di Jacques-Alain Miller Quel che c'è vi satura per la sua evidenza. L’evidenza di quel che c’è vi nasconde l’assenza di quel che non c’è. Non dimostro queste due proposizioni: ne prendo le mosse come da due assiomi. I Quel che c’è vi inonda con la sua evidenza Così, quando penetrate nel laboratorio di Pablo Reinoso a Malakoff, siete colti dalla profusione del “c'è”, vi prende alla gola, agli occhi, vi avvolge, vi ingloba, siete voi a essere penetrati. Vi aprite il cammino in un bazar opulento, e non sapete dove guardare perché ogni oggetto merita la vostra attenzione. Quest’attenzione l’attrae, ma l'oggetto vicino l'attrae nello stesso modo, ed eccovi, come una mosca impigliata nella tela di ragni rivali mentre si disputano la preda che siete diventati. L'oggetto reinosiano è cannibale. Vi risucchia, vi inghiotte. Emana un tale campo di forza che non potete mantenere le distanze. Vi assorbe, vi consuma. Tiziano indica il posto che lo spettatore deve prendere girando verso di lui lo sguardo del piccolo personaggio in basso a destra ne La Madonna di Ca’ Pesaro. Una scultura del Bernini privilegia un angolo visuale, assegnando all'occhio una determinata posizione nello spazio. Questa posizione diventa, in compenso, sfocata, paradossale, indecidibile, davanti allo specchio del “Bar aux Folies-Bergère” di Manet. Per quanto riguarda “Étant donnés”, l'ultima opera di Duchamp, la si può vedere solo a condizione di accostare gli occhi al buco della serratura: una beffa all'ideologia del “punto di vista”. E poi? Poi viene Reinoso. Reinoso rimarrà nell'arte come inventore di un concetto inedito: l'oggetto a distanza zero. Vi attira l'arte? Molto bene – dice – lasciatevi portare da questa attrazione. Entrate nell'orbita dell'oggetto. Subitene la forza gravitazionale. Avvicinatevi, più vicino....più ancora... e ora la caduta libera. Ci cadete sopra. È quel che occorre. Reinoso vi invita a collocarvi dentro o sopra l'oggetto. Non a mettervi davanti a contemplare; non a girargli intorno, ma a entrare, a posarvici sopra.
Qual è lo stimolo primordiale dell'immaginazione reinosiana? Scranno o panca, trono o sgabello, è la sedia in tutte le sue versioni. L'artista lo ha confidato: “Ho costruito così la mia prima panca e la mia prima sedia sui sette o otto anni”. La sua prima opera qualche anno dopo? Un tronco articolato “una vera sedia, che d’altra parte utilizzo ancora perché l'ho conservata conservata a casa”. In effetti si trova lì, nel laboratorio. Non c'è oggetto più umile di una sedia. Per esprimere disprezzo non si dice: “Mi ci siedo sopra”? Il tratto proprio all'utensile, l’oggetto-di-servizio, è secondo il filosofo tedesco, l’ente-a-portata-di-mano, Zuhandenes. La sedia, invece, si distingue per il fatto di trovarsi sotto i glutei, e a questo titolo illustra meglio di qualsiasi altro oggetto la condizione umana. “Nel trono più alto del mondo, siamo sempre seduti sul nostro culo”. Questa frase di Montaigne, quinta prima dal punto finale degli “Essais”, contiene il nucleo di tutto ciò che lo spirito francese ha potuto produrre come satira, o come bestemmia. Reinoso appartiene a questa linea. Avere come qui, nella Casa dell'America Latina, un edificio da ricostruire, per così dire, da cima a fondo, soddisfa l'ideale reinosiano, che chiede allo spettatore di integrarsi nell'oggetto. II L'evidenza di ciò che c'è nasconde l'assenza di ciò che non c’è Ci voleva Sherlock Holmes per capire che il momento saliente della serata dai Baskerville era che il cane non aveva abbaiato. Cerchiamo di essere quello Sherlock con Reinoso. Quel che non c'è nella sua opera, è la rappresentazione della forma umana. A ciò che fu la passione di un Giacometti, per esempio, Reinoso oppone una differenza paleolitica. Nella grotta Chauvet, si dice, a fronte di 447 rappresentazioni di animali, si trovano, sopra all’estremità di una roccia, un uomo con la testa di bisonte, una donna con la testa di leone. Il famoso “Nu descendant, un escalier” di Duchamp lascia ancora trasparire una silhouette-scheletro. Non c'è niente di simile in Reinoso. Nel suo laboratorio vi mostra tre cornici con filamenti, appoggiati al muro. Sono “Le tre Grazie”, dice. Indovinerete che il quadro che vedete nella sala a destra dell'ingresso traspone il “Laocoonte" di El Greco e i suoi corpi serpentiformi? L'arte di Reinoso è un’arte antiumanista. L’oggetto-di-servizio convoca, destituisce, sostituisce, censura il suo padrone di sempre, costringendolo a partecipare del suo essere d'oggetto. Diciamo che l'oggetto diventa qui la metafora dell'uomo. Questo è rimosso, abolito, a favore del ninnolo. Sembra di vedere l’utensile “a portata di mano” sottrarsi a ogni presa, emanciparsi da qualsiasi tutela. Reinoso, nuovo Rousseau, proclama: “L'oggetto è nato libero e dovunque è prigioniero”. Siamo di nuovo nel 1789, ma questa volta si proclama una Dichiarazione dei Diritti dell'Oggetto. Il primo di questi diritti è quello di non servire a niente. E ora lo sappiamo, dopo l'orinatoio di Duchamp: basta che un artista, riconosciuto come tale, sottragga all'uso il prodotto manufatto più comune e lo battezzi opera d'arte perché, ipso facto, sia così. È il principio del ready-made: 1) L'oggetto permane intatto. 2) Ciò che cambia è il suo significato. 3) Condizione necessaria: che vi si aggiunga un'enunciazione performativa (il “battesimo”). Reinoso, ancora una volta, è un passo avanti con ciò che qui chiamerei il suo freed object, l'oggetto emancipato. Non c’è battesimo, l'artista rimane muto, modifica l'oggetto utilitario in modo che questo manifesti da sé che ha ormai acquisito il significato di opera d'arte. Qui tutto è sorpresa. Ecco infatti che l'oggetto diventa altro. Si estende, si anima, abbandona ogni ritegno. Esce dai binari. Fa di testa sua. Diventa malizioso! Assume attributi umani. Il cuscino su cui appoggiare la testa inizia a respirare come un dormiente. Il legno della panca sulla quale il visitatore riposa le natiche, va lui a farsi una passeggiata. La sedia su cui riposare non vi da tregua, e lascia il pavimento per andare ad attaccarsi al soffitto. Poiché si chiama parola-valigia un neologismo che incastra due vocaboli uno dentro l’altro troncandoli, perché non dire che l'oggetto reinosiano è un “oggetto-valigia”? Ma se valigia è, è una valigia aperta, che trabocca. Ne consegue che se restituite il ready-made di Duchamp al suo uso, detto in altri termini, se pisciate nell'orinatoio sacro, fate un’attentato contro la sua qualità di opera d'arte. Se invece restituite al suo uso originale il freed object di Reinoso, non fate che confermarla. In linea di massima, la possibilità di un ritorno al valore d'uso è sempre evocata da quest'oggetto. Tre ipotesi: 1) L'uso è possibile, persino prescritto: è il caso delle panche, per esempio delle panchine pubbliche nei moli di Saône a Lyon. 2) L'uso è impossibile: pensiamo alle sedie sul soffitto. 3) L'uso è una tentazione, ma è difficile, e sempre contorto: è ciò che illustra, in un breve film, il sorprendente numero di contorsioni della ballerina Bianca Li, alle prese con la sedia Thonet modificata da Reinoso. Vedendo il lungo corpo sottile della donna torturata dall'oggetto emancipato, viene voglia di rispondere “Sì!” alla domanda di Lamartine: “Oggetti inanimati, allora avete un'anima?”. La ballerina sembra essere qui quest'anima. E benediciamo Reinoso per non aver modificato la forma umana. Non ne sarebbe infatti stato il boia e lo squartatore, come in “American Psycho"? Invece no. Se la metafora oggettuale autorizza il ritorno del rimosso umano, questo ritorno non umanizza l'oggetto reinosiano. Si traduce attraverso deformazioni, allungamenti, inversioni, complicazioni, gonfiori, annodamenti, qualsiasi formazione parassitaria di cui, lungi dal soffrire, l'oggetto sembra godere. La gloria dell'oggetto fa la miseria dell'uomo: “Libertà per gli oggetti” grida senza sosta l'arte di Reinoso. E anche, seguendo la linea di Montaigne: “Uguaglianza dei culi!”. Non c’è qui nessun culto di qualsivoglia trascendenza. Nessuna soteriologia. Né ascesi, né perdono, né redenzione. Fratellanza? Sì, quella dell'uomo con l'oggetto. Ma l'uomo dovrà pagare il prezzo della rivolta degli schiavi: è condannato ad essere lo scornato di questa storia. Circondato da utensili familiari diventati strani, si ritrova esitante. Unheimlichkeit? Sì, senza dubbio. Un sentimento di estraneità nasce nel cuore dell'intimo (heim). Ma questo mondo non ha niente di rigido o spaventoso: è soltanto messo a testa in giù, capovolto. Gli è capitato un bel patatrac. Reinoso è un artista scanzonato. Non cerca di far paura, ma di far ridere, o sorridere. Non è tragico, ma satirico. Traduzione: Edison Palomino & Alberto Tuccio. Fonte: Lacan Quotidien 510
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Agosto 2024
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