Conferenza tenuta a San Paolo il 21 ottobre 1981 Jacques-Alain Miller “Psicoanalisi e psichiatria” è il titolo della conferenza di questa sera. Partirò da un elemento evidente: c’è una antinomia fra la posizione dello psichiatra e quella dello psicoanalista. Perché segnalare questa antinomia? Perché, prima di tutto, la domanda rivolta allo psicoanalista e quella rivolta allo psichiatra non hanno in alcun modo la stessa struttura. La domanda
Quando la domanda si rivolge allo psicoanalista deve partire da un’esigenza, da un ideale, da un’iniziativa del paziente, da un suo proprio movimento. Anche lasciando in sospeso l'idea e il concetto di libertà, del tutto assurdi, ma che ci interessano -– non mi riferisco alla libertà politica – la domanda rivolta allo psicoanalista esprime il modo in cui il paziente interpreta il proprio sintomo a partire da ciò che sa e da ciò che non sa, e dal particolare disagio che gli provoca. Bisogna ricordare che lo stesso Freud ha attribuito il fallimento del caso della giovane omosessuale – quando il caso è diventato celebre – al fatto che la richiesta fosse venuta dalla famiglia e non dalla paziente, e per questo motivo riteneva che la cura non potè essere portata a termine con successo. La domanda rivolta allo psichiatra è diversa. Il più delle volte è una domanda sociale. In questi casi, in genere, non è il paziente che sceglie l’ospedale, ma la famiglia, i vicini, le istituzioni pubbliche. Scelgono per lui. In genere, ma non sempre. Alcuni pazienti scelgono l'ospedale come rifugio per sentirsi protetti dalla follia. Tutti noi conosciamo casi simili, compresi quelli per i quali l’ospedale da rifugio diventa esso stesso malattia, situazione allora in cui lo sforzo deve essere di tenere lontano il paziente dall’ospedale. Non si esagera dicendo che la selezione dei pazienti psichiatrici è sociale e che, se il paziente è malato, è perché ha difficoltà di adattamento sociale. Questo è certamente il suo dilemma, ma ciò non toglie che sia anche un dilemma per la società, se si considera che è questa a non adeguarsi a lui. Gli psichiatri di tutto il mondo sono oggi continuamente messi a confronto con la dimensione sociale ed eventualmente politica del loro lavoro, e cercano soluzioni sociali e politiche per la malattia. I pazzi prima avevano un loro posto nell'ordine sociale: non si immaginava nemmeno di curarli. Lo sappiamo dal momento in cui, su iniziativa di Michel Foucault, circa quindici anni fa, si cominciarono alcuni studi su questo. La preoccupazione terapeutica per il pazzo mostra l'intolleranza sociale per la follia. È un circolo, e noi vi siamo imprigionati. Il più contestatario dei filosofi quando fu perseguitato da un'erotomane, ricorse alla polizia e lui stesso finì dallo psichiatria. Lo evoco per essere realista: la domanda psichiatrica è essenzialmente l'opposto di quella psicoanalitica. Il sintomo Neanche il sintomo è lo stesso nel campo psichiatrico e in quello psicoanalitico. Quello psichiatrico è un sintomo che lo psichiatra osserva, descrive, classifica e a cui da un nome. È una clinica di osservazione. Qual è la pietra di paragone dei grandi sintomi classici, come il manierismo, la stereotipia, il negativismo, le stravaganze, il parossismo, le discordanze, le atipicità? Il riferimento in ultima istanza è il modo di sentire dello psichiatra teorizzato in ambito psicologico e nella teoria dello psichismo con i suoi fondamenti scolastici. Tornando indietro troviamo questi fondamenti, che ci obbligano a enumerare, descrivere, classificare, distinguere il sintomo primario da quello secondario, con la tendenza a considerare primari i disturbi che si possono comprendere da punto di vista neuro-fisiologico. L'ideale è che la clinica abbia un modello – che sarebbe la paralisi generale -– e ci si lamenta perché non tutte le malattie mentali vi aderiscono, e non possiamo trovare in esse un rappresentante così favorevole come il treponema della sifilide, avendo poi demenze infettive che potrebbero costituire il modello per una buona clinica. Ma non importa l'ordine della clinica psichiatrica. La finezza, le sfumature della clinica classica, sono una lezione per tutti noi, psicoanalisti e psichiatri, che sembriamo ignorare – almeno in Francia – la storia della psichiatria. E a noi tutti, la maggior parte delle volte, è necessario ricordarla, perché ci interessa. Quanto al sintomo psicoanalitico, esiste solo se è detto dal paziente, poiché la clinica psicoanalitica è fatta dal paziente, è originata dal suo stesso discorso. Il sintomo freudiano esiste solo a partire dal discorso del paziente, all’interno del dispositivo analitico. È quindi un paradosso, ma la base della clinica psicoanalitica è l’auto-clinica e non la psichiatria etero clinica. Se il sintomo analitico si costituisce nell'esperienza analitica, quando il paziente rivolge il proprio discorso all’analista, questi è parte del sintomo, è implicato nella sua funzione. È il motivo per cui Freud ha potuto dire che il primo momento dell'esperienza analitica si traduce in una riorganizzazione del sintomo, e questo richiede appunto che lo psicoanalista sia vi sia incluso per completarlo. Ciò rende le cose difficili per l’analista, la cui relazione con il sintomo non è esterna. Non può mantenersi a distanza o ignorare di esservi implicato. Charcot, che non sapeva di essere incluso nel sintomo, ci ha lasciato una serie di quadri clinici che sembrano una specie di zoo umano. Sono bei quadri, disegni che scandiscono le sue lezioni e che sembrano foto. È una zoologia. Da questo punto di vista lo psichiatra disconosce la parte di sé implicata nella produzione dell'oggetto del suo studio. Quanto all’analista, essendo implicato nel quadro clinico, si trova in una posizione più scomoda, non potendo guardare il quadro da lontano perché ne fa parte. Freud si è assunto il rischio di scriverle tutte e cinque le psicoanalisi descrivendo solo il proprio caso, che è la sesta psicoanalisi. Gli psicoanalisti non hanno mai smesso di appassionarsi alla clinica dei casi di Freud, alle cinque psicoanalisi, a L'interpretazione dei sogni, alla Psicopatologia della vita quotidiana, e a tutto il resto. La clinica di Freud, di cui egli stesso è oggetto, costituisce l'intera disciplina clinica della psicoanalisi. Le persone si preoccupano perché Lacan non ha scritto nessun caso clinico: non vorrei vedere il caso Lacan nella clinica psicoanalitica. D'altra parte, un tal caso esiste, perché ha resistito dall’essere assorbito dall'Associazione Internazionale di Psicoanalisi. Se riprendiamo la definizione della clinica proposta da Lacan: “La clinica è il reale come impossibile da sopportare", vediamo che non ha – in psichiatria e psicoanalisi – lo stesso punto di applicazione. Nel caso della psicoanalisi è un impossibile da sopportare per il soggetto. Nel caso della psichiatria si tratta di un impossibile da sopportare per la società. È chiaro che in certi punti i due aspetti possono sovrapposi ed per questo gli psicoanalisti e gli psichiatri hanno interesse a lavorare insieme sugli stessi casi, anche se le loro responsabilità non lo sono le stesse, soprattutto in ospedale. Non sono favorevole all’antipsichiatria che accentua la dimensione sociale dello psichiatra. Inoltre, c’è qui un malinteso. Si tratta, in realtà, di un movimento di psichiatri che si sono accorti, non di aver rinchiuso il pazzo, ma che, così facendo, si sono rinchiusi essi stessi. Hanno chiamato antipsichiatria il movimento che mira a farli uscire dalla reclusione, un movimento per la liberazione degli psichiatri. Questo li ha portati a supporre che il rispetto per la follia consistesse nell'imitare i pazzi: andare a scuola da loro e anche identificarsi con loro. C'è anche un certo numero di chiassosi sostenitori inglesi dell’anti-psichiatria che ha preso quella strada. Identificarsi con i pazzi non è l'orientamento di Lacan, motivo per cui fu criticato dagli antipsichiatri e dai discepoli francesi dell’antipsichiatria, come Maud Mannoni, che contemporaneamente era membro della sua Scuola. Gli rimproveravano di continuare a fare lo psichiatra. Ritornerò più avanti su questo argomento. Lacan si è sempre presentato come uomo di formazione medica e psichiatrica. Era della generazione di Henry Ey, uno dei più grandi maestri di studi psichiatrici in Francia. Henry Ey e Lacan hanno fatto insieme il loro studentato in psichiatria e nonostante le divergenze – l'organo-dinamismo della scuola di Jackson e le discipline del significante di Jakobson – hanno sempre mantenuto un rapporto di stima e amicizia. Lacan ha infatti tenuto presentazioni dei malati settimanali (e poi quindicinali) all'ospedale psichiatrico di Sainte-Anne dove, davanti a un gruppo di allievi residenti e di medici, presentava un paziente psichiatrico il cui caso gli era stato comunicato quindici minuti prima. In un’ora, o un'ora e mezza, svolgeva la dimostrazione del caso: ascoltava il paziente e gli poneva domande pertinenti e significative. Ha mantenuto tale pratica per tutto il tempo del suo insegnamento psicoanalitico. Quello che ho detto è solo un’annotazione, ho intenzione di riproporvelo in questa prospettiva più avanti. Quel che sto cercando di dimostrare è che la psicoanalisi si dimentica della psichiatria, con il pretesto che la domanda e i sintomi sono strutturalmente diversi nelle due dimensioni. Spesso si pensa che la psicoanalisi comprenda il paziente, al contrario della psichiatria che terrebbe invece una distanza oggettivante. Spesso si immagina che il merito essenziale della psicoanalisi sia quello di dissolvere la funzione della diagnosi. Dal momento in cui le persone iniziano ad interessarsi alla psicoanalisi, la dimensione particolare dell'esperienza analitica li sensibilizza e la psicoanalisi finisce per avere un effetto dissolvente sulla diagnosi psichiatrica. Questo porta gli stessi psichiatri a evitare sempre più la diagnosi, che comincia a essere vista come una pesante responsabilità, un rischio di oggettivazione, un’etichettatura. I tre punti: dimenticare la psichiatria, comprendere il paziente e non fare una diagnosi, non sono esatti, e riporto qui l'insegnamento di Lacan come l’ho ricevuto a Sainte-Anne. Primo: la clinica fondamentale è quella psichiatrica, anche per la psicanalisi; è un’eredità, forse pesante, di cui dobbiamo disfarci ma che ora è ancora presente. Secondo: la comprensione non è psicoanalisi, Freud non è Jaspers. Terzo: è dalla psicoanalisi che ci aspettiamo la vera disciplina della diagnosi. La clinica psichiatrica La clinica psichiatrica si formò nel XIX secolo e si sviluppò fino all'inizio del XX secolo. Fu essenzialmente una disciplina francese e tedesca che lasciò in eredità un quadro ottimo e ben organizzato, anche se a volte contraddittorio. Constatiamo tuttavia che questa clinica di osservazione fu completata nel 1920-1930, poiché non si scoprirono altre entità cliniche di osservazione, sebbene i tentativi proseguissero. Ci sono fenomeni interessanti sviluppatisi insieme ai mezzi tecnici: la clinica del transessualismo, per esempio, che prima non esisteva, risponde bene alle nuove possibilità createsi, perché il miglioramento nella chirurgia ha innescato un nuovo approccio, dando luogo a nuove entità. Dal punto di vista della psichiatria questo fenomeno è diventato poi un limite, perché i pazienti hanno iniziato a rivolgersi al chirurgo e non più allo psichiatra. Il paziente finisce per andare in un ospedale psichiatrico solo quando non può eseguire l'intervento o quando vuole farselo da solo. La clinica psichiatrica, in sostanza, ha avuto il suo apice intorno 1920-1930. Sul piano teorico si è trovata spiazzata nello sforzo di presentare un grande sistema in grado di affrontare la questione psicoanalitica. Il sistema Henry Ey ne è un buon esempio, considerando che i clinici non erano preoccupati delle grandi sintesi filosofiche, per quanto facessero osservazioni sottili e piene sfumature. Da parte nostra, stiamo cercando di ristampare i classici della psichiatria che per lo più non si trovano di più, a parte alcuni libri usati o alcune ristampe realizzate negli Stati Uniti. Dico spesso ai miei studenti che agli psichiatri non importava la sistematizzazione: fu necessario che la psicoanalisi ponesse il problema perché si avviasse lo sforzo di formulare ampie sintesi sullo psichismo. Dagli anni '20 in poi, abbiamo osservato una regressione evidente nella clinica psichiatrica. Per verificarlo in modo sistematico ho consultato tesi presentate dagli specializzandi in psichiatria in Francia. Riguardano tutte la sociologia. È davvero sempre più raro trovare una tesi clinica. A cosa si deve questo? All’incidenza dei farmaci e dei trattamenti chimici che hanno svuotato la clinica. Nessuno è più interessato a pensare i fenomeni clinici se non a partire dagli effetti che si possono ottenere con i farmaci, che sono diventati il principio organizzatore della clinica. La maggior parte delle volte ci si accontenta di un embrione clinico, una clinica con caratteristiche differenziali estremamente limitate che finisce per alimentarsi della lettura di opuscoli. Chiaramente l'incidenza dei farmaci ha l’effetto di dissolvere l’interesse clinico. Vorrei consigliare a coloro che conoscono la lingua francese, di leggere un libro di un giovane psichiatra francese, non lacaniano, che ha dedicato il proprio lavoro alla storia della clinica. È stato lui a sottolineare come la clinica abbia avuto una battuta d’arresto all'inizio del secolo, e che oggi quando ne parliamo ci riferiamo a un altra epoca. Si chiama Paul Bercherie e il suo libro si intitola Les fondements de la clinique. L'ho fatto pubblicare nella rivista Ornicar?, distribuita in Francia dalle Éditions du Seuil. Mi dispiace che non sia tradotto in portoghese, ma spero lo sarà presto, a breve uscirà in spagnolo, perché merita di essere conosciuto. Il rapporto della psicoanalisi con la clinica psichiatrica non è esterno, poiché la scoperta di Freud è inscritta in categorie utilizzabili. L'entità polimorfa della schizofrenia è stata inventata da Bleuler a partire da Freud, per rispondere alla pressione della scoperta freudiana. Possiamo vedere da vicino quale fosse l’influenza della psicoanalisi leggendo la corrispondenza tra Freud e Jung. Bleuler ha ottenuto una sintesi magistrale con il suo concetto di schizofrenia. Se potessimo vedere le cose in senso epistemologico, scorgeremmo ciò che al tempo stesso questo concetto-tampone dissimula e nasconde. Come farebbe la psicoanalisi a costruire la clinica senza la psichiatria? Essa è un suo riferimento base e ha un obiettivo specifico: la classificazione dei sintomi. Quando ho sentito la presentazione di un certo numero di casi all’Ospedale Italiano di Buenos Aires, non sono rimasto disorientato – anche se era la prima volta che vi mettevo piede. I sintomi si assomigliano, differiscono nelle strutture e, contrariamente alle elucubrazioni di quelli che si credono contestatari, esiste un numero limitato di sintomi. Immaginare che la follia o la nevrosi possano rappresentare un percorso di creatività è solo una sciocchezza. Al contrario, sono abbastanza standardizzate. Solo chi non ha mai messo piede in un ospedale psichiatrico può pensare che la schizofrenia e la paranoia aprano il dominio di una grande creatività equivalente a quella ottenuta con la sublimazione di Freud. I sintomi sono standardizzati, e danno così fondamento alla clinica. La psicoanalisi ha la vocazione di trasformare la clinica. Ha trasformato la clinica dell'isteria e l'isteria stessa. È esattamente quel che si manifesta nella domanda: perché i grandi sintomi isterici sono spariti o, almeno, si sono così ridotti? Per quanto riguarda il resto, tuttavia, non si può dire che la psicoanalisi abbia finito il suo lavoro: c'è ancora molto da fare. Intendo dire per esempio che ha fatto emergere la psichiatria infantile, che non aveva consistenza prima che la psicoanalisi si interessasse ai bambini. Su questo punto la psicoanalisi ha una relazione d'involuzione nella psichiatria. Il fatto è che dobbiamo constatare come la psicoanalisi non possa ignorare che la sua clinica di riferimento è quella psichiatrica. Non si deve comprendere il paziente Per quel che riguarda il comprendere il paziente, ritenuto un privilegio della psicoanalisi sulla psichiatria, le cose funzionano al contrario. Con l'esperienza psicoanalitica impariamo che non si dovrebbe giudicare troppo presto il significato legato a un significante. A maggior ragione oggi che l’affisso "psi" si è infiltrato nel quotidiano. Quando il paziente ci dice che ha la depressione, facendo per primo una diagnosi, che cosa significa? Non dobbiamo pensare che sappia cosa significa “depressione". Allo stesso modo, non dovremmo accontentarci della diagnosi di isteria nel momento in cui il paziente afferma di avere allucinazioni, dove lo psicotico non lo dice e invece le ha, e sostiene che sono reali. Questo è uno dei criteri che differenziano l'isterico dallo psicotico. Se c'è una lezione da trarre dall'esperienza analitica è che non si deve immaginare di comprendere il paziente: sarebbe un'elucubrazione. In psichiatria questo concetto è di Jaspers, conosciamo il suo lavoro sulla comprensione. Quando Lacan tenne il suo seminario sulla psicosi, ebbe innanzi tutto la precauzione di demolire l'idea delle relazioni di comprensione, perché è l'idea più pericolosa che si possa avere. In sostanza, dobbiamo mantenere una certa distanza dall’altro. L’umanitarismo, che consisterebbe puramente e semplicemente nel dire: "Sei mio fratello”, è una modalità oppressiva, una modalità di dominio. Quel che conta per noi è percepire il discorso dell’altro nella sua particolarità, senza dare giudizi precipitati a partire da un accordo di anime o di coscienze. La diagnosi Se l'esperienza analitica può insegnare qualcosa, è che esistono strutture, che sono solide, che non si modificano e non passano dall’una all’altra. Siamo soliti pensare che ci sarebbero fluttuazioni da una struttura all'altra. Per questo in tanti si entusiasmarono per il cosiddetto borderline, che è diventato caso limite, un elemento particolare della specie. Freud dice che ci sono delle strutture, con una logica e una tipologia di sintomi, a volte difficili da riconoscere: abbiamo la logica e il sintomo. La lezione della psicoanalisi si oppone quindi all’idea corrente che svaluta il concetto di genere. Nella psicosi e nell’isteria questo, va ricordato, diventa ancora più evidente. Ci sono sostenitori della psicosi isterica. Lacan, nelle sue presentazioni dei malati, prestava molta attenzione a distinguere, per ogni caso, se si trattasse di psicosi o di isteria, cosa non sempre facile da precisare. Nonostante la difficoltà, ha sempre potuto decidere in un senso o nell’altro. Lo stile della psicosi e quello dell'isteria inoltre non hanno nulla in comune. Non basta che il paziente dica cose strane o cose che sembrano strane, contraddittorie, ricche di termini immaginari, per formulare una diagnosi di psicosi. Si noti, per esempio, in quale stato di confusione e delirio arriva a Freud l'Uomo dei Topi: il che non toglie che la sua nevrosi ossessiva sia paradigmatica. Non ha nessun senso vedere in questo caso una diagnosi di psicosi basata su fenomeni immaginari, non indicativi della struttura in sé. Allo stesso modo, un’isterica che ho visto la settimana scorsa a Buenos Aires ha manifestato le più folli identificazioni tra sonno e veglia. Sia la psicoanalisi sia Lacan sottolineano che non bisogna tirarsi indietro di fronte a una diagnosi strutturale. Quel che dobbiamo trovare, esaminando lo psicotico, è il punto di certezza. Non dobbiamo pensare che termini come "certezza" o “sapere" siano solo filosofici. Il fatto che siano termini hegeliani o cartesiani non dovrebbe spingere gli psichiatri e opporsi alla conoscenza che forniscono. Di cos'altro soffre il paranoico se non del sapere dell'Altro? La cosa è diventata evidente proprio nel testo di un paranoico. Questo, d’altra parte, l’ho dimostrato in uno dei casi che mi sono stati presentati in Argentina e che ho avuto l’opportunità, invitato dal Dr. Forbes, di riprendere durante i colloqui clinici ai quali sono stato invitato. Un bellissimo caso, molto schreberiano. La clinica ha bisogno di essere riformulata, e gli psichiatri stanno avendo difficoltà in questo. La psichiatria, almeno in Francia, è in uno stato di grande disagio. Da un lato la sua autonomia, il suo dominio, comincia ad essere invaso dalla biologia molecolare, che ne incoraggia la scomparsa. Dall'altro, ci sono segmenti di interesse per a psicoanalisi che mettono all’angolo gli psichiatri ai quali, stretti tra queste due forze, non resta altra alternativa se non l’assistenza sociale. C'è poi il potere del farmaco, il cui progresso non è nelle loro mani, e il tentativo dei biologi di raggiungere un obiettivo ogni volta più preciso, rende impossibile l’instaurazione di una relazione stabile con il paziente. Un ulteriore fattore avvilisce i professionisti: loro possono considerarsi terapeuti o psicoterapeuti, ma gli psicotici non li considerano così. A partire da questo poniamo una domanda: cosa può fare la psicoanalisi per lo psicotico? Dobbiamo riconoscere che spesso non può fare nulla, e che la lezione del dottor Lacan nelle sue presentazioni dei malati, era solo una lezione di umiltà. Possiamo tentare di interpretare i sintomi degli psicotici deliranti, ma lo fanno molto meglio loro. Possiamo allora invece promuovere attività di sostegno di tipo sociale, che però non rientrano nel campo della psicoanalisi. Quando diamo sostegno a qualcuno dobbiamo essere certi che si tratti di un caso di psicosi, perché se dovessimo aiutare così un'isterica, la affonderemmo senza darle la minima opportunità di risalire. Ecco perché la diagnosi strutturale può essere importante. La psicoanalisi non può contribuire alla psichiatria con l'assistenza sociale, ma può farlo cooperando allo studio dei casi e al loro buon andamento. Inoltre, pur essendo particolarmente pessimista, Lacan elaborò la tesi che lo psicoanalista non deve mai tirarsi indietro di fronte alla psicosi. Lo psicoanalista ha la possibilità e il dovere di fare il tentativo. A causa dello sviluppo del settore "psi" – divenuto da circa dieci anni sempre più intenso, sull’onda dell'insegnamento di Lacan e di un interesse per la psicoanalisi sempre maggiore – la ricerca di una risposta a questi quesiti, in Francia, era diventata improcrastinabile: Lacan creò la Sezione Clinica nel Dipartimento di Psicoanalisi di Parigi VIII proprio per mettere a confronto psicoanalisi e psichiatria. La Sezione Clinica è un'area, una sezione del Dipartimento dove lavorano insieme psicoanalisti e psichiatri. Abbiamo rapporti con istituzioni ospedaliere dove si fa formazione, si organizzano gruppi di ricerca e, soprattutto a partire dagli ultimi tre anni, si fa presentazione dei malati. È uno studio un po' di frontiera, inizialmente ospitato dal servizio ospedaliero del dr. Daumezon a Saint-Anne. Poi, dopo la morte del dr. Daumezon, è passato all'Ospedale Henri-Roussell, nel servizio del Professor dr. Bertrand. Mi hanno detto che in Brasile tra psichiatri e psicoanalisti c’è una sorta di barriera. In Francia non è così: almeno da parte nostra l’interesse verso la psichiatria permane. Per la psicoanalisi frequentare l’ospedale psichiatrico è importante solo per un aspetto: è necessario che gli psicoanalisti si confrontino con la follia rinchiusa, ospedalizzata, perché ci sono sempre meno ricoveri. Non è tanto per la clinica, ma per il fatto che i pazzi mostrano l’inconscio esteriorizzato. Questa è la lezione sull’automatismo mentale, dove il significante funziona da un fuori da cui domina il soggetto, come dice chi ne è vittima, il pazzo, che meglio di chiunque altro ci mostra la ragione per la quale l'esperienza della psicosi è il filo conduttore dell'insegnamento di Lacan. Lacan psichiatra: il caso di Aimée Quando era un giovane psichiatra, Lacan lavorava al servizio del dr. Claude, del quale fu allievo. La cosa divertente è che nei suoi Scritti non si fa riferimento a lui, ma al grande psichiatra francese di cui ho già parlato, il maestro di Lacan, l'unico che, a suo parere, conoscesse la psichiatria: Clérambault. Era lo psichiatra dell’Infirmerie psychiatrique de la Préfecture de Police de Paris. Seguiva un’enorme quantità di pazienti, perché tutte le persone raccolte dalla polizia a Parigi negli anni ’20 passavano dal suo reparto, da dove poi venivano reindirizzati nei diversi reparti. Il dottor Daumezon ha svolto a lungo il ruolo di generale di redistribuire i malati. Finché è durata, è stata una esperienza molto interessante: con il passare delle ore infatti tutti i pazienti di Parigi finivano lì da lui, il che era notevolmente formativo. Gli incontri a cui ho partecipato ci hanno fornito un’ottima formazione e i medici ospedalieri hanno avuto l'opportunità di esaminare i pazienti più interessanti. Agli occhi degli altri psichiatri di Parigi questo pareva un abuso, e circa due anni fa hanno fatto in modo di far sparire il servizio centralizzato. Clerambault è colui che ha inventato l'automatismo mentale, una categoria che non so se qui viene considerata. Tornò ripetutamente su questo argomento. È scandaloso che oggi a Parigi non sia possibile trovare nessuna sua opera, sono tutte esaurite. L'automatismo mentale è un concetto che consente di raggruppare tutto ciò che sul soggetto deriva dall'influenza esterna. È quel che di solito si chiama xenopatia o la sensazione che le cose ci arrivino dall'esterno, che le parole e i pensieri vengano ascoltati. Prima ancora di essere formulati, i pensieri vengono commentati o addirittura imposti e, senza mediazione, si fanno sentire all'interno del soggetto, che così immagina la voce dell’Altro. Ci chiediamo perché questo concetto non sia stato elaborato prima, giacché è quello di un’esteriorità del discorso della sfera più intima. Se questo concetto ha avuto un’influenza limitata è perché la teoria formulata da Clérambault a partire dal fenomeno che aveva potuto individuare era meccanicistica e organicista. Lacan si era accorto che l'organicismo era semplicemente una metafora per dare conto del carattere reale, per il soggetto, di questo influsso interiore, oltre che del fatto che il lavoro di Clérambault è la descrizione strutturale di ciò che fa funzionare il discorso. Tutta una parte dell'insegnamento di Lacan – che lo ha portato a distinguere tra l’altro simile e l’Altro maiuscolo, luogo di parola – è sostenuta dall'esperienza dell’automatismo mentale, perché proprio grazie a essa ha chiarito la funzione di Altro del discorso, che parla all'interno della propria identità. È interessante osservare per quali vie Lacan, venendo dalla psichiatria, all'inizio degli anni ’30 sia giunto alla psicoanalisi. La sua tesi sulla psicosi paranoica nei suoi rapporti con la personalità è l'ultima grande tesi della clinica classica francese. All'inizio c'è una parte storica che ci rimanda a una bibliografia enorme. La parte centrale è la monografia del caso Aimée, il cui titolo è il nome della paziente. Si tratta di un caso di delirio passionale, la cui particolarità è il passaggio all’atto che, nel corso della sua esistenza, si rivolge a diversi personaggi, colpendone alcuni. Lacan diceva di avere trenta casi come quello, ma realizzò la monografia scegliendo di non lavorare sulla globalità, sulle caratteristiche comuni dei trenta casi, ma al contrario lavorando con il particolare, con il caso più significativo, considerando che lavorandoci intensamente se ne può trarre una lezione generale. La sua lezione non ha avuto seguito, perché anche quando si cerca di realizzare una tesi clinica, quel che si fa è raccogliere un certo numero di casi per trarne delle idee generali, il che è un peccato. Lacan ha pubblicato gli scritti della paziente, nei quali trovano espressione i suoi deliri. La tesi di Lacan è stata molto apprezzata nell’ambiente surrealista, come dimostrano gli articoli della rivista Le Minotaure. Salvador Dalí ha estratto dalla tesi di Lacan il suo concetto di paranoia critica. Si credeva per questo motivo che Lacan avesse simpatia per i surrealisti, il che è falso: erano questi ultimi a simpatizzare con lui. Lacan infatti ha sempre considerato il surrealismo dal punto di vista accademico, non avendo mai creduto nelle sue virtù contestatarie e considerando la psicoanalisi molto più interessante. Tornando al caso, è sorprendente e singolare vedere come il passaggio all’atto sia stato sufficiente per fare sparire il delirio. L'aggressione contro un’attrice di teatro è riuscita a soddisfare qualcosa. Lacan cerca di sapere cosa sia, e lancia qui un principio suggestivo, un tratto peculiare del giovane Lacan psichiatra: "La natura del trattamento dimostra la natura della malattia”. Si tratta, quindi, di un principio epistemologico notevole. Se possiamo sapere cosa fa scomparire il delirio, sapremo di cosa la paziente ha sofferto. Stando ai fatti esposti da Lacan concludiamo che a guarire la paziente non è stato l’atto commesso, ma piuttosto la punizione come conseguenza immediata dell’atto. Questa dovrebbe dunque essere l'origine della sua malattia. Dice Lacan: "Osservo in lei un desiderio di autopunizione. Non appena il desiderio viene soddisfatto, la paziente risulta guarita”. Fu questo a portare Lacan alla psicoanalisi, dove trovò, nel lavoro di Freud degli anni ’20, il concetto di Super-io come esempio del meccanismo dell'autopunizione. Ha così considerato il caso della sua paziente come prototipo di una paranoia di autopunizione, che è l'opposto della rivendicazione. Questo è stato il suo ultimo tentativo in psichiatria. L'importante è il riferimento al concetto di Super-io, che implica, nell'analisi, il fatto di mettere l’accento sulla divisione del soggetto: il soggetto lavora contro se stesso non essendo un'entità omogenea. Parlare di autopunizione è un modo, tutto sommato, di porre l’accento sul fatto che non c'è alcun motivo per il soggetto di volere il proprio bene. Crederlo è affidarsi a un pregiudizio filosofico e psichiatrico che spesso conduce gli psichiatri a volere il bene del malato. È necessario tenersi a distanza da questa idea, e valutare piuttosto il motivo del desiderio di terapeuttizare chi non lo chiede: è come volergli imporre il nostro sintomo. Il preconcetto psicologico connesso a questa questione implica credere che, per il fatto stesso di percepire, il soggetto sia unitario nelle sue diverse funzioni e percezioni. È invece più logico pensare che senta le proprie differenti percezioni in modo diversificato. Il soggetto dell'udito e quello della visione non si sovrappongono, e non possono essere definiti allo stesso modo. A che serve chiamare "allucinazione" una falsa percezione solo perché non sappiamo cosa sia? Non sarebbe meglio occuparsi di ciò che dice il paziente, che sappiamo pensare la propria illusione come reale, poiché per lui lo è? A questo proposito non c'è niente di più istruttivo del fenomeno delle voci imposte nello psicotico che soffre di automatismo mentale. Si deve tener conto che una simile suggestione si presenta a tutti attraverso la voce dell'altro. Quando sentiamo una voce questa produce un effetto. È molto difficile sfuggirle e prendere coscienza del rapporto del soggetto con la propria parola: non si può parlare senza sentire (fatto acustico), ascoltare senza dividersi. Ciò che così si manifesta nell'automatismo mentale è solo l'accentuazione del fenomeno fondamentale della divisione. Abbiamo creduto di aver fatto un grande passo quando ci siamo resi conto che nell'allucinazione verbale chiamata motoria c'erano dei piccoli movimenti, delle reazioni abbozzate dal soggetto stesso. Questo alla fine non prova nulla. Prova piuttosto che questa divisione è inerente alla comunicazione stessa, all'atto stesso di parlare. Questo ci porterebbe a occuparci della struttura dell'atto di ascoltare e così, invece di rigettare come aberrante l'automatismo mentale, potremmo cogliere in che senso esso prolunghi e metta a nudo la struttura stessa della comunicazione. Vorrei parlare di un concetto di Lacan, la forclusion, la preclusione. Forclusion è il modo in cui Lacan traduce il termine Verwerfung – preso da Freud – e che per noi lacaniani continua ad essere il filo conduttore della questione della psicosi, almeno nella paranoia, lasciando da parte l’argomento della schizofrenia. La preclusione del Nome-del-Padre è un tema derivato dall'approccio freudiano e continua ad essere il fondamento del concetto, il più semplice possibile, che usiamo in contrapposizione alla rimozione nevrotica. In entrambi i casi dobbiamo infatti tener conto del "non voglio sapere”, che è per l’appunto l'essenza della rimozione. La differenza tra nevrosi e psicosi ci costringe tuttavia a distinguere due modalità di negazione della conoscenza. Nella nevrosi il rimosso – nel senso freudiano – ritorna nel discorso stesso: nel lapsus, nell'atto mancato e nel sogno, poiché il rimosso e il ritorno del rimosso sono inseparabili. La psicosi è invece caratterizzata dal fatto che ciò che viene rimosso per il soggetto non ritorna in un elemento del discorso, ma riappare piuttosto nel reale, se prendiamo sul serio ciò che dice. Quest’ultima è la preclusione. Per essere più preciso: ciò che viene rimosso nel simbolico ritorna nel simbolico: lapsus, atti mancati, formazioni dell’inconscio. Ciò che viene precluso dal simbolico torna nel reale. Perché possiamo dire che questo meccanismo si riferisce al significante dominante nel Nome-del-Padre? Per spiegarlo ci vorrebbe una seconda conferenza., Dall'esperienza analitica possiamo tuttavia dedurre che la nevrosi e la costituzione cosiddetta normale hanno nella struttura essenziale del loro assemblaggio significante un significante diverso dagli altri, che si riferisce al Nome-del-Padre. Parlare di significante vuol dire che non c’è nulla nell'esperienza che possa mostrarlo. Essere padre è molto diverso dall'essere madre. Il rapporto con la madre ha qualcosa di naturale, mentre quello con il padre, come ha notato Freud, è essenzialmente culturale. La funzione del padre può essere attribuita a qualcuno diverso dal genitore biologico. Quella del Nome-del-Padre è una funzione significativa, indispensabile e fondante dell'ordine simbolico. L'ipotesi più semplice, partendo dall’analisi, è che la psicosi sia il risultato della preclusione di quel simbolo speciale: il Nome-del-Padre, che resta fuori dall'ordine simbolico. L'interpretazione analitica trovare ripetute conferme, anche se piuttosto pericolose. Ciò ha portato l'epistemologo Popper a considerare che la psicoanalisi non sia una scienza, e in questo ha tutte le ragioni, giacché la psicoanalisi trova solo prove a suo favore. Una teoria scientifica è caratterizzata dalla possibilità di essere smentita da un fatto che ne dimostrerebbe la non validità. La psicoanalisi è inconfutabile – questo ha molto divertito Lacan – ed è precisamente ciò che ne costituisce la debolezza., Dà tuttavia in cambio molto di più. Lacan ha affrontato il problema della psicosi partendo dalla rilettura del caso Schreber che, lungi dall'essere un percorso oscuro, è il modo più solido, più semplice, per poter affrontare la questione. Resta però il quesito se sia possibile rimediare alla preclusione del Nome-del-Padre e inserirne il significante nel quadro della paziente. Questo è quel che ha provato a fare Melanie Klein. Su questo punto dobbiamo essere pessimisti, poiché è vero che per lo psicotico adulto non abbiamo relazioni di casi trattati. Lo stesso Lacan, quando gli è stato chiesto perché in proposito non si fosse spinto oltre nel suo scritto del 1959 sulla psicosi, ha risposto di non avere abbastanza esperienza in materia. E, siccome insistevano, ha poi aggiunto: "Sì, ho potuto trattare degli psicotici, ma non so come ho fatto”. Questa lezione di umiltà dovrebbe essere il corollario della nostra conversazione su psicoanalisi e psichiatria. Dibattito Domanda: Faccio questa domanda per avere un chiarimento su un punto rispetto a quanto esposto. Riguarda la comprensione. Potremmo pensare che la comprensione sia il tentativo di ricostituire il nucleo del paziente. Se uniamo questa concezione alla sua critica al concetto di allucinazione – che non è una percezione falsa, e che corrisponde a un reale per il paziente – non staremmo accostando le due concezioni? J.-A.M.: Lacan è molto chiaro su quel punto. La relazione di comprensione è reversibile. Non c'è comprensione, ma c'è è quel che emerge con l'esempio dei due piccoli: quando uno non capiva il gesto dell’altro, lo interrogava, e a seconda che a rispondesse che si trattava di uno schiaffo o di una carezza piangeva o sorrideva. Il senso viene sempre dall'Altro. Invece della comprensione Lacan ha postulato l'asimmetria nell'esperienza analitica. L'analista ha la responsabilità di occupare il posto dell’Altro, e il paziente cerca il senso del sintomo nell'Altro. Lo psicoanalista, tuttavia, non sa. Si pone qui una questione etica: decidere il senso del sintomo implica una neutralità, non è il senso, ma è la sua mancanza che cura il sintomo. Mi piacerebbe sapere che cosa succede in Brasile. D: Conoscendo la sua posizione, sono rimasto piacevolmente sorpreso. Non direi nulla di molto diverso da quel che è già stato espresso qui. Ci sono state posizioni che in senso generale sono molto vicine. Se trovassimo qualcosa da discutere si tratterebbe di piccole questioni riferite da esaminare nella clinica, o legate alla valutazione dei sintomi, o su come trattare con il paziente. Si tratterebbe solo di abitudini diverse, e non di punti di contrasto. Sono stato fortemente colpito dal modo di valutare alcune distinzioni, come quella che tra l’isterico che racconta di avere delle allucinazioni e lo psicotico che invece no. I nostri punti di vista, su questo, sono divergenti: l’isterico di frequente tende a raccontare le sue allucinazioni in un modo particolare, ma anche lo psicotico ci racconta di averne, anche se lo fa in un altro modo. Penso si tratti più di un piccolo dettaglio, un dettaglio che non deve essere trasformato in una differenza radicale. Non ne farei un esempio. Le divergenze sono piccole e i punti di riferimento, gli schemi globali, sembrano molto vicini. J.-A.M.: C’è un punto essenziale nella diagnosi differenziale: la differenza per Lacan sta nella convinzione: l'isterico non crede mai che le voci siano reali. Lo psicotico ne ha invece la certezza. Se avessimo tempo, potremmo discutere e lavorare su un caso a partire dal materiale del discorso. Quel che lei chiama dettaglio, è una questione fondamentale. D: Prendo un dettaglio di quanto detto. Lei ha fatto una distinzione tra la domanda rivolta allo psichiatra e quella rivolta allo psicoanalista. Quella rivolta allo psichiatra sarebbe una domanda sociale, e quella rivolta allo psicoanalista sarebbe la domanda vera e propria. Lo capisco e lo condivido. Tuttavia quel che l’individuo porta in sé si costituisce, riceve significato: potrebbe allora essere inteso come sociale? Percepisco la differenza, ma se lo psichiatra diventa un assistente sociale, quale sarebbe la funzione sociale della psicoanalisi? J.-A.M.: Nella psicoanalisi il sociale esiste, ma in modo particolare. L'esperienza analitica costituisce un legame sociale particolare, una relazione senza precedenti. La psichiatria è un affare di Stato, quello del paziente nel suo legame sociale. Per esempio, in Unione Sovietica la psichiatria non era proibita come lo era invece la psicoanalisi. Il rapporto con il potere dello Stato non è lo stesso per le due discipline. D: Mi piacerebbe sentire la tua opinione sulle innovazioni cliniche introdotte dalla schizoanalisi. J.-A.M.: È la teoria intodotta in Francia da Deleuze e Guattari, e caduta nell'oblio. Il libro in cui è presentata ha avuto i suoi lettori, ma come pratica è totalmente sconosciuta. Osservazione curiosa: si sentono sempre più affermazioni edipiche tra i lettori di quel libro. D: Lei ha detto che una delle differenze tra psichiatria e la psicoanalisi consiste nel fatto che nei due casi ci sono richieste diverse, che la domanda psichiatrica è sociale e che il paziente in analisi è l'analizzante, è lui stesso a fare la clinica. Non è una trappola? I due saperi praticano lo stesso gioco? Non è un trucco per dire che la domanda in psicoanalisi non è sociale, e negare che la psicoanalisi non è un'istituzione? La sua vera funzione sociale è la sua posizione di fronte al desiderio, soprattutto per i pazienti lacaniani? J.-A.M.: Al paziente non viene chiesto di essere lacaniano. Viene chiesto talvolta agli analisti, se lo desiderano. Una volta, a Sainte-Anne, Lacan ebbe a che fare con un caso di psicosi nel quale il soggetto soffriva di "parole imposte". Il caso fu elaborato da quel punto di vista – sottolineato dal paziente – e per questo la si definì "psicosi lacaniana". In psicoanalisi, il sociale è sui generis. Lacan chiamò “Scuola" l'associazione degli analisti, sottolineando l’insegnamento, anche se non ha mai approvato che ci fosse un diploma universitario o un’attività sociale immediata. Nella Scuola l'insegnamento non era obbligatorio. D'altra parte, gli analisti hanno interessi sociali, non sono parassiti sociali. Promuovono il progresso della psicoanalisi per proteggersi dagli effetti devastanti del discorso della scienza, cercando di rispondere alle domande del discorso contemporaneo: lo psicoanalista non può lamentarsi dell'extraterritorialità. San Paolo 21 ottobre 1981 Traduzione di Micol Martinez
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