Jean-Pierre Deffieux Conferenza tenuta a Milano il 17 febbraio 2023 nell'ambito del ciclo: I venerdì milanesi di psicoanalisi e politica Il senso che l'uomo dà al mondo è stato guidato fino a decenni recenti dalle leggi universali dell’Edipo. Ci accostavamo al mondo con gli occhiali della struttura edipica, la struttura ordinata del linguaggio e delle sue leggi. L’uomo filtrava il proprio rapporto con il mondo alienandosi nel linguaggio, governato dalla metafora paterna. Una piccola parte dell'umanità rifiutava questa alienazione, si trovava di fronte alla scelta forzata di non inscrivervisi, di precludervisi. Questa scelta forzata di rifiutare l'alienazione nel complesso di Edipo e nel Nome del Padre aveva un nome, ha un nome, quello di psicosi, una via di libertà singolare. La spaccatura radicale tra questi due modi di approccio al mondo nelle nostre società è diventata ormai molto più sfumata. Edipo detta legge molto meno di un tempo, per il fatto che la funzione paterna non ha più lo stesso posto nei nostri percorsi di vita. Possiamo affidarci molto meno all'Altro o guidarci con esso per realizzare i nostri desideri e le nostre scelte. L'Altro paterno ci ha aiutato a interpretare il nostro mondo sulla base di criteri prestabiliti inscritti nella tradizione. Ci ha però al tempo stesso rinchiuso lì dentro. Senza un Altro stabilito il soggetto è perduto, resta solo a inventare, creare, trovare un’interpretazione da dare alla propria vita. Questo provoca la fioritura dei sintomi del nostro secolo: la depressione in primo luogo, l’assenza di desiderio per la vita che paralizza le nuove generazioni, e poi un secondo grande fenomeno, non senza legame con il precedente, quello della dipendenza. La maggior parte di questi giovani soggetti si difende dalla posizione depressiva attraverso comportamenti di dipendenza. Il soggetto dipendente, rinchiuso nella propria solitudine, senza legame con la vita, senza progetto, senza appoggio sul discorso dell'Altro, trova un oggetto di godimento che lo soddisfa, in modo ripetitivo e senza limiti. L'interpretazione in psicoanalisi
Dobbiamo a Freud e alla sua scoperta dell'inconscio l'interpretazione in psicoanalisi. Interpretare in psicoanalisi è svelare la parte sconosciuta e intima di noi stessi, che può essere colta solo a condizione di impegnarsi in quell'esperienza unica che è la psicoanalisi. Interpretare il proprio inconscio è entrare nel mondo dei propri desideri segreti, dei propri fantasmi ignorati, del proprio godimento inconfessabile. Per interpretare questa parte inconscia di noi stessi Lacan ci ha insegnato l'importanza di usare nel modo giusto la parola e il linguaggio, un uso che ha chiamato del dire bene. L'uso del dire bene non è dire cose interessanti, è seguire il più possibile le venature della struttura del linguaggio, le sole che aprono all’inconscio, significa rispettare le leggi del linguaggio e la sua logica, dando valore prima al significante piuttosto che alla comprensione del senso. Seguire questa via nell'esperienza analitica offre al soggetto la possibilità di accedere a un al di là del linguaggio comune che segna la singolarità del suo essere. Fino alla fine del suo insegnamento Lacan si è impegnato per individuare come, a partire dal linguaggio comune, si possa riuscire a estrarre un linguaggio che appartiene solo a sé L'interpretazione nell'esperienza analitica punta, al di là dell'interpretazione classica delle formazioni dell'inconscio, alla estrazione, a partire dal linguaggio comune, di una parola assolutamente singolare. L'interpretazione nelle psicosi Sintetizzo molto succintamente ciò che ha di mira l'interpretazione analitica nei soggetti aderenti al complesso d’Edipo e all’inconscio. Ce ne sono ancora, anche se sempre meno. Ma ci sono tutti gli altri, per i quali si pone la questione dell'interpretazione e di sapere come lo psicoanalista può posizionarsi riguardo a questi soggetti. Il termine interpretazione in psicoanalisi è adatto per le psicosi? La risposta non va da sé. L'interpretazione nelle psicosi può essere presa in considerazione solo se la si distingue radicalmente dall'interpretazione dell'inconscio nelle nevrosi. Sappiamo che nelle psicosi l'interpretazione analitica non può e non deve avere di mira l’inconscio, perché il soggetto psicotico non è alienato nell’inconscio. Nelle psicosi l'inconscio è “a cielo aperto”. Se non c'è nulla da rivelare relativamente all'inconscio, non c'è alcun senso nascosto. D'altra parte il delirio stesso è un'interpretazione, è un'interpretazione del mondo e di ciò che unisce il soggetto all’Altro. Si tratta però in questo caso di un'interpretazione realizzata dal soggetto stesso, non è un'interpretazione fatta dall’analista. È un'interpretazione singolare fatta dal soggetto fa delle questioni che il mondo gli pone. Le scuole classiche di psicoanalisi dell'IPA hanno commesso l'errore, contrastato da Lacan negli anni Cinquanta, di trasferire nella psicosi i procedimenti d'interpretazione insegnati da Freud per le nevrosi. I post-freudiani ritenevano si dovesse interpretare al soggetto il suo delirio, riferire il “senso nascosto" del delirio al vissuto del transfert e alla storia infantile. Questo "senso nascosto" poteva provenire solo dall’immaginario dell’analista, che dava il proprio senso al delirio, senza sortire alcun effetto, oppure incrementando pericolosamente il processo delirante tramite il suo arricchimento. La fonti classiche dell’interpretazione L'interpretazione nella clinica delle psicosi trova le proprie fonti nei grandi psichiatri dell'inizio del XX secolo. Penso a due grandi psichiatri, clinici notevoli: Paul Serieux e Joseph Capgras. L'opera maggiore di questi due autori si intitola Le follie lucide Dobbiamo a loro la definizione, in questo lavoro, della nozione di "delirio interpretativo", indicativo della paranoia. Già a partire dagli anni Cinquanta Lacan aveva insistito sul fatto che il soggetto paranoico ha ripetutamente bisogno di interpretare le parole e gli atti dell'Altro per trovare un significato che gli sfugge. Quando riesce a elaborare un significato stabile, che può essere definito come una metafora delirante, allora tutto il suo rapporto con il linguaggio viene orientato da questo significato delirante che dà per lui significato al suo rapporto con l'Altro e con il mondo. Serieux e Capgras avevano già avuto questa intuizione. Vorrei citare alcuni passaggi, alcune formidabili "perle" cliniche fornite da Serieux e Capgras, raccolte tra molti dei loro pazienti deliranti interpretativi: “Utilizzano i piccoli avvenimenti di ogni giorno, gli atteggiamenti, i gesti, le mimiche altrui, le conversazioni circostanti, i vari fatti riportati dai giornali e, più raramente, gli eventi storici attuali o passati. Un momento di agitazione per strada è l'indizio di un'imboscata; una macchia sui vestiti è l'oltraggio più evidente. Uno straccio, un filo sono una prova. Una coperta appesa davanti a una finestra serve solo a nascondere qualche maneggio. Il paziente dichiara che i suoi pantaloni, le sue scarpe, le sue cravatte sono stati logorati, strappati da procedimenti appositamente studiati. Esaminando la propria fotografia con una lente d'ingrandimento, il paziente scopre dei graffi: qualcuno si sta facendo beffe delle sue rughe.” Serieux e Capgras s’interessano anche all'interpretazione che viene fatta delle parole stesse: i giochi di parole, le somiglianze di suoni. Per esempio: "Per un soggetto la parola “pera” significa imbecille, per un altro la parola “gallo” significa orgoglioso, (in questi casi il senso è fisso, qualunque sia il contesto della frase, la parola si riferisce direttamente alla cosa, e non c’è nessuna metafora, nessuna dialettica). Se viene offerto del riso al paziente, è perché si "ride" di lui. Se gli si porge un metro [mètre], è perché lo si sta prendendo per un padrone [maître].” Mi fermo qui. Possiamo trovare questi esempi un po' datati, e dire che, da quando sono stati inventati i neurolettici, non si vedono più casi simili, il che non è falso. In effetti vediamo meno soggetti per i quali tutto il loro rapporto con il mondo è continuamente da interpretare, con uno sforzo e una sofferenza costanti che li invade e li sovrasta. Tuttavia il meccanismo d’interpretazione nella paranoia è sempre lo stesso, più discreto, meno continuativo, meno invasivo, più nascosto (a causa dei trattamenti farmacologici). Ma, per esempio, sotto transfert il soggetto interpretante può sempre innescare un movimento persecutorio a partire da una parola o da una frase dell'analista, interpretandola a modo suo. Si presenta nel mio studio un giovane paziente paranoide, che seguo da diversi anni, che ha nei miei confronti un transfert da cui l’erotomania non sempre è assente, ma che non lascia più trasparire alcun discorso delirante. Improvvisamente, durante il colloquio, in questo paziente sorge un'angoscia: “Perché fa così?”, quasi mi grida. Mi rendo conto che, per una vecchia abitudine, mi sono portato un dito alla bocca per mordicchiare un’unghia. Questo dito in bocca ha innescato in lui un'interpretazione erotico-sessuale al punto che il giorno dopo mi ha richiamato per chiedermi se davvero non c'era un’intenzione dietro il mio gesto. Oggi il delirio interpretativo rimane spesso soggiacente, non viene svelato dal soggetto, che non condivide facilmente le sue interpretazioni con l’analista, si presenta all'analista, mascherato. Giunge persino a confermare, dall’analista, la certezza che ha delle sue interpretazioni, senza parlargliene. Come dicevo, ogni sistema interpretativo è singolare e il soggetto in genere non ha né voglia né abbastanza fiducia per condividerlo Spetta all'analista cogliere indizi, allusioni, relazioni singolari con il linguaggio necessari per individuare un elemento interpretativo. Può trattarsi di una semplice reticenza, che può passare a lungo inosservata, o di un modo troppo sistematico di adeguarsi all'analista e alle sue parole, o anche di un transfert massiccio, può essere una sorta di ossequio che maschera la diffidenza, può assumere la forma di una seduzione insistente e troppo enfatica, fuori luogo. Tutti questi segni e molti altri possono indicare una modalità di difesa contro la confessione di un delirio o contro una sottostante dimensione interpretativa. Solo grazie a un transfert gestito con cura un soggetto che vi si è presentato in modo informale, lascerà a poco a poco intravedere alcuni meccanismi interpretativi discreti. Sta all'analista cogliere questi dettagli, questi sottintesi vaghi, ma che si ripetono. Se questo viene compreso e individuato dall'analista, un legame di transfert sufficientemente stabilito consentirà al soggetto di far affiorare poco a poco la sua singolare interpretazione del mondo, per esempio che è oggetto di un complotto internazionale contro di lui. Non succede mai che un soggetto, a meno che non si trovi in uno stato acuto che lo sovrasta, venga a consegnarvi il suo delirio "su un piatto d’argento”. Ma con un transfert ben orientato e con molta pazienza, potrà finire per lasciarsi tentare. In questi casi non è l'analista a interpretare, nel senso classico di Interpretazione analitica, ma l’analista deve trovare i mezzi per dare al soggetto la possibilità di fornire la propria interpretazione singolare del mondo. Penso a un paziente che ho visto due volte la settimana per circa dieci anni. Era un uomo borghese, molto narcisista, sulla sessantina, proprietario di un gran vino DOC di Bordeaux. Parlava solo di sé, delle sue fortune, dei suoi beni, dei suoi soldi, del suo nome. Era un po' noioso, ma mi era parso di credere che si trattasse, in un uomo benestante, di una nevrosi ossessiva grave, incrollabile e ben consolidata. E, dopo diversi anni, un giorno in cui sembrava piuttosto confidenziale con me, si è lasciato scappare, allusivamente, che gli uomini gli stringevano la mano in modo singolare. Questi gesti avevano un senso rivolto a lui. Con molta cautela ho cercato di farmi dire il senso che questo gesto aveva per lui. Dopo un bel po’ di esitazioni e di deviazioni ha finito per dirmi che era convinto di essere un oggetto di desiderio per tutti gli uomini, e che quel modo di stringer la mano aveva questo significato. Dopo di che ha potuto dispiegare poco a poco un intero sistema interpretativo molto strutturato. Questo dispiegamento discorsivo di un significato delirante sotto transfert è importante, perché ha effetti soggettivi: il soggetto saprà affrontare meglio le sue interpretazioni, ci saprà fare in modo migliore, e queste interpretazioni occuperanno meno spazio, lo angosceranno meno. Il dire può spostare la certezza. Il soggetto potrà anche finire per dubitarne approfittando di una divisione nel suo sistema, e l'analista saprà, con tatto, segnalare i suoi dubbi. Il soggetto può spingersi anche fino a chiedersi quale sia la sua parte di responsabilità in questi meccanismi interpretativi. L'analista in questi casi soprattutto non deve cercare di spiegare. Deve condurre e lasciarsi condurre. L'analista segue il filo significante del soggetto e i suoi tagli, individua i significanti che insistono, che si ripetono, che ritornano allo stesso posto e che spesso si rivelano essere i fenomeni elementari del sistema. Ricorderò qui solo il caso che ho presentato una volta alla Conversazione d'Arcachon: Un caso non così raro, dove la frase chiave del sistema interpretativo del paziente era: "Mi manca l'energia". Questa frase, del tutto comune, enunciata fin dalla prima seduta come motivo della richiesta d’analisi del soggetto, si è poi rivelata il centro di una metafora delirante cosmica che orientava la sua vita. Malinconia Vorrei ora interrogare cosa può essere di interpretazione nella malinconia. La malinconia è la sindrome del nostro secolo, e non è la malinconia romantica dell’Ottocento. Le giovani generazioni, che rischiano di non reperirsi in mancanza di riferimento al padre [en péril de re-père], che rischiano di non avere alienazione nell’Altro, che sono in crisi di riferimento, di diritto, di rispetto, di impegno, di progetto, di àncora di salvezza, questi giovani soggetti sono spesso malinconici. La malinconia è un'interpretazione del senso della vita dove la vita è come smarrita in un mondo "povero e vuoto", senza prospettive. Si potrebbe arrivare a dire che la malinconia è un rifiuto dell'esistenza. La sindrome di Cotard, che è un delirio di negazione d'organo, ora dimenticata, stigmatizzava proprio questa posizione. La dimensione del desiderio non è presente nel malinconico, e del resto neppure quella della domanda, (Il soggetto malinconico è taciturno, anzi mutacico). Non si lamenta; è in difficoltà nell’alienazione con quel significante vitale che è il fallo, ma d'altra parte è attaccato alla pulsione di morte che è il suo oggetto prediletto. La malinconia è la visione di un mondo alle prese con il reale della morte. È un delirio ristretto che assilla il soggetto, è un delirio incentrato sulla colpa primordiale di esistere. Più precisamente ancora, la malinconia è una mancanza d’esistenza che assume il valore di manchevolezza. Questa manchevolezza nella vita del soggetto prenderà la piega ripetitiva di non riuscire a superare la perdita, a volte la più banale. Il soggetto non può passare dalla perdita alla mancanza simbolica, in particolare è quasi impossibile fare un lutto. Possiamo dire che il malinconico è un interprete della vita come impossibile da sopportare. Questa totale assenza di una dimensione desiderante non incoraggia il soggetto a parlare con l’analista. Oggi, spesso, solo dopo anni di vagabondaggio negli studi, nella vita sentimentale e sessuale, nell’impossibilità di fare un passo avanti, questi giovani soggetti, poco investiti, vengono a incontrarci. Cosa si aspettano da noi? Non hanno molto da dirci, non è che non vogliano, è che sono vuoti, sono vuoti di dire. Come portarli a legare o a riconnettersi con una parola in grado di aprire una via verso il desiderio? L'interpretazione nella malinconia richiede prima di tutto che la melanconia sia reperita. La psichiatria contemporanea non sa più individuare la malinconia, come non sa più individuare la paranoia, che peraltro sovranamente ignora. Tuttavia, individuare la struttura di un soggetto significa consentirgli di farsi ascoltare nel modo giusto. L'IPA pensava, e forse pensa ancora, che gli analisti non abbiano bisogno di reperirsi nella struttura. Sosteneva che basta ascoltare il discorso del soggetto senza preoccuparsi della sua struttura per, si suppone, tenersi a distanza dalla psichiatria e dalle sue diagnosi. Non si tratta di questo. In primo luogo perché le coordinate di annodamento del transfert vanno differenziate a seconda che si tratti di un nevrotico, di un paranoico o di un malinconico. La cura analitica di un soggetto deve essere orientata, anzi diretta, scriveva Lacan nel suo testo La direzione della cura del 1958, e l'interpretazione comincia nella pratica con un sottile reperimento della struttura. Nella malinconia ci sono episodi maggiori, quelli che leggiamo nei manuali di psichiatria, quelli che incontriamo anche nella nostra pratica, con un importante rischio di suicidio, ma oggigiorno s’incontrano più frequentemente quelle che chiamerò "posizioni malinconiche", modi singolari di rapportarsi alla vita o, meglio, all'impossibilità di vivere. Anche in questo caso spesso sono i dettagli a guidarci, dettagli che connotano la fondamentale disattivazione del desiderio. Come collegare questi soggetti a un interesse per la parola, per il discorso, per il legame con l'altro, per il transfert, questi soggetti spesso quasi mutacici e connessi alla pulsione di morte? Penso ci si debba rivolgere al soggetto e parlargli, ancora e ancora, interessarsi alla sua storia, di cui non parla o di cui parla poco, riprendere il filo della sua vita, individuare le perdite che ha subito e che ha avuto difficoltà ad affrontare, individuare i contorni dei traumi infantili che rimandano alla colpa primordiale di esistere. Interpretare la malinconia significa permettere al soggetto di individuare i fondamenti che gli mancano, di individuare i contorni simbolici del vuoto. L'analista deve dargli la possibilità di interagire con il linguaggio a partire dai significanti che possono riguardarlo. È il vostro interesse ostinato per la loro storia, la vostra lotta contro la loro stagnazione, che può dar loro la possibilità di iniziare a trovare un minimo di interesse nella loro vita. La malinconia è difficile da sopportare per l’analista, perché questi soggetti sono un peso morto, incastrati nell'inerzia. L'analista in questi casi deve dare molto di sé, molta presenza, misurando sempre il rischio, spesso minaccioso, di suicidio. Per questo frequentemente si consiglia un'assistenza istituzionale che protegge il soggetto dal passaggio all’atto, ma che può anche portare, se ben gestita, un'interpretazione (a più voci) del vuoto dell’esistenza nel malinconico. Bisogna darsi tempo, tutto il tempo necessario per instaurare un transfert solido che possa dare al soggetto un minimo di voglia di dire. Occorre quindi saper sopportare il silenzio e saper portare significanti atti a delimitare il vuoto che immobilizza il soggetto. È stato Freud a insegnarci che nella malinconia "l'ombra dell'oggetto cade sull'io", questo vuol dire che l'io immaginario scompare di fronte all'oggetto reale. Di fronte al reale della morte, il soggetto non è più sostenuto dal registro dell'immaginario, non è più sostenuto dal fantasma. Si trova di fronte al reale della pulsione di morte e può passare all’atto Ci si stupisce, in questi giovani soggetti a corto di proiezione, accorgendosi spesso della povertà del loro immaginario, dell'assenza di uno scenario fantasmatico. Hanno poco interesse per una proiezione idealizzata della loro immagine. Il loro corpo è piuttosto il luogo di una marcatura, intaccato nel reale, per esempio con tatuaggi, piercing, buchi, cambiamento di genere spesso più distruttivo che di rinforzo narcisistico. È il motivo per cui in questi casi va assecondata ogni possibilità di aggancio a un elemento dell'immaginario, a un elemento di sublimazione, affinché il soggetto possa difendersi dal reale mortifero che lo perseguita, e possa trovare una parvenza d’illusione. Vorrei infine affrontare la questione dell'interpretazione del senso di colpa nella malinconia. Il soggetto malinconico non è colpevole, è manchevole. Il senso di colpa è un'interpretazione simbolica della manchevolezza, è ciò a cui il soggetto malinconico non ha accesso. L'unica interpretazione possibile della manchevolezza nel malinconico passa attraverso la pulsione di morte: consiste nel pagare nel reale il prezzo della sua vita. Ecco perché non ha senso decolpevolizzare il malinconico: dirgli che no, non è in rovina, no, non ha fatto niente di male, se la cava anzi abbastanza bene nella vita, che le sue sono solo idee, ecc. Al contrario, con tatto e moderazione, è meglio trovare il modo di rivolgersi alla manchevolezza che lo riguarda e non al senso di colpa, al quale non ha accesso. Anche in questo caso è essenziale reperire la struttura. Decolpevolizzare può solo aumentare il senso di manchevolezza. Interpretare la schizofrenia? Affrontiamo ora la delicata questione dell'interpretazione nella schizofrenia. Lo schizofrenico si specifica per il fatto che non può difendersi dal reale con il simbolico, con il linguaggio, poiché per lui tutto il simbolico è reale. (Jacques-Alain Miller 1981) La parola e il linguaggio hanno scarso valore interpretativo nella schizofrenia. Se c'è una possibilità di intervenire è innanzi tutto e sempre stabilendo un transfert. Ma quale transfert? il soggetto schizofrenico è caratterizzato per il fatto di non essere alieno da affetti. Il suo unico affetto è l’angoscia, che non è sempre presente e non è facilmente utilizzabile. Bisogna capire che nel soggetto schizofrenico il transfert non è un legame simbolico, è un legame reale, un legame che tiene solo attraverso la presenza reale dei corpi. Per questo gli incontri con l'analista sono generalmente brevi, e si riducono alla ripetizione stereotipata di una parola povera, quando c'è parola. Non bisogna tuttavia sottovalutare, la forza di questo transfert, anzi. Ce ne si accorge durante le separazioni, anche brevi. I legami, quando si stabiliscono, diventano immutabili, il soggetto trova un punto di stabilità grazie all'incontro reale ripetuto, ancora e ancora, sostenuto dall'analista, nel corso degli anni. Se l'analista lascia andare, il soggetto crolla in ogni senso che si può dare a questo termine, fino al suicidio improvviso, senza preavviso e senza poterlo cogliere. Penso a un soggetto schizofrenico, quasi mutacico, molto ansioso che ho seguito di recente in clinica. L'avevo visto tutti i giorni per diverse settimane in un tempo brevissimo durante il quale rimaneva in silenzio, sussurrando in modo reticente un sì o un no alle mie poche domande. Sono partito per una quindicina di giorni in ferie e ho saputo, al mio ritorno, che aveva cominciato a cadere quotidianamente non appena ero partito, al punto che gli psichiatri che mi sostituivano avevano pensato a una sindrome neurologica. Appena rientrato, e alla ripresa dei nostri incontri quotidiani, le cadute sono cessate. La mia partenza aveva comportato per lui un taglio nel reale, un taglio tra i corpi, e nessun simbolico poteva prenderne il posto, non poteva istituirsi nessuna mancanza. La risposta al taglio è stata uno sprofondamento reale del corpo. Tutto questo senza che il paziente potesse dirne una sola parola. L'istituzione orientata dall'insegnamento di Lacan (ne sono rimaste poche) sa che il transfert per il soggetto schizofrenico può stabilirsi solo a partire da un desiderio deciso e tenace di tutti i curanti. Lo schizofrenico non si rivolge al soggetto supposto sapere dell'istituzione e dell’analista. È l'istituzione che deve creare, provocare, direi addirittura produrre il transfert, che deve trovare il filo per agganciare il soggetto alla deriva e sostenerlo. È tutto un modo di presa in carico di cui non posso parlare qui se non per dire che riguarda il fare molto di più del dire, il fare quotidiano che per questo tipo di soggetti è una grande difficoltà, il fare della creazione, dalla trovata, quando possibile. Solo un esempio: una quindicina di anni fa, una ragazza di vent'anni è entrata in clinica, si è buttata dal secondo piano del centro di riabilitazione in cui si trovava. Ha riportato diverse fratture, si trovava in uno stato di angoscia e di estremo delirio interpretativo. Rimane in clinica per quattro anni. Si svolge un lungo e paziente lavoro con stabilizzazione finale notevole e duratura. Ancora oggi, la vedo tutte le settimane, conduce una vita che si potrebbe dire normale, vive da diversi anni in un appartamento con un compagno, anche lui psicotico. Uno degli elementi principali del suo progresso è stato il mosaico. Ha scoperto il laboratorio di mosaico presso la clinica, si è appassionata a questo esercizio ed è diventata una vera e propria professionista del mosaico. Continua a praticarlo e vende vari oggetti fatti da lei che vanno dai gioielli ai tavolini. È riuscita così a riunire, grazie a questo artigianato creativo, i pezzi sparsi e traumatici della sua storia che la tenevano in un'angoscia permanente. L'interpretazione borromea Bisognerebbe poter dire molto di più sull'interpretazione nelle psicosi, in particolare bisognerebbe avvicinarsi all'interpretazione nelle psicosi a partire dalla clinica borromea, l'ultima clinica di Lacan. Non è la scelta che ho fatto oggi, anche se ho sempre in mente, sullo sfondo, la clinica borromea. Che ne è dell'interpretazione con la clinica borromea? L'interpretazione potrebbe consistere nell’accompagnare un soggetto sulla via di inventare un mezzo o dei mezzi per riparare gli errori del nodo RSI, permettendogli di tenere nell'esistenza. Sarebbe allora adeguato usare ancora il termine interpretazione? Non ne sono sicuro, a meno che non si consideri che l’individuazione degli errori nel nodo da parte dell'analista non rientri in una modalità interpretativa capace di tracciare una strada per il soggetto.
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