![]() In Le sexe des modernes (Seuil), in libreria giovedì 25 marzo, Éric Marty procede a una sensazionale decostruzione della teoria e della nozione del genere. Jacques-Alain Miller lo ha invitato a parlare con lui domenica scorsa, 21 marzo. La conversazione è durata tre ore ed è stata registrata. La Regle du Jeu e Lacan Quotidien pubblicheranno presto la trascrizione di questi scambi, che continueranno domenica prossima. Nel frattempo, abbiamo già un'anteprima l'apertura di questo dialogo inedito: la presentazione del libro fatta da Jacques-Alain Miller. Jacques-Alain Miller Caro Eric Marty, ho pensato a un breve discorso per iniziare. Ho ricevuto il suo libro mercoledì scorso con una dedica che non riuscivo a decifrare, l'ho sfogliato per venti minuti e ho pensato alla frase di Marx ne La Sacra Famiglia sulla ricezione, da parte dei suoi contemporanei, del Saggio sull’intelletto umano di John Locke, sul quale avevo fatto la mia tesi di filosofia con Canguilhem: "È stato accolto con entusiasmo, come un ospite atteso con impazienza.” Il suo libro mi mancava, me ne rendo conto da quando è stato pubblicato. Senza saperlo, ci speravo. E prima di tutto perché non mi sono mai addentrato nell'opera di Butler, alla quale Zizek, all'epoca mio studente a Parigi, aveva cercato di interessarmi dopo la pubblicazione di Gender Trouble. Molti, dentro e fuori l'École de la Cause freudienne, hanno da allora esplorato i labirinti della teoria del genere, io no.
Ora, questa teoria è ormai un fenomeno mondiale. Lei inizia il suo libro con una frase enfatica: "Il genere, gender, è l'ultimo grande messaggio ideologico inviato dall'Occidente al resto del mondo”. È detta in tono "romantico", per usare una parola preferita, ma stigmatizzante, di Butler. È eccessivo? È in ogni caso indiscutibile che le idee dei partigiani del genere, per dirlo con le parole del presidente Mao: sono penetrati nelle masse e sono diventati una forza materiale. Queste idee si impongono negli Stati Uniti, pesano sull'evoluzione dei costumi nelle democrazie avanzate, per chiamarle così, ispirano la legislazione di diversi paesi, compresa l'Argentina, dove l'influenza di Lacan è così marcata nella vita intellettuale. In Europa una legge simile a quella argentina è attualmente in discussione in Spagna. I seguaci del genere sono attivi in Francia, hanno avuto i momenti migliori nel tempo in cui era ministro dell’istruzione Najat Vallaud-Belkacem. Penso alla frase di Foucault che lei cita a p. 389, dove confida la sua speranza di produrre "effetti reali sulla nostra storia attuale". Bene, Judith Butler è riuscita proprio in questo. Io dico: tanto di cappello! E anche, perché no: "Ben scavato, vecchia talpa! “ All'inizio mi aveva respinto il fatto che Butler utilizzi il vocabolario di Lacan in modo indiscriminato, spudorato e strambo. Lei mi insegna che non importa. Il suo uso, l'abuso, dei termini che prende in prestito da Lacan e da molti altri, corrisponde in lei a un metodo vero e proprio, un metodo di "sfiguramento" debitamente rivendicato, che consiste nell'appropriarsi di concetti per deviarli dal loro significato iniziale e usarli per altri scopi. Lei la cita a p. 74: “We actively misapproprate the terms for other purposes". Questo è un gesto sovranamente utilitarista, non privo di grandezza, né di sfacciataggine. Gli americani hanno una parola yiddish per questo, Chutzpah. Butler non lo esercita solo su Lacan, ma su Derrida, su Bourdieu, su Foucault e così via. Più un termine è concettuale, più lei cerca di rubarlo e sfruttarlo, da qui il suo atteggiamento verso i teorici, che lei definisce predatorio (vedi p. 77). Attraversando le sue molteplici opere lei si mette sulle sue tracce, individuando i suoi modi di riutilizzo, gli spostamenti, le deviazioni, le divagazioni, le mutazioni, le riconfigurazioni, e getta una luce cruda sul suo modo di fare, sempre ingegnoso e fantasioso, anche se a volte contorto e confuso. Lei si impegna così in una meticolosa "decostruzione", per usare questo famoso termine, della teoria del genere, una decostruzione che ne rispetta i meandri, ma che è severa sulle sue incongruenze. Mentre questa ideologia suscita spesso il sarcasmo e il rifiuto senza fronzoli dei conservatori, dei reazionari e dei cosiddetti sostenitori del buon senso, lei ne dispiega tranquillamente tutta la complessità, ne mostra i paradossi e ne indica le impasse teoriche, tanto che leggendola ho pensato alla famosa massima di Spinoza commentata da Nietzsche: "Non ridere, non lugere, neque detestari, sed intelligere.” Lei non prende in giro il genere, non lo deplora né lo detesta, lei capisce e fa capire. Poi, qua e là, l'ironia fa breccia. Certo bisogna arrendersi alla parola, se non al concetto di genere, gender. Non avrebbe questa eco, non sarebbe diventato per molti al tempo stesso uno slogan e un'evidenza, se non fosse in simpatia, in sintonia, in risonanza, con ciò che lavora il momento presente della nostra civiltà, con il suo "disagio", come si esprime Freud, con "ciò che cammina nelle profondità del gusto" (Lacan). No, la "teoria del genere" non è un complotto, non è un’impostura, dice qualcosa di molto profondo sulla nostra attualità, sulla modernità o sulla post-modernità. È ancora più affascinante vedere, leggendola, che queste idee, oggi trionfanti, provengono originariamente da uno stupefacente bricolage teorico in equilibrio instabile, dove il paralogismo fa a gara con il sogno a occhi aperti. Si dirà che sta irrimediabilmente rovinando la costruzione del concetto di genere. Alcuni, me compreso, saranno comunque sensibili alla forza dell'impresa. Judith Butler ha saputo "imporre quasi universalmente il genere come un significante insuperabile", (p. 487), è inventiva, e rettifica senza esitare le proprie conclusioni, fino ad evacuarle definitivamente, sicut palea, come letame, parola usata da Tommaso d'Aquino alla fine della sua vita e ricordata da Lacan. Mi ha fatto sapere che Butler è stata incoronata Queen of gender nel 1994 dalla quella che avrebbe potuto essere la sua rivale, Gayle Rubin, che lei presenta a p. 38 come un’"antropologa", attivista queer, lesbica, e grande amica di Michel Foucault, con cui condivide lo stesso tropismo sado-maso. Già l'anno precedente però Butler si rimproverava di aver fatto del genere "un sito di identificazione prioritaria a spese della razza, della sessualità, della classe, o del funzionamento delle collocazioni geopolitiche", o anche "a spese dei subalterni, nuova categoria alternativa creata da Gayatri Spivak.” Il pensiero intersezionale, che privilegia la razza, ha da allora assunto un posto quasi egemonico in Butler, lei scrive a p. 365. Per lei si direbbe che il sesso sia durato solo un po' di più delle rose, prima di appassire. Lei chiarisce che c'è una specie di destino caotico per il pensiero del genere, che gli impedisce di stabilizzarsi, che lo porta a diversificarsi e a dividersi senza tregua, così che il suo campo intellettuale è devastato da una guerra di tutti contro tutti. È il momento di ricordare che il nome "teoria del genere" è il risultato di una forzatura, poiché coloro che lavorano nella disciplina la squalificano. Secondo loro deriva da una concezione unitaria, autoritaria ed egemonica dell'attività intellettuale, che aborriscono, preferendo indulgere nella molteplicità scintillante, brulicante e senza legge degli studies. L'Uno è morto, viva il Molteplice! Il genere non ha Regina. Questa dinamica è – in un certo senso lo si potrebbe certamente sostenere – in linea con la logica detta del “non-tutto" che Lacan aveva formulato come specifica della posizione femminile, e che oggi prevale dappertutto nella civiltà, almeno nella nostra. Questo partito preso per il Molteplice-senza-l’Uno rende il campo degli studi di genere un labirinto, o piuttosto un groviglio inestricabile, una giungla, e io mi ci perderei se lei non mi avesse preso per mano, come Virgilio. La mia Butler sarà, fino a nuovo ordine, la Butler di Eric Marty. Spero che il suo libro venga tradotto negli Stati Uniti, sarò curioso di vedere come Judith Butler e gli altri reagiranno al suo lavoro. Le si farà l’onore [l’hommage ou le femmage], di una polemica argomentata? Il suo libro non è tuttavia solo una sensazionale decostruzione del genere secondo Judith Butler. Offre anche un panorama senza precedenti, almeno a mia conoscenza, della vita intellettuale in Francia nella seconda metà del secolo scorso. In particolare lei getta uno sguardo a Barthes, a Deleuze, a Derrida e a Foucault, alla loro complicità e alle loro dispute, ovattate o esplosive, un periodo molto intenso e fecondo se lo si confronta con l'attuale mancanza di vigore degli scambi intellettuali, a stento mascherata da un’agitazione e un nervosismo mediatico di cattiva lega, che la settimana scorsa hanno spinto una vecchia volpe e osservatrice smaliziata, Eugénie Bastié, giornalista di Le Figaro, a dire che: "Il nostro dibattito pubblico è caratterizzato dal relativismo (a ognuno la sua verità) e dall'intolleranza (la mia verità non può essere contestata). Una situazione molto “gender”. Nella sua decostruzione del genere, lei fa intervenire a più riprese questi quattro grandi nomi in un intreccio intelligente, che a volte si trasforma in un groviglio. Vorrei riprendere questi nomi con lei uno per uno, se non le dispiace. E infine, c'è Lacan. Ha ispirato Butler, di cui non conosceva l'opera, essendo morto nel 1981. È molto presente per i nostri quattro Grandi, ha ispirato anche loro, e a sua volta li legge, li invita, tiene conto di quel che scrivono. Ma il suo libro mostra quanto lui sia diverso dal quartetto. Quantomeno, non vedo in lui nessuna traccia di questo "pensiero del Neutro" che lei individua nei quattro per opporlo alla teoria del genere. In ogni caso, dopo il 1968, quando Derrida, Deleuze e Guattari, senza dimenticare Foucault, si sono proposti di metter fuori moda la psicoanalisi, di renderla obsoleta e, per dirla fino in fondo, di rovinarla nell'opinione pubblica. Lacan ha gettato su di loro una rete, una tunica di Nesso, quello che ha chiamato "il discorso dell'Università", dal quale ha distinto nettamente "il discorso dell'analista". E c’è stato uno spartiacque. I lacaniani hanno smesso di leggere "gli universitari". E questi ultimi si sono allontanati sempre più dalla loro vecchio apprendistato con lo psicanalista che li aveva così occupati. Ecco, ho finito. È un grande libro, ricco, denso, cinquecento pagine, un affresco, un carnevale, con la sua processione di castrati e di travestiti, di sado-maso e di pseudo-schizo, al tempo stesso festival concettuale americano e una sfilata French Pride. È un'epopea intellettuale mozzafiato. Insomma, un'opera che, scommetto, rimarrà memorabile. Trascrizione di Rose-Marie Bognar, rivista dal relatore Traduzione di Marco Focchi
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