di T. M Luhrmann, docente di Antropologia presso la Stanford University Due mesi fa, la British Psychological Society ha pubblicato uno straordinario documento dal titolo: "Capire la psicosi e la schizofrenia”. Gli autori affermano che sentire voci e sentirsi paranoide sono esperienze comuni, e sono spesso una reazione ai traumi, agli abusi o alle privazioni: "Chiamarli sintomi di malattia mentale, psicosi o schizofrenia è solo un modo di pensarli, con vantaggi e svantaggi". Il documento afferma che non esiste una linea di demarcazione netta tra psicosi ed esperienza normale: "Alcuni trovano utile pensare di avere una malattia. Altri preferiscono considerare i loro problemi come, per esempio, un aspetto della loro personalità che a volte li mette nei guai, ma di cui non vorrebbero fare a meno”. Il documento aggiunge che i farmaci antipsicotici a volte sono utili, ma che "non vi è alcuna prova che correggano un'anomalia biologica soggiacente." Mette poi in guardia sul rischio inerente al fatto di assumere questo tipo di farmaci per anni.
Il documento sostiene inoltre che è "vitale" che a quanti sono tormentati dai sintomi sia data la possibilità di "parlare a lungo delle proprie esperienze per dare senso a quanto è successo" – e sottolinea che raramente i servizi di salute mentale mettono a disposizione tale opportunità. Si tratta di una visione delle malattie mentali gravi radicalmente diversa da quella condivisa dalla maggior parte degli americani, e in particolare dalla maggior parte degli psichiatri americani. Gli americani pensano alla schizofrenia come a una malattia del cervello che può essere curata solo con i farmaci. Vi è tuttavia un’abbondanza di prove scientifiche in favore delle affermazioni contenute nel documento della British Psychological Society. La prospettiva che presenta è inoltre sorprendentemente consonante – in qualche modo – con il nuovo approccio realizzato negli Stati Uniti dal National Institute of Mental Health, che nel paese finanzia gran parte della ricerca sulle malattie mentali. Per decenni, la scienza psichiatrica americana ha considerato fondamentale la diagnosi. Si supponeva che queste categorie – depressione, schizofrenia, disturbo post-traumatico da stress – rappresentassero malattie biologicamente distinte, e l'obiettivo della ricerca era penetrare nella componente biologica della malattia. Le cose però non hanno funzionato così. Nel 2013, il direttore dell'istituto, Thomas R. Insel, ha annunciato che la scienza psichiatrica non era riuscita a trovare meccanismi biologici univoci associabili a diagnosi specifiche. Per quante basi genetiche o circuiti neurali venissero individuati, erano tutti per lo più comuni ai diversi gruppi diagnostici. Le diagnosi non erano né particolarmente utili né abbastanza accurate per capire il cervello, e non sarebbero più state usate come guida per la ricerca. L'istituto ha così iniziato uno degli esperimenti più interessanti e radicali nel campo della ricerca scientifica in questi anni. Si è sganciato da una tradizione decennale di ricerca orientata dalla diagnosi, dove uno scienziato, per esempio, diventava un ricercatore specializzato nella schizofrenia. Nell'ambito di un programma chiamato “Criteri del campo di ricerca”, tutta la ricerca deve cominciare da una matrice di strutture neuroscientifiche (geni, cellule, circuiti) che attraversano diagonalmente i domini comportamentali, cognitivi e sociali (paura acuta, perdita, eccitazione). Per fare un esempio tratto dal sito web del programma, i ricercatori psichiatrici non studieranno più le persone ansiose, studieranno i circuiti della paura. Il nostro attuale sistema di diagnosi – che è il risultato principale della rivoluzione biomedica in psichiatria – demarcava chiaramente la divisione tra coloro che erano malati e coloro che stavano bene, e questa demarcazione era determinata dalla scienza. Il sistema partiva dal comportamento delle persone, e le suddivideva in tipologie. Tale approccio aveva profonde radici nella nostra cultura, forse perché suddividerci in diverse tipologie di persone ci viene naturale. L'istituto respinge questo sistema perché non risulta utile per la ricerca. Si ricomincia daccapo, concentrandosi su come funzionano il cervello e le sue migliaia di miliardi di connessioni sinaptiche. La British Psychological Society rifiuta la centralità della diagnosi per motivi apparentemente del tutto diversi – tra cui per il fatto che definire le persone attribuendo loro un'etichetta devastante non li può certo aiutare. Entrambi gli approcci riconoscono che le malattie mentali sono risposte individuali complesse – meno simili all'ipotiroidismo, dove ci si ammala perché il corpo non secerne abbastanza ormone tiroideo, e più simili alla sindrome metabolica, in cui un insieme di fattori di rischio indipendenti (pressione alta, grasso corporeo concentrato nel girovita) aumenta la probabilità di malattie cardiache. Ciò implica che l'esperienza sociale svolge un ruolo significativo in chi si ammala mentalmente, e risulta determinante per il momento in cui si ammala e per il decorso della sua malattia. Dovremmo vedere la malattia come causata non solo da deficit cerebrali, ma anche da abusi, privazioni e disuguaglianze, che alterano il modo in cui si comporta il cervello. La malattia richiede quindi interventi sociali, non solo farmacologici. Un risultato di questo ripensamento potrebbe essere che parlare di terapia riacquisterà l'importanza che ha perso con la nascita del vecchio sistema diagnostico. Sappiamo come fare terapia della parola. Questo non esclude i farmaci: mentre ci possono essere problemi con l'uso prolungato di farmaci antipsicotici, molti li trovano utili quando soffrono di sintomi gravi. Il ripensamento arriva in un momento di sconcertante consapevolezza sul fatto che i problemi di salute mentale sono molto più pervasivi di quanto si sarebbe potuto immaginare. L'Organizzazione Mondiale della Sanità valuta che una persona su quattro incorre in un episodio di malattia mentale nel corso della vita. I problemi mentali e comportamentali sono la principale singola causa di disabilità sul pianeta. Ma in paesi a basso e medio reddito, circa quattro su cinque delle persone colpite da malattie non ricevono nessun trattamento. Quando le Nazioni Unite, questa primavera, definiranno i loro nuovi obiettivi di sviluppo sostenibile, dovrebbero includere come flagelli da combattere le malattie mentali, insieme a malattie come l'AIDS e la malaria. C'è ancora molto che non conosciamo sulle malattie mentali, e c’è ancora molto che possiamo fare per migliorarne la cura. Ma ne sappiamo abbastanza per fare qualcosa, e per accettare che saperne di più e fare di più deve essere un impegno fondamentale. Fonte: New York Times, 18 gennaio 2015
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