di Elisabetta Corrà, La Stampa - TuttoGreen “Ora, quel che voglio sono Fatti. Solo Fatti dovete insegnare a questi ragazzi. Nella vita non c’è bisogno che di Fatti. Piantate Fatti e sradicate tutto il resto. La mente di un animale che ragiona si può plasmare solo coi Fatti; null’altro gli sarà mai di alcuna utilità. Nella vita ci servono solo Fatti, null’altro che Fatti! ”. Con queste parole pronunciate dal business man Thomas Gradgrind si apre Hard Times il romanzo di Charles Dickens sul lavoro, il carbone, gli affari e le loro conseguenze sociali. Gradgrind è un pragmatico puro, che considera ogni aspetto emotivo dell’esistenza un orpello superfluo, un vezzo o peggio ancora un vizio di cui è meglio liberarsi per funzionare al meglio come cittadini e come imprenditori. Con pungente ironia Dickens sviluppa un intreccio che smentirà le premesse assolute di Gradgrind, consegnandoli una realtà familiare infelice, frammentata e fuori controllo. L’incipit del romanzo di Dickens riesce ad esprimere con impareggiabile sintesi la moderna ossessione per la quantificazione delle cose e delle persone, che sembra essere l’unico metro di misura dei fenomeni. Anche il consenso climatico avrebbe dovuto essere efficace in quanto poggiato su Fatti e solide fondamenta. Ma negli ultimi venti anni le temperature hanno continuato a salire. Gli ultimi dieci anni sono stati i più caldi da quanto sono cominciate le registrazioni termometriche, nell’Ottocento. Forse i Fatti non bastano, ha sussurrato qualcuno nel settembre del 2013, quando è stato presentato alla stampa il Quinto Rapporto dell’IPCC. Per la prima volta i giornali - anglosassoni - hanno riportato delle critiche alle modalità di comunicazione delle notizie e dei dati raccolti dai migliori climatologi del mondo: Bringing IPCC to Life, è il titolo di una interessante indagine prodotta dal britannico Climate Outreach & Information Network (COIN), una charity inglese che coinvolge persone di differente formazione culturale per studiare il cambiamento climatico, e i modi possibili di tradurre la conoscenza in azione. COIN funziona come un “ponte” tra il mondo della ricerca e le istituzioni, perché ha tra i suoi obiettivi la traduzione del sapere accademico in forme di comunicazione accessibili. Per il report in questione, lo staff del COIN ha realizzato sedici interviste a figure di spicco dell’informazione britannica e della società civile chiedendo loro come dovrebbe funzionare l’IPCC se il suo scopo fosse catalizzare una risposta politica e collettiva adeguata alla gravità della minaccia climatica. Va ricordato che il ruolo dell’IPCC è fornire ai decisori politici un quadro di riferimento scientifico sul riscaldamento globale, mentre il raggiungimento di obiettivi di consenso è secondario. Tuttavia l’indagine del COIN si chiede se questa impostazione abbia davvero funzionato, e lo fa confrontando l’impegno scientifico con gli scarsi risultati ottenuti.
“Il nostro argomento non è che l’IPCC sta fallendo nel suo ruolo di presentare i fatti che riguardano il cambiamento climatico ai decisori politici, ma che questo ruolo riflette un modello obsoleto di come la scienza è incorporata dentro la società, e di come si produce un cambiamento sociale. Catalizzare una risposta politica e civile proporzionata al riscaldamento globale significa ripensare i modi in cui il cambiamento climatico viene comunicato: dalla scienza a storie che parlano delle persone”. Questo significa “portare l’IPCC dentro la vita della gente”. Una delle domande poste ai 16 intervistati riguardava la necessità o meno di “narrazioni di impatto” che raccontino “come il cambiamento climatico compromette le cose che amiamo”. La risposta è stata chiara: “un numero maggiore di storie sull’impatto che il cambiamento climatico avrà sulla vita delle persone è urgentemente richiesto”. La capacità di tradurre in narrazione il discorso climatico è, secondo gli specialisti intervistati dal COIN, fondamentale per coinvolgere il vasto pubblico. E questo perché “senza dubbio è attraverso le storie che le persone danno significato al mondo, apprendono valori, costruiscono credenze, danno forma alla loro esistenza. Le storie sono dappertutto: nel mito, nelle favole, nell’epica, nella storia, nella tragedia, nella commedia, nella pittura, nelle danza, sulle vetrate delle finestre, nel cinema, nei racconti popolari, nelle fiere, nei romanzi e nelle strisce dei comici. Eppure, per lo più sono finora state estranee alla comunicazione sul clima”. Vale la pena di riportare per intero la dichiarazione di Alexis Sobel Fitts della Colombian Journalism Review: “La giustificazione per la pubblicazione di un report - che non contiene nessuna informazione nuova rispetto al passato - è che soltanto i fatti comporranno una narrazione abbastanza buona da educare le persone sul cambiamento climatico. I fatti sono stati riportati, si dice, in modo soddisfacente. Ma ci sono anche altri modi per imbastire una narrazione capace di sostenere i fatti che riguardano il clima pur senza distorcerli”. La parola chiave di questi ragionamenti è narrazione. I fatti non sono eloquenti da soli, e soprattutto sembra non abbiano la stessa efficacia di una storia. La critica all’IPCC smaschera un problema molto più vasto nel generale approccio al discorso climatico. Almeno finora il cambiamento climatico è stato analizzato e proposto al grande pubblico come una questione sociale; questo è stato un limite cospicuo alla efficacia della mobilitazione collettiva, che però continua ad essere la lettura dominante della questione. Il titolo dell’ultimo libro di Naomi Klein tradotto in italiano suona “Una rivoluzione ci salverà”. È invece molto probabile che non sarà una rivoluzione sostenuta da movimenti di piazza ad accendere in modo drastico il nostro interesse per il clima, ma semmai una presa di coscienza individuale, capace di mettere in discussione i presupposti economici e culturali che dominano lo scenario consumistico. Ciò implicherà spostare completamente la questione del consenso dall’oggetto - il riscaldamento globale - al soggetto - il cittadino, l’uomo. Si tratta di una tesi non solo suggestiva, ma estremamente concreta proprio perché va ad insistere sul problema del consenso mancato. Ma si tratta anche di una testi il cui presupposto pertiene alla psicoanalisi. Finora in Italia il pensiero psicoanalitico si è tenuto ai margini del dibattito ecologista, ma negli ultimi due, tre anni Luigi Zoja ha sfiorato la questione in numerosi interventi pubblici. In tutte queste occasioni Zoja ha ribadito ciò che ha discusso nel suo ultimo libro Utopie Minimaliste: non ci può essere svolta sociale se prima non si è verificata una svolta interiore. E questo avviene perché tutti i fenomeni sociali - quindi anche il cambiamento climatico, nel suo essere un ibrido tra Natura e Cultura - sono un riflesso di quanto avviene nella psiche. La lunga storia della psicoanalisi ha mostrato che tutte le tematiche che emergono nella clinica è possibile rintracciarle anche nel funzionamento sociale e politico. La questione dunque si pone: la psicoanalisi è in grado di fornire una cornice epistemologica utile a capire il cambiamento climatico? Partiamo dal metodo. Anche al di fuori del suo ambito diretto di applicazione, la psicoanalisi offre un metodo per osservare gli eventi. Stefano Bolognini ha sintetizzato in modo molto semplice e diretto quali sono i vantaggi di una indagine psicoanalitica: intanto, una rinuncia alla idealizzazione della natura umana, come invece accade, pur con le migliori intenzioni, nell’ambientalismo ideologico fondato su una etica kantiana; in secondo luogo, la ricerca di una verità del soggetto, e non solo della massa o del gruppo; la psicoanalisi allena la mente al più difficile degli esercizi culturali, e cioè ammettere che la categoria di ciò che è logico non corrisponde affatto ai modi di funzionamento della psiche (le persone si comportano costantemente in modo illogico, ed è quello che fanno con il clima e la biosfera); infine, allenare l’autocritica ridimensiona la critica rivolta verso l’esterno, chiamando in causa la responsabilità del soggetto che non può “scaricare” costantemente sugli altri le ragioni ultime del proprio disagio o della propria condizione personale. Quest’ultimo punto richiama quindi alla complessità degli argomenti e delle motivazioni che stanno alla base dell’agire umano, rifuggendo dalle semplificazioni. In una prospettiva psicoanalitica ciò che conta non è indicare colpevoli e cause prime, ma mettere in narrazione la propria storia, restituirle cioè una struttura di senso dotata certo anche di rapporti temporali, cronologici, ma soprattutto di uno spessore cognitivo. L’importanza accordata alla storia personale del soggetto illumina quella che potrebbe sembrare una aporia del metodo psicoanalitico e che invece è la sua potenzialità nascosta: non esistono ricette sicure e universalmente valide per mettere a posto le cose, e neppure un idilliaco Eden dell’Io cui si possa tornare dopo un apposito training. Questa prospettiva è lontanissima, dunque, dall’impostazione ecologista classica, che punta ad una soluzione pret-a-porter (il passaggio alle rinnovabili, lo storaggio sotterraneo della anidride carbonica, le smart grid, i sacchetti di plastica in Mater Bi) capace di spazzare via tutti i nostri cattivi usi del Pianeta; e lontanissima anche dalla fantasia idealizzante che basti cambiare i comportamenti esterni per modificare anche l’atteggiamento psicologico nei confronti della biosfera. L’autocritica del soggetto trasforma infatti l’individuo in un soggetto capace di un processo di autosignificazione nel mondo. La ricerca del risarcimento lascia dunque il posto a ciò che Jung chiamava individuazione. È su questo che insiste Luigi Zoja nel proporre una nuova utopia. Ci si può spingere ancora oltre: il consenso si fonda sull’individuazione. L’individuo, non il collettivo, è il sostrato su cui costruire la responsabilità ecologica. L’individuazione è un percorso di conoscenza profonda del sé, che sviluppa i potenziali di un individuo consentendogli di trovare un proprio spazio nella società senza rinunciare a se stesso. L’autocritica che questo percorso comporta è uno strumento indispensabile per “immergersi” nella crisi climatica e tentare di comprenderne la gravità, il peso e le conseguenze. Da qui può scaturire una nuova utopia, che mira a cambiare le cose dal di dentro, non delegandone il compito ad altri. Se fossimo capaci di mettere in narrazione la nostra storia con l’atmosfera e con il Pianeta, potremmo confrontarci seriamente con la nostra eredità fossile. La scoperta e la ricerca della nostra identità ecologica potrebbe portarci ad una eredità consapevole del passato industriale ed energetico della civiltà umana, favorendo un livello di coscienza molto più profondo di quello auspicato da un “cambio di utensili”, dai combustibili fossili alle rinnovabili. Ad avere davvero peso nel consenso sono i sentimenti reali delle persone reali, e non le ideologie totalizzanti (massimaliste, dice Zoja) che hanno costantemente bisogno di un nemico su cui scaricare colpe e imputazioni (il capitalismo, i combustibili fossili, la deregulation). Siamo inondati di articoli di giornale, statistiche e report che ci descrivono una rete di interessi globali orchestrati dalla finanza e orientati ad ostacolare una “green revolution”. Ma basta un sabato pomeriggio in un qualunque centro commerciale, o una corsa in metropolitana all’ora di punta, o una sosta in un patinato Apple Store per capire che la macchina industriale alimenta qualcosa fuori controllo che sta nella psiche e nelle emozioni delle persone. Il potere capitalistico descritto da Naomi Klein si limita a venire incontro ad una domanda posta molto più a valle degli infiniti passaggi che trasformano petrolio e carbone in status symbol tecnologici, e in compensazioni psichiche di un vuoto collettivo evidente. Nelle stato delle cose così come le affronta Klein l’interrogazione autocritica scompare. Eppure, a oltre venti anni dal Summit di Rio, sappiamo che la nuova etica di cui discuteva Hans Jonas è impossibile senza il soggetto. Anche il concetto di responsabilità deve essere ampliato, fuori dei soli confini della politica, perché il disastro ecologico non è commesso da un Grande Fratello estraneo a noi stessi, ma sta invece nelle scelte che decidiamo o no di compiere ogni giorno. Erich Neuman colse questo punto, così importante nella attuale crisi climatica, già all’indomani della seconda guerra mondiale: “Per Neumann non basta assumersi la responsabilità di ciò che coscientemente sappiamo o pensiamo: un’etica veramente adeguata ai tempi dovrebbe renderci responsabili anche per quello che giace nel nostro inconscio, ma che potremmo portare alla coscienza attraverso il dialogo e la riflessione”. Ciò che il pensiero psicoanalitico di Zoja dice qui è che la svolta di cui abbiamo bisogno non necessariamente passa attraverso cortei, manifestazioni di piazza, aggressioni urlate al vecchio modello capitalista; è molto più probabile che una massa critica si formi nel privato (“un insieme di gesti quotidiani, senza assolutismi, educazione, introspezione quotidiana, speranza, recupero di una scansione del tempo naturale, spazio all’autocritica”) da sentimenti di costruttiva opposizione al sistema di sfruttamento del Pianeta di cui siamo co-attori e co-protagonisti. Agli elementi di questa nuova utopia segnalati da Zoja se ne può aggiungere un altro: ri-apprendere a raccontare storie, la propria e quella di ciò che ci sta attorno. Il peso supremo che la psicoanalisi attribuisce alla parola, alla sua capacità di evocazione e di intreccio delle figure emotive che animano la psiche nel sottile gioco dell’inconscio, è una ricchezza inestimabile per un maturo discorso sul clima e la biosfera. È la parola che consente di tradurre il mondo in qualcosa che abbia un senso, in uno sforzo conoscitivo che non si esaurisce nella descrizione del fenomeno, per quanto quantitativamente accurata, ma si espande piuttosto nella rifrazione del discorso su quegli stessi oggetti che ha inteso spiegare. Per tutte queste ragioni sarebbe auspicabile un discorso sul clima di orientamento psicoanalitico. Il compito morale della psicoanalisi coincide con un imperativo della coscienza, nella doppia accezione di questa parola: la coscienza morale e la consapevolezza. C’è dunque una coincidenza molto stretta tra alcuni dei presupposti teorici della psicoanalisi e i principi della responsabilità ecologica. Una lettura dei fatti ambientali di tipo psicoanalitico ci può aiutare ad illuminare da dentro gli ibridi tra Natura e Cultura che la Rivoluzione Industriale ha consegnato a noi uomini, e a comprendere fino a che punto la svolta di pensiero necessaria coinvolga la nostra psiche: abitudini, emozioni, priorità, programmi libidici e libertà irrinunciabili. Così, la psicoanalisi ci restituisce la vastità del problema ecologico non come riconversione industriale ed energetica, ma come transizione di civiltà. Se quest’epoca può essere definitiva nella formula “narcisismo senza socialismo”, probabilmente possiamo scorgere nel valore culturale e sociale dell’individuazione una via di uscita dal dilemma del nostro tempo, che pretende un soggetto chiuso in se stesso ma lo incalza ad una posizione politica ambientalista per evitare il disastro. Il consenso come processo di maturazione del soggetto: questa potrebbe essere una nuova strada per affacciarsi al summit di Parigi senza ottimismi sfrenati, ma con l’intenzione di cominciare a capire che cosa in definitiva il cambiamento climatico significhi per ciascuno di noi.
1 Comment
Eb
15/3/2015 03:45:00 pm
Un'analisi a dir poco eccellente, che va a toccare il nervo centrale del problema. Abbiamo bisogno di creare nuove narrative che leghino la nostra quotidianità ai tempi ed alle mutazioni del global change. Abbiamo bisogno di storie che facciano emergere "la vita ai tempi dell'antropocene" nel giornalismo, ma sopratutto nella narrativa . Abbiamo passato la narrazione del problema scientifico : dobbiamo narrare il problema umano e la questione che ci avvolge completamente. Un rimosso che va elaborato collettivamente
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