Presentazione della tavola rotonda che ha avuto luogo il 14 marzo 2014 in occasione della presentazione del libro di Marco Focchi: “Sintomi senza inconscio di un’epoca senza desiderio” di Isabella Ramaioli L’occasione di questa serata, ci è data dalla pubblicazione del libro di Marco Focchi, un testo questo di sicuro interesse e di sicura attualità. Il titolo/tema di questo lavoro: “ Sintomi senza inconscio in un’epoca senza desiderio” enuncia la complessità dell’epoca e insieme i tratti specifici del disagio della civiltà di questo nostro XXI secolo: senza inconscio senza desiderio. La trattazione del tema prende il via dalla clinica: sintomi senza inconscio, per approdare, come nella migliore tradizione della psicoanalisi lacaniana, ad una lettura, ad una tesi, ad una diagnosi dell’epoca contemporanea. In effetti clinica ed epoca, malessere della civiltà e società, psicopatologia e stili di vita rispondono al dettato di una psicoanalisi, quella lacaniana, che non disgiunge, che non separa il mondo interno dal mondo esterno, che non oppone mentale e sociale, che non concepisce il soggetto come monade, come ens causa sui, al contrario, qui sono operativi gli assiomi di Lacan che affermano che “il soggetto nasce nel campo dell’Altro”, che il desiderio è il desiderio dell’Altro, che l’inconscio è il sociale – che il soggetto dell’inconscio è costitutivamente/strutturalmente transindividuale.
Il testo si dispiega prendendo in considerazione, sin da subito, la clinica contemporanea – quattro sguardi – clinica che assume come centrale, come dirimente, come antagonista alla concezione medico-psichiatrica la concezione del sintomo, il suo trattamento, la sua guarigione. Il tratto che particolarizza questa impostazione, questa politica della cura è dato da una precisa convinzione, da una presa di posizione verso “Una terapia non soppressiva del sintomo”. È questa la chiave di volta di una clinica che assume il sintomo come soluzione soggettiva, come soluzione singolare che il paziente ha trovato al proprio malessere. “Se si elimina il sintomo, infatti, si elimina anche la soluzione che il paziente ha trovato…”(pag. 48). Il sintomo è qui concepito come la via d’uscita che il soggetto ha costruito per gestire il conflitto fra l’Io e l’Es direbbe Freud. Dunque un primo grande insegnamento che si può trarre dalla prima parte di questo lavoro è indubbiamente centrato attorno alla “non soppressività del sintomo”, alla sua funzione, al come e al perché di questa posizione. “Cerco in questo modo di mostrarvi perché consideriamo che la psicoanalisi non sia una terapia soppressiva del sintomo, tento di illustrare la funzione che il sintomo svolge nell’economia soggettiva”. La traiettoria qui seguita mostra la trasformazione che il sintomo-soffrenza percorre nel suo divenire “evento-occasione” per il soggetto, un incontro, una possibilità per il soggetto. È a partire da questa particolare funzione del sintomo che si sviluppa via via l’analisi dello statuto del sintomo oggi, sintomo che, senza dubbio alcuno, riflette la dinamica sociale e la promozione, dunque, di un soggetto che sembra non rispondere più interamente alla definizione classica, ma che si mostra rappresentato dalla sua fissazione ad un godimento, godimento che gli apporta una consistenza d’essere in molti casi refrattaria alla clinica della domanda; quella clinica che faceva -dell’interrogazione del soggetto sulla causa del desiderio - l’orientamento essenziale della cura. Focchi si sofferma su questa questione, chiedendosi anche se e come affrontare, accanto ai nuovi sintomi, le “nuove domande” di cura. È questo, infatti, un capitolo della clinica che ci impegna quotidianamente. La considerazione che ho qui introdotto ha uno scopo preciso, che è quello di mettere in luce la dimensione etica della cura propria a questa politica, una politica che si oppone all’ideale della soppressione sintomatica, una politica che si oppone al concetto di disturbo assunto oggi come paradigma della psicopatologia dei vari DSM, che tende invece ad eliminare il sintomo concepito come deviazione a-normale dell’Ideale universale del benessere. I cosiddetti disturbi dell’appetito, dell’umore, del sonno, dell’apprendimento, dell’ansia ecc… suppongono, infatti, che la diversità dalla norma assuma già di per sé il significato di una “malattia” e mette in moto, di conseguenza, cure tese a riparare la normale funzione lesa. Al contrario, il sintomo analitico resta eterogeneo alla categoria di disturbo, preserva la differenza dalla norma come occasione di singolarizzazione del soggetto e, dunque, di pluralizzazione del campo falsamente omogeneo della salute. È questa politica del sintomo analitico a scompaginare il programma di riduzione scientista del soggetto agli indici quantitativi richiesti dalle procedure della valutazione. Il sintomo analitico incarna non solo la verità, ma anche quel margine insopprimibile di libertà rispetto al grande Altro al quale è strutturalmente assoggettato; incarna quel punto di dissenso, quel margine che non si lascia appiattire, quell’obiezione singolare alla Legge dell’Altro e ai suoi significanti ideali. Vengo così a quello che, nell’ultima parte del libro, Focchi raccoglie sotto il titolo di “Dibattito con la scienza”. Titolo/tema trattato, in un primo momento, in un confronto serrato lungo le due prospettive epistemologiche di Popper e di Grünbaum, e che sviluppa poi mettendo a tema ciò che specifica e che differenzia la psicoanalisi dal paradigma scientifico riguardo sia al piano del senso che a quello della causa (sessuale per la psicoanalisi), a quello dello statuto del soggetto della scienza e del soggetto della psicoanalisi, dell’impossibile della scienza e di quello della psicoanalisi. Qui Focchi raccoglie il meglio della riflessione che J.-A Miller ha sviluppato anche nel testo che introduce il dibattito del prossimo congresso della Associazione Mondiale di Psicoanalisi: “Un reale nel XXI secolo”. Accanto ad un’analisi delle trasformazioni subite dal simbolico ad opera del discorso del capitalista e del discorso della scienza, via scientismo, discorsi che dominano ormai la scena sociale, Miller evidenzia le conseguenze che hanno portato alla distruzione della struttura tradizionale dell’esperienza umana, che hanno stravolto i fondamenti più profondi di questa tradizione ed evidenzia le ricadute di tutto questo sul soggetto, sulla soggettività desoggettivandola , destituendo l’impossibile, nella folle ricerca di un godimento assoluto, fuori dalle leggi del patto e dell’amore, con cui si pretende di negare l’assenza del rapporto sessuale. Penso qui al bel film di Martin Scorsese, nelle sale in questi giorni: “The Wolf of Wall Street”, dove viene in luce l’effetto anestetizzante del soggetto di questa nostra epoca, di un’esperienza, quella del protagonista, di smarrimento, di accecamento, in un registro dell’esperienza che permette di non vedere altro da sé, senza mai porsi alcun interrogativo, alcuna domanda, alcun perché. È questo, a mio parere, ciò che il titolo di questo libro mette bene in evidenza insieme al compito che l’epoca ci consegna, e cioè quello di fare nostra la critica potente che Lacan solleva, già in Funzione e campo della parola e del linguaggio, nei confronti della scienza, considerata incapace di far spazio alla singolarità, accusata di procedere attraverso un movimento preclusivo che esclude e aliena il soggetto, che abolisce la dimensione contingente della parola, dell’incontro con l’Altro, che annulla la dimensione singolare dell’enunciazione in una serie anonima e spersonalizzata di enunciati seriali.
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