuato a vedere mentre era nell'ospedale psichiatrico. Quando ha svolto un insegnamento sulla psicosi, ha scelto le Memorie di Schreber, partendo da esse e dai commenti di Freud, aggiungendo, in effetti, un ulteriore livello di discorso. Questa modalità nella psicoanalisi si potrebbe condannare e dire: "In fondo, quali sono i tuoi casi? Parli sempre in modo indiretto.” Ma l'errore sta egualmente nel pensare che quando siamo in presenza di qualcuno si tratti del suo corpo e della sua individualità. Per capire il caso N, bisognerebbe allora conoscere suo nonno, ma siccome non crediamo che i corpi risuscitino... Le cose più importanti del caso che stiamo analizzando sono avvenute nelle generazioni precedenti. Ci avviciniamo indirettamente, proprio perché il significante è all’esterno. E d'altra parte, spesso è necessario neutralizzare la concretezza della presenza fisica per cercare di raggiungere un punto che sta al di là, il punto del soggetto, che non si identifica con quello della persona. Penso che questo breve dibattito che abbiamo avuto sia importante, perché qui si tratta ovviamente di capire se, partendo da qualcosa di indiretto è possibile trasmettere sapere e ottenere effetti di verità e se, presentato così, il caso ci dice qualcosa sulla delimitazione del campo specificamente analitico, in quanto evidentemente pone esigenze molto diverse da quelle di altre discipline. P.: C'è una netta differenza nel discorso psicoanalitico quando si pensa empiricamente – la sua critica del discorso psichiatrico – o quando si discute a partire da ciò che qualcuno ha detto. Alcuni dei presenti hanno cercato di formulare ipotesi sul discorso da lei proposto. Per il mio modo di lavorare non posso verificare il discorso del significante se non è nella parola di qualcuno, se non ho lì un soggetto barrato. La presentazione di un caso in senso psichiatrico o psicologico, senza la parola del soggetto, ci pone di fronte a un oggetto invece che a un soggetto. J.-A.M.: Lei immagina che il soggetto sia l'essere parlante, mentre è anche l'essere parlato. E qui non vale l'opposizione filosofica del soggetto e dell'oggetto, che metterebbe da una parte l'errore soggettivo o l'attività soggettiva, e dall'altra la caduta del soggetto nell'oggettività positivista. È il modo fenomenologico di presentare l’opposizione, ma non è quello che usiamo noi, che è invece: il soggetto barrato e l'oggetto a. P.: Ammiro sempre di più la grande saggezza di Lacan: non si può parlare di casi clinici quando si vuole parlare di clinica. Da qui la domanda: se parlo del soggetto parlato, cosa posso immaginare nel campo delle ipotesi o in una teoria prestabilita? Nella presentazione di un caso ho ricordato un articolo che ho scritto in cui cito quel che lei dice nelle Lettres de l’Ecole freudienne: non c'è trasmissione senza traslazione. Parlando di un caso stiamo quindi usando una teoria prestabilita che tutti già conoscono. Ci chiediamo così se si tratti di psicosi, di nevrosi, di metafora paterna, di questo o di quello. Nella supervisione creiamo una teoria, e non abbiamo bisogno del corpo fisico, biologico. C'è però un'altra esigenza: quella di lavorare sul caso. Se ci avesse fornito la sua teoria sul caso, avremmo potuto elaborarla e capirne l'origine. E se avesse posto la domanda: “Cosa ne pensate?", l'immaginario sarebbe stato in libertà. Penso che avremmo mille ipotesi. Ricordo che durante le supervisioni, quando frequentavo la Società di psicoanalisi, ci chiedevano: cosa ne pensate?” Noi rispondevamo: "Penso questo, quello, quell’altro". E uscivamo tutti molto contenti. Come ho detto, qui non c'è analista né analizzante. Quindi siamo rimasti con il suo schema. Perché il cerchio intorno al padre?Perché gli atti mancati? Perché le dimenticanze? Rimangono queste domande, poiché non capiamo la sua opinione sulla teoria che ha costruito e sul caso che ha presentato. J.-A.M.: Avevo in effetti intenzione di esprimere la mia opinione al riguardo e, in ogni caso, così è la pratica enigmatica e discutibile della supervisione. Contrariamente a quanto diceva il signore accanto a lei, in psicanalisi è lecito parlare e riflettere su casi che non sono stati visti o sentiti direttamente. È discutibile, ma è un dato di fatto. Ed è necessario chiedersi perché una tale abitudine si sia consolidata nella psicoanalisi. Si è consolidata perché il fatto che il supervisore sia presente durante la seduta contrasta con la pratica analitica, questa modalità non è stata inventata, anche se i nordamericani si sono inventati di fare sedute analitiche in cui il supervisore sta dietro uno specchio bidirezionale. È come quando le sedute analitiche sono registrate perché qualcun altro possa ascoltarle, cosa sconveniente e impossibile. Nel dispositivo analitico questa limitazione esiste a priori: non ci sono più di due persone in questo legame sociale. Per il tipo di elementi che si riferiscono, che possono durare nel tempo, nonostante le trasformazioni e le parti indotte dalla trasmissione, dobbiamo ancora una volta giustificare questo fatto. Ci siamo un po’ soffermati a sviluppare queste osservazioni, e se continuiamo non avrò il tempo di esprimere la mia opinione e raccontare altri fatti relativi al caso. Sapete cosa è cambiato nei miti di Lévi-Strauss? Una volta si cercava l'autentico, il primo di una serie di miti. Lévi-Strauss ha cambiato ottica dicendo: “Alla fin fine, prendo in considerazione tutta la serie dei miti con tutte le loro trasformazioni, con tutte le loro varianti, anche quelle lontane. E non cerco il mito originario a partire dal quale tutto si trasformerebbe, a partire dal quale si producono tutte le trasformazioni. Considero invece globalmente tutte le trasformazioni: il mito è tutto questo insieme, non occorre cercare cronologicamente ciò che precede.” La struttura si chiarisce, infatti, a partire dalle trasformazioni avvenute nei materiali. Il mito è la totalità di questa trasformazione. In fondo – come dice Lacan – è quindi questo a dare forma epica alla struttura, che è qui attraverso ciò che si è perso riferendola. Sarete voi stessi indotti a riferire di nuovo quel che vi ho detto e, in definitiva, può essere legittimo considerare che il caso è questo, con tutte le sue trasformazioni. Non bisogna lasciarsi ipnotizzare da quella che sarebbe stata la verità all’origine, perché senza di essa dovremmo arrenderci subito. La teoria e la sua pre-comprensione sono già presenti. Era l'analista che ascoltava il paziente, quindi la teoria sta nel fatto che ci troviamo nel dispositivo analitico. Se la paziente avesse fatto rilassamento e ginnastica, la nostra valutazione del caso sarebbe diversa, così come se avesse subìto un elettrochoc. Partiamo sconfitti se immaginiamo che il solo indice sia la pura verità dell'origine del soggetto parlante nella sua attività autonoma. Se così fosse non varrebbe la pena di spostarsi, e sarebbe meglio restare nel nostro angolo con un ristretto numero di pazienti con cui parlare con calma. Non varrebbe la pena di incontrarsi per condividere informazioni, riflessioni, per fare considerazioni su persone che non abbiamo mai visto. Questa discussione è molto illuminante, perché non si tratta di continuare in un senso, ma di mantenere questo punto fino alla fine. Per esempio, nel piccolo quadro genealogico del caso in questione è interessante che, nel riproporvelo, io abbia commesso lo stesso errore di quando l'ho letto per la prima volta. La prima pagina è un po' confusa e in quel momento avevo solo mezz'ora per leggere tutto: mi irritava perdere tanto tempo su una pagina, vedevo che i minuti passavano e non riuscivo a orientarmi. L'ho capito solo dopo aver chiesto all'analista di verificare l'inizio del testo, ricomponendo lei stessa l'albero genealogico, che io ho ricostruito qui con lo stesso errore. Se il tentativo era di farvi ripercorrere il cammino che avevo seguito e le ipotesi che avevo fatto, senza dubbio ho ripreso tutti i circuiti per cui sono passato, compreso l'errore di genealogia. In verità, se ho capito bene le vostre considerazioni – detto per inciso, all’inizio molto precise, fino a quando si sono sviate in una messa in questione generale – percepisco la non autenticità del significante, che è sempre non autentico, perché è un sostituto. Sono molto lieto di aver suscitato un dibattito appassionato. Ora, però, ognuno potrebbe formulare la propria opinione sul caso Virginia, potrebbe prendre sa religion, che in francese significa farsi la propria opinione. Torniamo ora al punto di partenza. Si rischia di confondersi di fronte a un albero genealogico così complicato. È vero che la genealogia non è priva di interesse – come nel caso N – solo però se parte dal sintomo, che mette in forma il reale di un caso: non c’è nulla di più reale del sintomo. Prima di riferirsi alla genealogia, è innanzitutto necessario andare al sintomo del paziente. In primo piano per Virginia appare la prevalenza del rapporto con la madre, sotto contratto, che forma con lei una coppia e che dimostra chiaramente la funzione inquietante che il posto della madre ha per la figlia. La teoria non abbraccia questa visione, Freud ne ha parlato poco, mentre Lacan ha sottolineato soprattutto il carattere devastante del rapporto madre-figlia. È necessario sapere come situarlo nel trattamento, non dimenticarsi come funziona con la teoria dell’Edipo. Il secondo punto è che per la figlia il padre ha un posto ben definito, infatti almeno due volte la vediamo chiamare il padre perché venga a prenderla per separarla dalla madre, manifestando allora quello che Lacan chiama scherzosamente la père-version l’esser rivolti al padre, il fatto di rivolgersi verso il padre. In prima ipotesi, non sembra che il posto del padre non sia costituito, visto che la ragazza è ancora in grado di rivolgergli le sue richieste. Il terzo è un punto molto preciso: le pretese di separare i suoi effetti personali da quelli della madre e l'azione compulsiva di lavarsi le mani. Abbiamo una teoria prestabilita, e senza di essa potremmo dire: "Quella ragazza è pazza. Che le prende? Perché si lava continuamente le mani?” Si fa così quando l’unica teoria prestabilita è quella del buon senso. È necessario per noi avere un sapere prestabilito, non per sedervisi sopra, ma per interrogarlo a seconda del caso che stiamo analizzando. Il nostro sapere prestabilito – considerando la coazione a lavarsi le mani, il fatto di separare i propri effetti personali da quelli della madre e di essere stata estremamente sensibile alla svalutazione indotta dal suo capo, che è come un padre – ci porta verso l’idea di una nevrosi ossessiva, poiché si tratta di sintomi ossessivi. Possiamo dirlo dal momento in cui vediamo in lei uno schema di svalutazione di sé, già apparso in relazione alla madre. La suscettibilità della paziente alla parola del capo, che la rende un po' lamentosa, bisognosa – non sul versante persecutorio, ma di una rivendicazione di valori – mi porta a propendere, come ipotesi, per la nevrosi ossessiva. È una cosa che si può considerare, ma con molta cautela, perché la nevrosi ossessiva nelle donne è molto rara, anche se non è assolutamente eccezionale come potrebbe essere il feticismo. Prima di diagnosticare un caso di nevrosi ossessiva in una donna conviene tuttavia avere molti più punti d'appoggio. In linea di massima non dovremmo andare nella direzione della psicosi, anche se una cosa che potrebbe preoccuparci è il fatto che si lavi le mani fino a strapparsi la pelle, cosa che sembra un po' eccessiva. Per delimitare ulteriormente la nostra ipotesi, sappiamo che tale mania nelle donne si può riscontrare, mentre il feticismo lo troviamo negli uomini, e non viceversa, su questo c'è una barriera. Anche la donna è in un certo senso feticista, possiamo parlare di feticismo del fallo, ma è molto diverso da quello che si presenta nell’uomo, è quasi abusivo dirlo così. In questo caso è necessario essere prudenti, ma siccome lo siamo già, non mi sono fermato qui, anzi, ho proseguito finché non siamo arrivati a parlare di quella che lei stessa chiama la sua fantasia, che di fatto è costituita come sintomo. Qual è la fantasia? Lei dice: "Ho una fantasia, non riesco a togliermela dalla testa". N, tuttavia, non chiamava fantasie le sue rimuginazioni. Lei crede, non può smettere di credere, fantasia è la sua espressione. N diceva: "Non sono malato di mente, sono malato per cause esterne". Virginia invece dice: "Ho delle fantasie, non riesco a togliermele dalla testa" e in fondo, questo a cosa la porta? A fare appello all'Altro, a un Altro che può garantire che questa fantasia non è vera. Da quanto emerge dal testo e dall’analisi clinica, si può isolare la funzione dell’Altro della garanzia. Lei esige che l’Altro, incarnato dalla madre, le garantisca che: “Non è vero!”. Quel che appare ossessivo è, una volta ottenuta la risposta, la continua richiesta che la risposta venga ripetuta. La vediamo qui imprigionata nella compulsione di ottenere la garanzia dall'Altro, motivo per cui perseguita la madre per farsi dire che non accadrà nulla di ciò che teme. La sua angoscia la porta a domandare all'Altro che assicuri e rassicuri. Potremmo dire che nella ripetizione non chiede che le si faccia un discorso. Chiede che le venga ripetuta sempre la stessa cosa, perché in questo senso non è mai abbastanza. Questo ha la stessa struttura del lavaggio compulsivo delle mani, perché non sono mai abbastanza pulite. Ora cominciamo a vedere una certa consistenza sintomatica. Il punto in cui ho interrotto il racconto è quello dove si regge il peso dell'ipotesi, che è di fronte all'incredibile: la nevrosi ossessiva costituita nella donna. Manterremo ancora il suo stato d’ipotesi, e poi cercheremo di scoprire se ci sono elementi che la confermano o meno. Posso fornire ulteriori dettagli a proposito di questa domanda continua di ripetizione. Abbiamo un caso interessante, portato da Buenos Aires da un certo Juan Carlos, a proposito di un paziente che aveva un sintomo ossessivo, di cui ci ha fornito solo un frammento, quel che basta, un sintomo ben definito, molto importante per quel che può insegnarci. Si tratta di un uomo che aspetta una telefonata dalla donna che ama. Sta vicino al telefono e passa la notte a controllare che il telefono funzioni: alza compulsivamente la cornetta per sentire se c’è la linea. Abbiamo fatto un'analisi molto interessante di questo sintomo. Nell'atto stesso di verificare se può ricevere la chiamata, rende impossibile riceverla. Controllando se l'apparecchio funziona ne impedisce il funzionamento rendendolo inutile. C'è un impressionante effetto di annullamento dell'attività. È un caso breve, ma è un paradigma dell'ossessivo: ha risolto il rapporto sessuale che non c'è sostituendo la donna con il telefono. Ha trovato il modo di telefonare al telefono, e di avere lì sempre qualcuno. Al posto della donna, che in quel momento non c’è proprio, mette un telefono che gli risponde, a ogni chiamata, con un segnale di perfetto funzionamento. Penso che pubblicheremo questo caso, aggiungendovi qualche commento: forse possiamo farne un paradigma. Vediamo qui qualcosa di tipico dell'ossessivo: avere a disposizione un Altro, un Altro maiuscolo, un Altro maiuscolo automatico, un Altro che risponde non appena lo si chiama – anche se c'è sempre il rischio fondamentale del crollo dell'intero sistema significante – un Altro molto ben incarnato da quell'oggetto moderno, quell’oggetto del discorso della scienza che è il telefono – come il computer lo era, con un’altra funzione, per N. In fondo però questo annulla il rischio rappresentato dall’alterità dell’Altro, l’ossessivo ha un Altro su misura, dal quale può ottenere rassicurazioni. Nel caso di Virginia è esattamente ciò che si verifica con la madre: la tiene a sua disposizione. Quando le chiede di ripetere la stessa cosa, vuol sentire la linea del telefono attiva, vuole riascoltare la rassicurazione che l'Altro c’è. Possiamo considerare, nonostante la sorpresa per il fatto che è cosa molto rara, che siamo di fronte a un caso di nevrosi ossessiva femminile. L'analista propendeva per la psicosi, e questo mostra i meriti merito del testo. Il testo che lei ha presentato – un lavoro molto ben fatto, molto onesto – va in un altro senso, isola un altro sintomo. “Virginia – dice – ha delle crisi d’ansia quando deve scrivere o firmare”. Ora, ritrarsi angosciata davanti al fatto di firmare, davanti al proprio nome, è certamente ritrarsi davanti al significante del proprio nome, fatto anche questo tipico nella nevrosi ossessiva. Sebbene non sia sufficiente per stabilire una diagnosi, questo si aggiunge agli elementi precedenti. Come dice Lacan, l'ossessivo è essenzialmente un "senza nome". L'isterica è fondamentalmente “senza fede”, e l'ossessivo è fondamentalmente “senza nome". Virginia presenta questi tratti tipici: quando deve firmare qualcosa cerca di evitarlo, ma se non può, legge e rilegge all'infinito per essere sicura di cosa si tratti. E perché ha così paura di scrivere e di firmare? Dice di avere la fantasia che questo possa diventare una confessione, che lei possa firmare la confessione di aver commesso un reato che in realtà non ha commesso e, non avendo modo di provare la propria innocenza una volta firmata la confessione criminale, potrebbe essere punita. Abbiamo qui un quadro carico di dati forti che vanno nel senso della nevrosi ossessiva. Virginia racconta in terapia che una volta andata dal medico, nel momento in cui doveva firmare qualcosa in studio, sentendo di non avere alternativa, ha cominciato a ripetere: "Dottoressa, giuro che non ho mai ucciso". Essere accusata di un crimine che non ha mai commesso – ma di cui è sempre sospettata – è un sintomo così massiccio che i nostri dubbi cominciano a svanire. E continuiamo nella stessa direzione quando lei spiega che crede di essere già morta in vita – non è come il burattino di N – e la morte in vita è un ulteriore aspetto ossessivo. C'è anche un episodio in cui chiede al padre di aiutarla a pagare la degenza in ospedale dicendogli: "Se non pago mi buttano via come un rifiuto". In questo modo il padre viene coinvolto in un rapporto debitorio che l’angoscia profondamente, fino a diventare per lei insostenibile. Virginia spiega anche che non vuole mai sporcarsi perché si sente molto male quando si sporca, e lo dice mentre fa innumerevoli considerazioni sul rischio che corre di essere violentata, cosa che ha tutto il suo valore dato il nome che porta. Suo padre è stato accusato di aver violentato una ragazzina e, allo stesso tempo, ha avuto la buona idea di chiamare la figlia Virginia. Non importa se quella ragazza l'ha davvero violentata o no: in famiglia è sempre rimasto il dubbio, che è passato fino alla generazione successiva. Il padre, apparentemente, nella vita si comporta bene, ma a noi piacerebbe sapere come si è strutturata la questione di un padre sospettato di stupro che ha dato alla figlia il nome Virginia. Partendo da questi elementi possiamo tornare alla questione del padre e dire che la metafora paterna per questa giovane donna si è costituita, ma in maniera massiccia. È ben insediata e ci fa vedere che non c’è niente di meglio della nevrosi ossessiva per mostrare in che senso il Nome del Padre è proprio un sintomo ossessivo. Sono già le 17,10 e avrei voluto dire tante altre cose, ma le lascio come debito. Ho avuto l'impressione, alla fine della giornata di ieri, che il modo in cui ho trattato il testo di Lacan possa essere stato troppo complesso. Vorrei pertanto evitare di fare la stessa cosa oggi. Bisognerebbe, però, continuare sulla linea che riguarda la trasformazione del concetto di desiderio in Lacan, fino alla mutazione non indifferente che consiste nel passare dalla formula del desiderio come desiderio dell’Altro, all'oggetto a come causa di desiderio. Si tratta di un mutamento teorico essenziale. Gran parte dell’insegnamento di Lacan ha presentato per un verso, il desiderio come desiderio dell’Altro e, per altro verso, il desiderio come causato dall’oggetto a Sono due esigenze contraddittorie. All'inizio avevo pensato di dedicare uno di questi incontri al problema del gruppo analitico, al problema della passe, al problema dell'associazione analitica e alla situazione analitica come può essere concepita dopo la morte di Lacan. Mi resterà il rimpianto di non averlo fatto. Passiamo ora alle domande. Non vi sto chiedendo di essere d'accordo con quanto ho affermato, potete sospettare che esistano altri elementi che sono contrari alle mie affermazioni. Spero che venga consentita la pubblicazione del testo del caso, ma comunque sia l'ipotesi resta valida, anche se è solo un'ipotesi. Dibattito P.: L'aspetto depressivo presentato da questa giovane donna quando afferma di non essere colpevole è delirante. Potrebbe questo aspetto spostare la diagnosi verso una depressione con manifestazioni ossessivo-compulsive, considerando che può anche essere isterica ma con base depressiva? J.-A.M.: La depressione non è un concetto strutturale: può esservi incluso tutto. Quando il signor N. trascorre tre mesi in vita vegetativa, si tratta senza dubbio di depressione. Non si fa nessun progresso nella diagnosi quando si arriva a un concetto puramente descrittivo. La depressione è così quando si è all'inizio del trattamento. Si nota che i toni iniziali non restano uguali, ma non si va molto lontano. Ci sono elementi isterici in Virginia che riguardano il rapporto con il padre e con quell'uomo che le gira intorno, capace di violentare. Tutto questo ha meno consistenza del sintomo ossessivo che, nei momenti di svolta, dà spinta alla sua vita. A casa la madre non la sopporta più a causa della sua ossessione. Dobbiamo cercare gli elementi isterici che ci sono stati presentati. In verità, non si può pensare alla cura di una nevrosi ossessiva se non isterizzandola. È necessario verificare che sia possibile. P.: Dopo aver fatto il commento che ha acceso tante osservazioni, continuo sulla questione della supervisione, una questione che non mi era molto chiara prima del suo arrivo a San Paolo. Quel grande occhio, quel super-occhio! E ancora: che fare delle ipotesi elaborate a partire da un caso? Che fare della diagnosi che si cerca di chiarire prima o durante il processo analitico attraverso la parola? Non avevo bisogno di essere presente lì di persona durante l’analisi, ma avevo bisogno – e ce l'ho ancora – delle parole di Virginia, perché per mia personale esperienza analitica – non completata – il sintomo è ciò che porta all'analisi. Quel che si diceva su Virginia è quel che l’ha portata in analisi? Inoltre, il sintomo stesso, in bocca all’analizzante, va e viene costantemente. Per mettermi nel ruolo di analista ho bisogno di dimenticare l'occhio che mi accompagna, l'occhio teorico. Al momento dell'ascolto devo dimenticare i riferimenti teorici che mi farebbero anticipare ciò che porta attualmente l'analizzante. Siccome parlava di un caso clinico, mi aspettavo di sentire cosa aveva detto la sua analista, ma non ce l’ha raccontato. Mi chiedo allora, qual è il ruolo dell'analista? Qualche volta potrebbe trattarsi di un’aspettativa passata: dopo che ha parlato del caso, sono rimasta inquieta. Indubbiamente si può fare l'analisi a partire da un testo. Il caso Schreber è inesauribile, ma quel che è riportato è riportato da Schreber. Mi fermerei qui, per il momento e nel mio percorso attraverso la psicoanalisi. Cerco di spiegare cosa potrebbe essere un lavoro analitico. J.-A.M.: Ha tutte le ragioni per continuare a seguire il suo schema. Nessuno pensa di scartarlo. Ha portato testimonianza della sua preoccupazione, della sua insoddisfazione. Non ho l’ambizione di soddisfarla. Sono d'accordo con lei sul fatto che in questo caso manca la parola dell'analista, ma è stato riportato in questo modo – se così posso dire – senza gli interventi dell’analista, che deve essere stata comunque un po' turbata nel farlo, perché è molto bello dire che non bisogna avere idee preconcette – è vero – ma alla fine bisogna osservare che il sapere dell'analista è impegnato in ogni sua interpretazione. Ed è meglio rendere esplicito quel che sta alla base dei suoi interventi piuttosto che credere che non abbia presupposti. È meglio sistematizzare, come misura di autocontrollo, piuttosto che immaginare di non avere preconcetti. La diagnosi, all'inizio e nel corso dell'analisi, sembra essenziale per la più piccola delle interpretazioni. La posizione dell'analista non è la stessa quando sa di trattare con un'isterica o quando ha a che fare con uno psicotico. Ciò che si fa in un caso e nell’altro ha una portata completamente diversa. È meglio chiarirlo bene all'inizio piuttosto che essere costretti a farlo dopo. Un esempio: se ci si trova con qualcuno di veramente psicotico, c’è tutta una parte di esperienza che lo sostiene, lo aiuta, che gli dà appoggio, e su questo bisogna essere cauti. Ma se si ha a che fare con un’isterica, questa è pronta a chiedere aiuto, a chiedervi di essere un vero uomo, anche se l'analista è una donna. Laisser-faire, farsi complice di quello stato intermedio tra dormire e sognare, tra sogno e veglia, incoraggiarla a rimanere intrappolata nel suo immaginario è una condotta riprovevole per un analista. Se si tratta di un'isterica, o di un isterico, bisogna fare qualcosa per separare il soggetto da questo stato. In questo senso, le sedute brevi sono molto utili. In Argentina ho sentito alcuni casi di isteriche. Ascoltare quel discorso per cinquanta minuti non richiede solo una fantastica abnegazione – potremmo dire che l’analista si trova lì per quello – ma è anche incoraggiare il paziente a continuare anno dopo anno a restarvi invischiata. È necessario attirare la sua attenzione sul fatto che ci sono cose che vale la pena ascoltare e altre no. Senza questo non avrà motivo di staccarsi dal suo delirio. La questione della diagnosi, presupposto necessario per l'orientamento dell'analista, è decisiva, e non si sostituisce la logica della struttura solo dicendo che ci lasceremo sorprendere dalla parola del paziente. Accadrà anche questo, ma non si può per questo mettere in stallo il proprio sapere, perché in un modo o nell’altro abbiamo un sapere. È sempre meglio che questo sapere sia dominato, che abbia delle regole e che se ne conoscano i limiti, invece di lasciarsi trasportare. Poco fa qualcuno ha evocato la parola delirio in relazione a questa paziente. È un delirio nello stesso senso in cui delira l’Uomo dei Topi, paradigma della nevrosi ossessiva. La presenza di un delirio non impedisce di riconoscere una nevrosi ossessiva ben costituita. I pazienti non sono psicotici solo perché hanno raccontato storie stravaganti. Raccontarle è totalmente compatibile con la psicosi, con l'isteria, con la nevrosi ossessiva e con la perversione. La questione è sapere qual è lo stile e la consistenza di queste stravaganze. Non sono problemi psichiatrici, sono problemi che hanno l’incidenza più diretta nella pratica quotidiana dello psicoanalista. Ecco il mio punto di vista. P.: Vorrei fare un commento: in questi giorni in cui siamo stati insieme ho avuto diverse sorprese. La prima è stata sapere che lei è giovane, perché la immaginavo più avanti d’età. E vederla analizzare tanti testi di Lacan mi fa capire meglio le sue idee. Forse attraverso la lettura del testo molte cose sono state valutate in altro modo. La sua opinione è estremamente importante e mi permette di confermare alcune idee e modificarne altre. Vorrei dirle che è stato un grande piacere sentirla parlare dell'insegnamento di Lacan. J.-A.M.: Grazie P.: Vorrei porle un’altra questione che mi preoccupa: la possibilità che il supervisore sostituisca il soggetto supposto sapere dell’analista. J.-A.M.: La supervisione è stata il fondamento della gerarchia analitica e del potere del didatta, di colui che nelle società tradizionali rivendica il monopolio del savoir-faire in analisi. Lacan l'aveva già abolito nella sua Scuola. Aveva cercato di porre un limite, considerava didatta qualsiasi analista avesse portato a termine una psicoanalisi. È vero tuttavia che è stato mantenuto un certo privilegio del supervisore. Occorre riconoscere la necessità della supervisione per sfuggire a quello che per l'analista può diventare come un delirio a due. D'altra parte, si può delegare tale supervisione a una persona, a un analista, ma può anche esserci l'esercizio di una supervisione molteplice e reciproca. Nell’Ecole de la Cause freudienne così come si è costituita, esiste attualmente un'ipotesi di lavoro, quella di formare cartelli di supervisione utilizzando la struttura del cartello per rendere effettiva tale relazione e sostenerla. Si tratta di un cartello di supervisione in cui i membri portino problemi che possano essere discussi da altri tre o quattro, in scala alternata. Sapere cosa produce o meno quel cartello è un'altra questione. Invece di essere affidata a un analista gerarchicamente superiore, con maggiore esperienza, la supervisione sarebbe svolta all'interno dello stesso cartello, come possibilità alternativa. Che nel cartello ci siano solo membri della Scuola oppure no è un problema diverso. Ecco un'ipotesi che risponde alle vostre preoccupazioni. JORGE FORBES: Prima di concludere, vorrei ringraziare tutte le persone che hanno collaborato a questo incontro; Hilda, Augusta, Isabel, Ana María qui in sala, e le interpreti Maria Clara e Judith. Quando sono arrivato qui poco fa, dopo aver pranzato con Jacques-Alain, mi sono accorto che avevamo avuto cinque incontri in meno di quarantotto ore. Probabilmente è stato un grande sforzo per lui, e per noi lo è stato cercare di capire tutto. Non sono ancora riuscito a portare a termine la mia elaborazione, forse questo è l’inizio di un nuovo percorso per me, e non un momento di conclusione. E perché non fare altre cinque conferenze? Ho pensato di dirgli un'ultima cosa. Ci hai regalato una nuova parola traspapelado, che ha varcato la frontiera, perché è intraducibile. Ogni volta che ripetiamo traspapelado ci avviciniamo ai nostri amici in Argentina. Vi lascio una parola portoghese anch'essa intraducibile: saudade. Esprime un sentimento di nostalgia, come quando si vorrebbe che una persona restasse ancora più a lungo con noi. Grazie. Ti passo la parola. J.-A.M.: Voglio anche ringraziare tutte le persone che hanno reso possibile questa conversazione. Soprattutto i traduttori, sappiamo con quanta cura e scrupolo hanno cercato di restituire un discorso improvvisato. Ho parlato con voi attraverso le loro voci, praticamente deponendo tutta la responsabilità su di loro. Ho già ringraziato Jorge e ora ringrazio voi per la vostra costante e ininterrotta attenzione. Mi sono fatto un'idea precisa di cosa avrei dovuto dirvi, un'idea che all’inizio non avevo. È adesso che dovremmo iniziare, proprio ora che dobbiamo concludere. Vi ringrazio davvero. Traduzione di Micol Martinez
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