di Silvia Vegetti I termini “sognare” e “sopravvivere” sottendono un nesso, non immediatamente evidente, che cercherò di spiegare proiettandoli indietro nello spazio e nel tempo sino a giungere nelle piccole comunità ebraiche dell’Europa Orientale, di tradizione mistica chassidica. Credo che quello sfondo ci aiuti a comprendere, come vedremo, la funzione salvifica attribuita da Freud e Chagall al sogno e all’immaginazione. Il padre di Freud, figlio di un rabbino chassidico, proveniva dalla Galizia, mentre i genitori di Chagall risiedevano da generazioni in Bielorussia. In quei piccoli villaggi la minoranza ebraica, priva di rappresentanza politica e istituzionale, viveva sotto la costante minaccia di pogrom, esosi balzelli ed editti arbitrari che mettevano costantemente a rischio la sua stessa sopravvivenza. Conservare, in terra straniera, memoria della propria storia e della propria cultura, affermare un’identità diversa e, per altri, incomprensibile, non abiurare la fede dei padri costituiva un impegno che animava ogni minimo gesto, infondendo un’aura di sacralità alla modesta vita quotidiana. Sarà proprio quella precarietà ad attivare, come vedremo, processi psichici destinati a plasmare la mentalità e la cultura moderna. È forse possibile, osserva Walter Benjamin, attingere alle risorse ermeneutiche del misticismo chassidico per decifrare i segni della contemporaneità. Nella Interpretazione dei sogni (1900), Freud ricorda che, quando era bambino, il padre gli fece questo racconto: “Quando ero giovanotto – mi disse – un sabato andai a passeggio per le vie del paese in cui tu sei nato. Ero ben vestito, e avevo in testa un cappello di pelliccia, nuovo. Passa un cristiano e, con un colpo, mi butta il cappello nel fango urlando: “ Giù dal marciapiede, ebreo!”.
“ E tu che cosa facesti?” domandai io. “Andai in mezzo alla via e raccolsi il cappello” fu la sua pacata risposta. Chi è colui che si china a raccogliere il cappello nel fango? Se questo è un uomo, non è certo un signore nel senso aristocratico del termine, che avrebbe risposto con ira all’offesa, sfidando a duello l’avversario, non un servo, addestrato all’obbedienza, né un suddito per il quale la subordinazione è una necessità e neppure un cittadino, che si sarebbe appellato alla Legge per ottenere giustizia. Jacob Freud è un’altra cosa rispetto a queste figure della storia d’Europa: è un ebreo, una presenza marginale ma destinata ad assumere valore emblematico della condizione umana. Come il servo, anche l’ebreo subisce prevaricazioni e soprusi: Ma, nonostante l’apparente somiglianza dei loro comportamenti, la sua morale è profondamente diversa. L’etica dell’ebreo chassidico consiste, secondo Harold Bloom, nel riconoscersi diverso e altrove. Un altrove che, secondo la psicologia mistica, non è esterno ma interno ai più intimi moti dell’anima perché, “scendendo nelle profondità del suo essere, l’uomo attraversa tutte le dimensioni del mondo; in se stesso abbatte tutte le barriere che separano mondo da mondo e sfera da sfera; in se stesso trascende i limiti dell’essere creato, li annulla, per scoprire finalmente – senza uscire mai da sé – nel cosiddetto mondo superiore, che Dio è “tutto in tutto” e che non vi è nulla al di fuori di Lui”. Nonostante l’estrema lontananza di quella cultura è forse possibile, suggerisce Walter Banjamin, “attingere alle risorse ermeneutiche del misticismo chassidico per decifrare i segni della contemporaneità”. L’altrove Uno dei termini più ricorrenti nella letteratura contemporanea, “altrove”, rappresenta la cifra costitutiva dell’identità ebraica, il crogiuolo immaginario ove, dopo la diaspora, si elabora da secoli la sua identità. Per Freud quella dislocazione assume la configurazione dell’Inconscio, un luogo della mente ove convergono storia individuale e storia collettiva, il passato della memoria e il futuro del desiderio. Caratteristiche dell’inconscio sono: assenza del principio di non contraddizione, mobilità degli investimenti libidici che si spostano da una rappresentazione all’altra, atemporalità e sostituzione della realtà esterna con la realtà psichica. In se stessi i processi inconsci sono inconoscibili, addirittura “inesistenti” dice Freud, ribadendo il carattere ipotetico della sua toponomastica, ma possiamo scorgerli in atto nella dinamica dei sogni. La stessa che organizza l’opera di Marc Chagall, la più prossima a Freud, la più fedele alla scenografia del teatro psicoanalitico. Tra le quinte del sonno si rappresentano l’ordito della nostra vita e le trame della nostra storia in una commistione che solo il lavoro analitico può districare sottraendole alla manipolazione della censura. Benché l’Inconscio sfugga a ogni geometria e cronologia, quando i suoi contenuti raggiungono la coscienza e diventano narrabili, sono costretti a inserirsi nelle coordinate della razionalità, nelle categorie logiche del linguaggio. Anche l’anarchica iconografia di Chagall non può non essere letta, con effetto regolatore, come la pagina di un libro: dall’alto al basso, da sinistra a destra e, trasformata in narrazione, linearizzarsi in una sequenza temporale. Una volta che il contenuto del sogno è stato rappresentato e, sotto forma di parole o di immagini, predisposto alla comunicazione, i suoi enigmi chiedono di essere interpretati. L’interpretazione, spontanea o intenzionale, non è un procedimento superfluo ma una necessità in quanto, perseguire la verità, è per gli uomini un bisogno vitale. “Di menzogna si muore” afferma Bion. Il cosmo, che le tele di Chagall ci hanno lasciato in eredità, non è mai stato realmente percepito né concretamente vissuto. In quanto appartiene all’impossibile vaga in uno spazio indeterminato e in un tempo indefinito, tuttavia non è mai puro inconscio, memoria impersonale, perché esperienze soggettive, remote e attuali, lo organizzano e storicizzano. Sarebbe riduttivo imprigionarlo nella sola dimensione onirica perché Chagall è anche nella realtà, nell’autobiografia e nella storia. Agli occhi dello spettatore risulta immediato e intuitivo collocare un suo dipinto negli anni trascorsi a San Pietroburgo piuttosto che in Germania, in Francia o negli Stati Uniti, prima o dopo la fine della guerra. Vi è un patrimonio inconscio di simboli, verbali, iconici, musicali, a disposizione di tutti. Ma solo gli artisti sanno calarsi in quegli archivi e, sottraendoli all’indeterminato, selezionarli e introdurli nel laboratorio della mente, ove elaborarli in modo originale e irreplicabile, sottoponendoli anche alla resistenza della materia. Per i pittori, la tela, la cornice, i colori. Ma non tutto ciò che abbiamo sognato, pensato e vissuto si riversa nella coscienza, resta comunque un residuo immemore di esperienze non rappresentabili, irraggiungibili, irrecuperabili. Come osserva Freud, l’ombelico del sogno comunica con l’ignoto. È quindi sullo sfondo del “nulla” (che Malevic raffigura come un quadrato dipinto di bianco) che Chagall apre le porte della notte. I suoi quadri evocano un altrove che rinvia ad ulteriori alterità , in un perenne gioco di rimandi e di contaminazioni. Come ogni utopia il suo mondo è alternativo rispetto all’esistente, ma si tratta di un’ utopia aperta perché , non solo quell’isola non c’è ma, plastica come una colata di lava, muta continuamente la sua configurazione. L’immaginazione chassidica Nella nostra esperienza, i pensieri del sonno differiscono da quelli della veglia per il disordine cognitivo ed emotivo che li contraddistingue e, salvo qualche effetto di perturbante trascinamento, noi passiamo dall’uno all’altro chiudendoci la porta alle spalle. Nella tradizione chassidica invece questa antinomia non esiste e la contrapposizione tra la notte e il giorno lascia il posto a una dimensione intermedia ove l’immaginazione non teme di utilizzare l’assurdo per dire l’indicibile. Il gallo di Chagall canta nella notte più nera e lo splendore dei fiori provenzali si affianca al remoto villaggio russo, impastato di freddo e di fango. Mentre la cultura occidentale considera la fantasia come qualche cosa di infantile e di superfluo, una illusione destinata a sparire a contatto con la realtà materiale, per la mistica ebraica si tratta di una facoltà performativa, creativa, divina. Secondo la tradizione kabbalistica, in particolare nella versione offerta da Luria a metà del ‘500, la creazione del mondo è rimasta incompiuta perché Dio si è prematuramente ritirato in se stesso, la sua luce si è contratta, e le lettere del suo nome, semi dell’universo, sono deflagrate, per un eccesso di potenza, in elementi frammentari e caotici che solo una razionalità mistico-intuitiva può cogliere. Spetta da allora in poi all’uomo portare a termine l’opera del creatore tramite una messa in ordine dei suoi elementi, mai conclusa una volta per tutte. Il passaggio dal Caos al Cosmo si configura come una trasformazione perennemente aperta alla creazione e alla rielaborazione . Nel tempio dell’immaginario mistico, il mondo si estende in una dimensione intermedia tra il dentro e il fuori, tra la realtà psichica e la realtà oggettiva, parimenti incisive e determinanti. Per Freud i sogni, a occhi chiusi o aperti, sono tentativi, non sempre riusciti, di esaudire i nostri desideri e la fantasia, compresa quella che si realizza nell’arte, svolge una funzione di riparazione in quanto permette di cicatrizzare le ferite della vita e di esaudire mentalmente i desideri che ci sono interdetti realmente. In quanto conforto e rimedio, la fantasia viene suscitata e alimentata dal dolore, dalle frustrazioni e dalle delusioni dell’esistenza. Se questa è la sua funzione, si capisce come fosse sollecitata e ravvivata dalle misere condizioni sociali e dalle tensioni psichiche che affliggevano gli Ebrei orientali. Descrivendo quelle comunità, scrive Henri F. Ellenberger: “Il tratto principale era la paura, paura dei genitori, degli insegnanti, dei mariti, dei rabbini, di Dio e soprattutto dei gentili”. Ma, come abbiamo visto nella pacata reazione del padre di Freud, quel mondo non era tutto. C’era comunque un “altrove”, costituito dall’immaginario condiviso, in cui era possibile conservare dignità e orgoglio. E Chagall, da grande visionario, è quella dimensione che recupera e ricrea utilizzando una sorta di onnipotenza mistica e alchemica per riportare alla luce un mondo sommerso, mai esistito eppure ancora capace di coinvolgerci ed emozionarci. Alle ristrettezze del mondo reale corrisponde una ipertrofia del mondo mentale. Tutti gli uomini fantasticano ma l’ebreo abita l’immaginazione, ne fa la sua dimora, e la utilizza, come descrive Freud nel Motto di spirito, per esprimere impulsi erotici e aggressivi che, se non fossero stravolti dall’assurdo e mediati dall’ironia, potrebbero incrinare la coesione della comunità e la sicurezza personale. Le fantasie, dice Freud, si svolgono entro le trame della cultura, ma la materia prima è costituita dalle pulsioni infantili, rimosse dallo sviluppo sessuale, dalla morale e dall’educazione. La loro funzione è di mettere in scena il desiderio, indissolubilmente legato al divieto, e di appagarlo mentalmente. Ed è proprio il divieto – prima di tutto l’interdizione biblica di rappresentare la figura umana – il motore dell’espressione artistica di Chagall. La sua opera è sempre trasgressiva perché, sollevando le barriere imposte dalla censura, rende pervia la membrana che separa l’inconscio dalla coscienza. I fantasmi che l’attraversano vengono accolti sulla tela che, senza irrigidirli in una ortopedia correttiva, li dispone in una segreta cosmogonia ove coesistono, come nella mitologia chassidica, il bene e il male, Dio e il Demonio. Analizzando il proprio procedimento pittorico, Chagall dichiara: “Dipingo come addormentato, in sogno”; nei suoi quadri convivono i contrari, coesistono le contraddizioni, si contaminano le forme. Nella sua notte brillano il sole e la luna, la vacca è un agnello, il maschile è anche femminile, la sposa è bifronte, gli amanti si separano restando uniti, gli occhi sono aperti e chiusi, ebraismo e cristianesimo si fondono, morti e vivi convivono in una illimitata accoglienza dell’essere e del nulla. Nel suo procedere, l’immaginazione chassidica si separa dalla realtà mondana e la guarda da lontano, dall’alto di un pianeta raggiunto con l’astronave della fantasia, dove la paura viene esorcizzata dall’immediatezza dei sensi, dal piacere di esistere nonostante tutto, dalla possibilità di godere di quello che Raboni definisce “il reliquiario del poco”. “L’ebreo è per la gioia e la gioia è per l’ebreo” scrive Freud alla fidanzata Martha il cui nonno, rabbino capo della comunità di Amburgo, sosteneva: “L’ebreo è fatto per il godimento”. Chagall simbolizza quella felicità semplice e immediata nel violino, nel muso dolce della giumenta, nel volo degli uccelli, nell’abbraccio degli sposi, nel colore dei frutti, nella luce dei fiori. Solo le persecuzioni antisemite metteranno in crisi quel mondo ideale. Scrive infatti nel 1938: “Devo dipingere la terra, il cielo, ciò che porto nel cuore, la città in fiamme, la gente in fuga, i miei occhi pieni di lacrime”. Un mese dopo la salita di Hitler al potere, nell’aprile del 1933, la pittura di Chagall diviene l’emblema dell’arte degenerata e il suo quadro, intitolato “Il rabbino”, mandato al rogo con quelli di Klee, Kandinskij, Otto Dix, George Grosz. Nel maggio successivo bruciano, a Berlino, le opere di Freud. Perché i nazisti considerano così pericolosa l’opera di Chagall? Suppongo che vi scorgano la più compiuta rappresentazione dell’altrove, di un mondo incollocabile, che sfugge al loro controllo, che si sottrae al dominio dell’Essere, alla realizzazione dello Spirito hegheliano di cui Hitler si considera rappresentante ed esecutore. Sappiamo, dalla recente pubblicazione dei Quaderni neri, che la colpa più grave che Heidegger imputa all’ ebreo è l’oblio dell’Essere. Il suo antisemitismo metafisico, non condanna tanto la razza, la mobilità, l’accumulo, l’usura e la diversità degli Ebrei, quanto l’inganno che perpetrano contro lo Stato per il solo fatto di non appartenervi, di essersi mentalmente dislocati altrove, come sostiene Carl Schmitt, “estraniati” dal mondo. Stretto in un chiasma, l’ebreo è altrove perché perseguitato ed è perseguitato perché altrove. Mentre gli si impedisce l’integrazione, gli si imputa l’alienazione. “Nel non-essere dell’ebreo, scrive Donatella Di Cesare, risuona l’annientamento”. Una minaccia che Chagall coglie già negli anni ’20, tanto che, nella tela “Angelo cadente ”, del 1923, troviamo rappresentati i presagi della prossima tragedia. Una tragedia che l’artista rappresenterà con un Cristo crocefisso di forte impatto emotivo nel 1945, dopo la sconvolgente scoperta dei campi di sterminio, nella grande tela “Apocalisse in Lilac”. Infine, nel quadro “don Chisciotte”, che conclude la rassegna milanese, immedesimandosi nell’eroe visionario partito alla ricerca dell’ideale, Chagall invia dal suo pianeta lontano un messaggio di speranza alla Terra, a quel mondo che egli ha attraversato a rovescio, dalla parte notturna, ove tutto permane e tutto si trasforma. Considerata nel suo insieme, l’opera di Chagall si configura come una illimitata trama dell’immaginario che rappresenta al tempo stesso la storia e l’autobiografia, il cosmo oggettivo e il microcosmo psichico, la perennità e la caducità del tempo. Nel secolo delle grandi catastrofi, lo schermo della fantasia, fragile e forte, si erge come un baluardo contro l’ingiustizia e la violenza assicurandoci che, anche quando tutto sembra perduto, è possibile sopravvivere all’annientamento collocandoci “altrove”, nel cuore segreto dell’umanità.
0 Commenti
Lascia una Risposta. |
Marco Focchi riceve in
viale Gran Sasso 28, 20131 Milano tel. 022665651. Possibilità di colloqui in inglese, francese, spagnolo. Archivi
Novembre 2024
Categorie
|