di Dominique Holvoet "Il futuro della psicoanalisi dipende da ciò che ne sarà del reale" Gil Caroz con questo bel titolo "Momenti di crisi” – che annuncia il prossimo congresso del NLS Ginevra – ci invita a un compito arduo (1). È un compito arduo perché la psicoanalisi è interamente immersa nella dimensione della crisi, è persino amica della crisi. Yves Vanderveken, nel mese di settembre, ha dichiarato ad Atene che "la psicoanalisi è affine alla crisi e al reale." Siamo in crisi!
Certamente nel "nostro mondo" – espressione da problematizzare, perché potremmo domandarci se c’è un "nostro mondo" – diciamo piuttosto in questo nostro “immondo”, per riprendere il gioco di parole che Lacan fa ne “La terza” – non passa un giorno senza la parola "crisi" non sia messa in primo piano dai media. Crisi economica per alcuni, crisi d’integrazione per altri, David Pujadas aveva il suo bel da fare in un dibattito televisivo tra politologi e filosofi trasmesso recentemente su un canale francese. Tutti tentavano di sfuggire alle domande del giornalista che chiedeva: "Credete che politici siano impotenti a modificare il reale?“ Per quel che ci riguarda seguiremo quel che il presidente della NLS suggerisce per gli psicoanalisti: che interpretano il reale di cui la crisi è uno dei nomi. Questo è il contributo che cercherò di dare oggi a Gand. Ciò che oggi chiamiamo “crisi" va al di là del “Disagio della civiltà” articolato da Freud nel 1929. “Crisi” è un termine derivato dalla medicina. Proviene dal latino dei medici che designavano crisis una fase decisiva di una malattia (2). È interessante notare che il termine oggi ampiamente usato per indicare una improvvisa rottura di un equilibrio sociale o economico proviene dalla medicina, vale a dire che proviene da ciò che concerne il corpo e i suoi stati. Il precorso che faremo oggi si chiuderà necessariamente sul corpo, giacché si tratterà del sintomo. L'argomento scritto da Gil Caroz ci orienta proprio in questa direzione: si tratta d’interrogare la funzione della crisi nell'esperienza analitica in un confronto con l’ipermodernità. La crisi è uno dei nomi del reale, il significante è ripetuto nei media, pullula nel mondo, "crisi, crisi, crisi," diceva. Sapete che un significante ripetuto per un certo numero di volte finisce per perdere il proprio valore semantico, per non essere più che un fonema disarticolato. Se la crisi è quindi uno dei nomi del reale, si può affermare che questo è anche il segno di una situazione di stallo nel denominare il reale in gioco nell’ipermodernità. Inoltre, di che cosa si tratta quando si parla di ipermodernità? Prendo tre riferimenti che Lieven Jonckheere è stata così gentile da inviarmi, per avvicinarmi a questo termine. L’ipermodernità Nicole Aubert, dottore in Scienze delle Organizzazioni a Parigi, caratterizza la nostra epoca ipermoderna attraverso il culto dell’urgenza, titolo questo del suo ultimo libro (3). Secondo l'autore, l'urgenza e l’istantaneità sono le caratteristiche dell’ipermodernità. La causa di questo è individuata al tempo stesso nella globalizzazione economica e nell’avanzamento della tecnologia, all'intersezione cioè di due discorsi: quello del capitalismo e quello del della scienza. Di fronte a questo culto dell’urgenza il soggetto oscilla tra godimento e sfinimento. Per Nicole Aubert c'è un ritorno del rimosso che ha chiamato appunto "crisi" e che indicherebbe un crollo improvviso del culto dell’urgenza e dell'istantaneità. L'uomo ipermoderno sarebbe dunque, si chiede, un uomo senza futuro, che avrebbe sostituito la ricerca dell’eternità con la ricerca dell’immediatezza? (4) Una falsa urgenza Quel che vediamo dal nostro strapuntino analitico è fino a che punto l'urgenza in questione sia fondamentalmente una falsa urgenza, una corsa in avanti per sfuggire, non a ciò che non possiamo raggiungere, ma piuttosto per sfuggire alla verità di quel che ci causa, alla vacuità stessa di questa verità pluralizzata o polverizzata nel mondo ipermoderno. Che cosa è questa causa? In psicoanalisi non attribuiamo la depressione generalizzata nel mondo all’esaurimento di un’intensa attività di godimento. Per noi questa attività di godimento è il ritorno nel reale di ciò che è rigettato dell’essere, per il fatto che parla. Lacan corregge il cogito dicendo: "Penso dunque si gode”. È quel che propone ne “La terza”. Questo vuol dire: 1 – L '"io" è alienato in una "conoscenza costituita [...] dal suo inserimento nel discorso in cui è nato," (5) è cioè alienato nel discorso del padrone. 2 – Ma il soggetto ha solo un significante per rappresentarlo presso questo sapere costituito, e ciò non consente di raggiungere il proprio essere. "Penso dove non sono," potremmo dire. 3 – Vi è perciò un sapere irraggiungibile per il soggetto, ed è l'inconscio. L'"Io sono" è rigettato e precluso, e riappare nel reale sotto forma di “si gode". Non "io" godo, naturalmente, perché c’è solo un corpo per godere, ma "qualcosa" gode, come traccia della preclusione dell’essere per il fatto che parla lalingua, perché condivide l'esperienza inconscia del gruppo. Un radioso avvenire? Proseguo con la mia elencazione di riferimenti sociologici e filosofici. Il filosofo Gilles Lipovetsky sostiene che l’epoca postmoderna – successiva, dopo il 1968, alla società disciplinare che era caratterizzata da rigore e sacrificio, ma anche dalla promessa del progresso – l’epoca postmoderna si specifica dunque per un edonismo semplicistico e individualista, caratterizzato da un forte relativismo (va bene qualsiasi cosa). A suo parere però l’epoca postmoderna è finita, "i tempi si fanno di nuovo duri (...). Nel momento in cui trionfano le tecnologie genetiche, la globalizzazione liberista e i diritti umani, l'etichetta “postmoderno” ha perso un po’ di smalto” (p. 71)., Quel che l'autore chiama quindi “società ipermoderna” è una forma di radicalizzazione della logica individualistica dell’epoca detta "post", attraverso l’estensione a tutto il corpo sociale dello stesso modello del consumo. Ora Tutto ormai viene consumato freneticamente, per godere il più possibile, per "sballare", scrive, con un carattere d’urgenza e di sfinimento che si congiunge alla tesi di Nicole Aubert. A questa accelerazione s’aggiunge una preoccupazione per il futuro che dà alle tesi di Lipovetsky come un accento di radioso avvenire: ripresa dell’universalismo dei diritti umani e dei valori democratici, o rinnovate grandi ambizioni nel campo delle tecnoscienze. L'autore sostiene di percepire nell’epoca ipermoderna un reinvestimento dei valori e del senso. Tutto ciò che era stato messo alla mal parata dal postmodernismo iconoclasta, chiamato "età del sospetto”, oggi, nell’ipermodernità, sarebbe pieno di promesse per un futuro migliore. Nell’intervista contemporanea a “La terza”, pubblicata da J-A Miller con il titolo "Il trionfo della religione", Lacan sostiene questo ritorno del senso come inevitabile, e come previsto riapparire nella forma della religione, che secerne senso in modo potente. È un ritorno del senso reso necessario da quel che d'ignoto è generato dalle straordinarie innovazioni della scienza. Cito Lacan: "La scienza presenta il nuovo, e introdurrà una gran quantità di cose sconvolgenti nella vita di ognuno. La religione, soprattutto quella vera, ha risorse che non possiamo neppure sospettare. [...] Bisognerà diano senso a tutti i cambiamenti che la scienza porterà. [...] Fin dall'inizio, quel che fa la religione è dare un senso delle cose che una volta erano cose naturali. Non è tuttavia perché le cose stanno per diventare meno naturali, grazie al reale, che si smetterà di secernere senso”. L’epoca della psicoanalisi, un momento privilegiato Il destino della psicoanalisi non è tuttavia di diventare una religione. La religione è fatta – dice Lacan alla fine dell’intervista – perché gli uomini non si accorgano di cosa non va. La psicoanalisi invece è inserita tra due mondi. Con la psicoanalisi stiamo conoscendo un momento privilegiato "durante il quale si riuscirà ad avere una misura abbastanza giusta di che cosa è [...] il parlessere (6) – e precisa che parlessere è per lui è un termine migliore per esprimere l'inconscio. Lacan non fa promesse di futuro migliore, ma non insiste neppure nella drammatizzazione di un mondo invadente, aggressivo e ossessionante. Piuttosto, interpreta questo mondo, e afferma, in modo sorprendente, cito, che "bisogna abituarsi al reale", precisando che "il sintomo non è ancora davvero il reale. È la manifestazione del reale al nostro livello di esseri viventi. Come esseri viventi, siamo inquadrati, siamo morsi dal sintomo “ (7). Dopo trent’anni, quando ne “I complessi familiari” ci invitava a non rimpiangere quel che è ormai un passato, e a non affliggerci per il declino degli ideali paternalistici, nel 1974 suggerisce di non contribuire alla drammatizzazione dei media (sta rispondendo a un giornalista): "Non faccio parte – dice – né degli allarmisti né degli angosciati" (8) Il godimento e il tempo Per concludere questa dossier di riferimenti, potrei citare ancora Marc Augé che già nel 1992, parlava di surmodernità per descrivere la nostra epoca in base a tre caratteristiche essenziali: la sovrabbondanza di comunicazione fondata sulla creazione d’eventi, che gli storici faticano a interpretare, la sovrabbondanza spaziale, che mira all’espansione delle possibilità di mobilità come alla presenza d’informazione proveniente da tutto il mondo attraverso la televisione, e infine l'individualizzazione di riferimenti, di cui Wikipedia è un paradigma, che permette a ciascuno di interpretare da sé le informazioni che può ampiamente raccogliere anziché basarsi su un senso definito nel gruppo d’appartenenza (9). L’ipermodernità contrassegna così l’epoca con il sigillo del "plusgodere" fuori tempo. Sapete quanto il tempo della scienza resti un enigma per gli scienziati stessi: non vi è alcuna unità teorica di tempo. Tra il tempo della fisica classica, della termodinamica, della cosmologia e quello della fisica quantistica, non c’è nessun metro di misura comune possibile. Cito Etienne Klein, fisico francese, che scrive: ”Il volto del tempo [...] rimane quello di una sfinge, la sua essenza rimane fantomatica, indecisa e incoerente" (10). Ci si può chiedere se il tempo soggettivo – che è il tempo del sintomo – non si avvicini ancora di più alla relatività del tempo nel campo della scienza, in particolare attraverso l'introduzione di tecnologie di comunicazione che si propongono sempre di più come protesi del corpo umano, realizzate nella carne, o come organi complementari. Il telefono permetteva già il teletrasporto della voce, il fax ci ha offerto la simultaneità della scrittura, internet apre la biblioteca dei saperi e delle immagini come telerealtà permanente e globale. Ciò che fa “crisi, crisi, crisi" è quindi la dissoluzione della routine, come ha evidenziato Gil Caroz, legata a una distorsione dello spazio-tempo introdotta dagli oggetti della scienza. Dal gadget de “l'uomo potenziato" al sintomo Da questi lavori ricaviamo l’idea che l'epoca chiamata ipermoderna trasforma in modo profondo lo spazio e il tempo, mostrando un mondo immediato e pervasivo attraverso finestre moltiplicate: televisione, smartphone, tablet, consolle … Di questi schermi cogliamo il valore, non più di gadget, come si è espresso Lacan nel 1969, ma di oggetti fuori corpo, vale a dire collegati al corpo, complementi oggi indispensabili per la vita attuale, primi organi complementari dell'uomo potenziato di domani. Questi prendono valore attraverso l'oggetto plusgodere, e interessano la psicoanalisi per come alla fine diventeranno sintomi. Perché quel che c'è di sintomatico in questa profusione di oggetti è soprattutto il fatto che ne diventiamo schiavi, vale a dire che ne godiamo ... ancora. Il collettivo, materiale del parlessere Questo bel titolo, "Momenti di crisi”, implica un legame profondo tra ciò che ho chiamato "i sintomi della crisi", come l’angoscia degli studiosi o la depressione dei nostri contemporanei, e "la crisi del sintomo”. Detto altrimenti si tratta del modo in cui il sintomo analitico, come crisi della sfera intima e come manifestazione dell’inconscio, subisce l’impatto della crisi nel mondo, nel collettivo, la crisi nella sfera politica che ho sviluppato nella prima parte. Dire che “subisce l’impatto" implicherebbe un semplice legame di causa ed effetto del collettivo sull'individuo. Ma non dobbiamo forse dire che il sintomo analitico consiste in quel materiale stesso che è il collettivo? Nel tema del NLS, vi è un legame più stretto di quanto non appaia tra collettivo e individuale, tra il campo politico e il campo dell'inconscio. È una questione che Jacques-Alain Miller ha sviluppato in diversi interventi (11) al tempo della fondazione della Scuola lacaniana di psicoanalisi in Italia nei primi anni 2000, vale a dire, agli inizi del XXI secolo. Miller sostiene che per Lacan non è la politica che si ridurrebbe all'inconscio, ma ciò che noi chiamiamo inconscio è la politica! Che cosa significa questo? La psicoanalisi è nella politica, l'inconscio è la politica, non è altrove, non è in una extraterritorialità che lo terrebbe al riparo dagli orizzonti incerti del mondo o in una struttura immutabile inscritta negli astri. Come ho ricordato nell'introduzione, Gil Caroz ci propone nel suo argomento d’interrogare la funzione della crisi nell'esperienza analitica in un confronto con l’ipermodernità. Si tratta quindi di rendere conto dello stretto legame tra la politica, come si presenta nel "mondo", e la sfera privata, l'individuale, l'intimo che la psicoanalisi accoglie. Per effettuare questo legame sono partito dal commento che Jacques-Alain Miller ha proposto a Milano nel 2002 pubblicato in due parti in Mental n°11 e n°12 con il titolo "Intuizioni milanesi", e a un intervento che precede quello di Milano, conosciuto come "La teoria di Torino" pronunciato nel 2000. Questi due interventi sono legati alla formazione di un collettivo analitico, chiamato Scuola. Jacques-Alain Miller cerca di precisare la natura del collettivo, natura alla quale non sfugge la Scuola, con la sua particolarità di essere una Scuola di psicoanalisi. Mi interessa per il discorso di oggi capire come "il collettivo non sia altro che il soggetto dell’individuale" (12), come si esprime Lacan negli Scritti, e più ancora mi interessa cogliere dove ci porta la formula rovesciata di Lacan: "L'inconscio è la politica.'" Il discorso inconscio del padrone Miller commenta la frase di Lacan ne “La logica del fantasma”: "Non dico la politica è l'inconscio, ma l'inconscio è la politica." La prima parte della frase è molto freudiana. È quel che Freud ha sviluppato il suo Massenpsychologie, e il primo Lacan prosegue questa elaborazione dicendo che l'inconscio è il discorso del padrone. C'è un significante padrone, un punto di ideale strutturato nel campo sociale, diciamo l’istanza paterna, che permette l'identificazione immaginaria tra simili che, con questo effetto di colla identificativa, fanno massa per la legge del padre, per ciò che Freud chiamava ideale dell'Io. Il collettivo è costituito da una molteplicità di individui che scelgono lo stesso oggetto come l'ideale dell'Io. I concetti di riferimento di questa tesi secondo cui la politica può essere colta a partire dai legami inconsci che compongono il gruppo, per cui diciamo "la politica è l'inconscio" sono l'identificazione, la repressione, la censura e la rimozione. L’inconscio come discorso dell'Altro che non esiste Consideriamo questa tesi che – nell’epoca che svela l’inesistenza dell'Altro, la crisi diventa lo stato permanente di quest’epoca – permette di qualificarla come “iper”, come "plus". Si rivela così che l'inconscio come discorso dell'Altro, si basa su S di A maiuscola barrata, ed è questo che l'inconscio è la politica. L'inconscio è costituito dall'esperienza inconscia di un gruppo. La politica, in questo senso, non è più un S1 "uniano", ma il luogo di una frattura della verità (come sostiene Marcel Gauchet citato da J-A Miller) e l'inconscio si rivela essere quest’altra scena in cui il soggetto fa l’esperienza che la verità non è una. Vediamo allora che i totalitarismi sono solo un tentativo – anche se terribile – di ristabilire l’Uno della verità secondo la teoria freudiana di Massenpsychologie. Viceversa invece la democrazia implica il consenso a una divisione della verità. Motivo per cui Gil Caroz sottolineava, in un precedente contributo, che la psicoanalisi può svilupparsi solo in zone in cui il sistema politico è democratico. La concordia democratica produce allora un ritorno del rimosso che è questo dolore intimo in cui il soggetto fa l’esperienza della divisione della verità. Chiamerei allora “epilettica” la nostra epoca, nel senso che vi è crisi continua, che la crisi rischia di sorgere in ogni momento, viviamo infatti in uno spazio sociale dove, essendo globalizzato, nulla è più al suo posto. La nozione stessa di posto, ha osservato J-A Miller, è problematica. Di un libro si può dire che manca al suo posto solo avendo una libreria ordinata. Ora non c’è più una libreria, ma googleizzazione del mondo, dove le ricerche vengono effettuate da potenti algoritmi che dissolvono ogni libreria, per quanto ordinata sia. Diciamo che il mondo ipermoderno è senza pilota, senza operatore, proprio perché il vero reale, quello della scienza, quello a cui accediamo attraverso piccole lettere e piccole formule, è inimmaginabile. "La caratteristica del reale è che non lo possiamo immaginare" nota Lacan (13). Si passa così dall'inconscio come discorso del padrone, articolato a un S1 (che evocavo prima a partire da “La terza", come “l’Io legato al sapere costituito e inserito nel discorso in cui è nato"), all'inconscio articolato a S di A barrato (che giustifica il concetto di lalingua come resto, dove il godimento si deposito per il fatto di essere rigettato, cifrato dal linguaggio). Le crisi come fluttuazioni dei regimi di godimento Miller ha identificato tre fasi nell'insegnamento di Lacan che formalizza il passaggio da S1 a S di A barrato come costitutivo dell'inconscio: - In primo luogo c’è la psicoanalisi all’epoca disciplinare, dove l’inconscio è reperito come ripetizione significante e strutturato intorno al complesso d’Edipo, alla castrazione, alla rimozione, al Nome del Padre. Il desiderio è fissato come metonimia della mancanza. - Successivamente Lacan pluralizza i Nomi-del-Padre, l’agente della rimozione non è più il padre, ma il linguaggio stesso. Il desiderio si sposta verso il concetto di godimento e l’accento è posto sull’oggetto a minuscola che colma la mancanza. - Infine c’è un'ultima fase in cui il godimento non ha un contrario, il linguaggio stesso è godimento e non è più operatore di rimozione. È qui che inventa il concetto di lalingua come "deposito, alluvione, pietrificazione che si contrassegna con la propria esperienza inconscia attraverso il maneggiamento di un gruppo" (14). Da qui, se così posso dire, non si scappa, si è alle prese con questo nucleo di godimento. In ogni caso, è ciò che l’analisi ha di mira: ridurre il sintomo, come prodotto del reale, al proprio torsolo, riducendolo a quel che Lacan ha chiamato sinthomo. Tutto diventa allora una questione di come si sistemano le cose, di regime di godimento, di passaggio da un regime all'altro. Situerei in questi cambiamenti la nozione di crisi, come Gil Caroz ci propone di trattarla, e non nella drammatizzazione dello spettacolo del mondo. La crisi nella psicoanalisi è il nome di questo passaggio da un regime di godimento a un altro. Bisogna trovare delle sistemazioni: le famiglie si compongono e si ricompongono, la teoria del genere complessifica la differenziazione sessuale e si autorizzano nuovi discorsi, i lavoratori stessi sono chiamati alla massima flessibilità, si cambia mestiere più volte nella vita ecc. Ogni volta è un momento di crisi che porta la necessità di un rimaneggiamento, ma il punto fisso è il sinthomo, che è il nostro "corrispondente parasessuato" in mancanza di un corrispondente sessuale (15 ). Non indietreggiare di fronte alla crisi La psicoanalisi affronta questi momenti di crisi innanzi tutto consentendone l’elaborazione. Permette poi attraverso il sostegno della traslazione, di mettere alla prova le certezze soggettive sul reale tenute fino a quel momento. Infine la psicoanalisi cerca una sistemazione più soddisfacente delle soluzioni sintomatiche. Lo scorcio sul reale permette di considerare la crisi da una prospettiva diversa, non di evitarla, ma di prenderla per quello che è: un indice del reale che l’analizzante comincia a conoscere e, talvolta, ad addomesticare. Dire che la psicoanalisi è amica della crisi è anche un modo di sostenere che non bisogna indietreggiare davanti alla crisi. L'ingresso in analisi non è sempre in un "momento di crisi", e quando non si verifica spontaneamente, in alcuni casi non sarebbe forse opportuno provocarla? Con il tema dei "Momenti di crisi" possiamo cogliere la solidità dei concetti di Lacan, che ci permetteranno di affrontare la questione in modo adeguato. Yves Vanderveken suggeriva d’altra parte di prendere come riferimento anche il seminario “I quattro concetti fondamentali”. Per parte mia aggiungerei la struttura del non-tutto come punto d’appoggio concettuale che J-A Miller riprende nella seconda parte delle “Intuizioni milanesi." Avrei anche voluto parlarvi più in dettaglio di “La terza”, a partire dalla conclusione di quello che vi ho portato oggi e che mette in evidenza la dimensione del non-tutto e del continuo, che rompe con la discontinuità delle strutture cliniche classiche. La conseguenza che ne trae J-A Miller è che il sintomo diventa l'unità di base elementare della clinica invece di quel che erano le classi di sintomi, vale a dire, le strutture cliniche. Il sinthomo, nella sua nuova scrittura è, dice, la versione lacaniana della frammentazione di entità cliniche del DSM. In “Sottigliezze in psicoanalisi" Miller ha affermato che il sinthomo è un concetto che cancella i confini (Lezione del 10.12. 2008). A partire da qui si potrebbe lavorare intorno a ciò che Lacan dichiara ne “La terza”, e cioè che la psicoanalisi dipende dal futuro del reale. La scienza – dice – produce gadget che trasformano il reale. Ma – aggiunge – noi non diventeremo figure semplicemente animate dai gadget, saranno i gadget a diventare sintomi. 1 intervento tenuto a Gand il 4 ottobre 2014 presso il Kring voor psychoanalyse van della NLS. Ringrazio Geert Hoornaert per la sua attenta rilettura. 2 Bloch et Wartburg, dizionario etimologico 3 Aubert Nicole, « Le culte de l’urgence. La société malade du temps », coll. Champs essais, 2009. 4 Per una lettura dell’urgenza vedere il le blog di Gaël Picut sur en-aperte.com à propos du livre de Nicole Aubert. 5 Lacan Jacques, « La troisième » (1974), La Cause freudienne, 79, p. 12 6 Lacan Jacques, Le triomphe de la religion (29 oct. 1974), p. 87, coll. Champ freudien, Seuil, 2005. 7 Lacan Jacques, op. cit. p. 93 8 Lacan, op. cit. p. 95 9 Augé Marc, « Non-Lieux. Introduction à une anthropologie de la surmodernité », Seuil, 1992. 10 Klein Etienne, Le temps, Coll. Domino, Flammarion, 1995, p. 68. 11 Miller Jacques-Alain, « Intuitions Milanaises 1 », Mental, 11, 2002. « Intuitions Milanaises 2 », Mental 12. « Théorie de Turin sur le sujet de l’Ecole » (2000), La Cause freudienne, 74, 2002, p. 133. 12 Lacan Jacques, « Le temps logique ou l’assertion de certitude anticipée », Ecrits, Paris, Seuil, 1966, p. 213, note 2. Cité par J-A Miller dans sa « Théorie de Turin sur le sujet de l’Ecole » (2000), La Cause freudienne, 74, 2002, p. 133. 13 Lacan Jacques, « Le triomphe de la religion », op. cit.P. 92 14 Lacan Jacques, « La troisième », op. cit., p. 20 15 Lacan Jacques, « La troisième », op. cit., p. 32
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