![]() di Rose-Paule Vinciguerra Imbarazzata com’ero dai detti della mia prima paziente, nei quali individuavo solo gli elementi psicologici, ho iniziato, molto tempo fa, un controllo con un'analista che pensavo avesse una certa esperienza. Ho smesso questo controllo quando l'analista ha fatto un discorso su questa paziente, un discorso, diciamo, diagnostico, che mi era sembrato inadeguato. Ho cambiato controllore. Indubbiamente non mi ero sbagliata nel giudicare questo caso, ma restava tutto da fare, in particolare dovevo imparare a orientarmi sul significante. Due decenni circa di pratica di controllo, affrontata ogni settimana non senza angoscia, mi hanno insegnato più di quanto possa esprimere, perché l'effetto di un controllo passa nel tessuto stesso dell’ascolto. Anche se conservo ricordi ancora vividi di chiarimenti folgoranti, di consigli avveduti nei caso d’emergenza, di momenti di mutamento radicale nella mia posizione ... Quando tuttavia cessano gli incontri tra il controllante e il controllato si è davvero finito con il controllo? Io credo di no. È impossibile non pensare di farvi ricorso quando un elemento decisivo sorge in una cura o, al contrario, quando non succede nulla. Mi sembra che il desiderio di controllo non cessi, non possa cessare, ed è un bene: è infatti ciò che risveglia l’analista, e mi sembrerebbe preoccupante se cadesse in obsolescenza. Anche se l'analista assume ormai per proprio conto questo controllo, il desiderio accompagna l'analista come la sua ombra.
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