Conferenza tenuta a Milano il 1 dicembre 2024 presso l'Istituto freudiano Clotilde Leguil Perché mi sono interessata al termine “tossico”, che si è diffuso nei nostri discorsi oltre i confini linguistici? Cosa mi ha spinto a innalzare questo termine a nuova metafora, a fenomeno discorsivo da interpretare? La mia ipotesi era che la parola “tossico” permettesse di cogliere i termini attraverso i quali si formula il disagio della civiltà del nostro tempo. Per questo ho scelto come sottotitolo “Saggio sul nuovo disagio della civiltà”. Per cominciare, vorrei dire che mi sono interessata al termine "tossico" sulla scia del mio saggio sul consenso, “Céder n'est pas consentir” (PUF, 2021). Attraverso questo significante del nostro tempo, ho visto la formulazione di una nuova forma di esperienza, quella della cosiddetta esperienza “tossica”. Questa esperienza soggettiva, esistenziale, psichica, mi sembrava rimandare a una nuova dimensione del soggetto, nella misura in cui il soggetto contemporaneo si formula a partire dall'esperienza del corpo, dal rapporto con il vivente, dal rapporto con le pulsioni. Ho anche interpretato il termine “tossico” come una nuova modalità di angoscia del XXI secolo. In sostanza, ho preso sul serio l'invito rivolto da Lacan all’analista nel 1953, alla fine di Funzione e il campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, a “inserire nel suo orizzonte la soggettività del suo tempo (1)”. L'analista è invitato a conoscere “le volute in cui la sua epoca lo trascina in un continuo lavoro di Babele (2)” e a conoscere "la sua funzione di interprete nella discordia dei linguaggi (3)”. Tre osservazioni preliminari sul tossico
Inizierò con tre osservazioni preliminari sul tossico: il tossico come nuova forma dell’esperienza, il tossico come nuova dimensione del soggetto, il tossico come nuovo approccio all’angoscia. Una nuova forma di esperienza Considero che con l’introduzione nella nostra lingua del termine “tossico”, come anche con l’introduzione di questo termine nella molteplicità delle lingue, viene designata una nuova forma dell’esperienza. Sì, una nuova forma dell’esperienza, perché l’esperienza detta “tossica” comporta un nuovo tipo di veleno, una sostanza misteriosa e un pericolo che riguarda sia l'intimo sia il collettivo. Si parla di esperimenti tossici nel campo dell’intimità, e di sfruttamento tossico delle risorse del pianeta nel campo dell'ecologia e dell'etica. Nel mio saggio Céder n'est pas consentir (Cedere non è acconsentire), ho esplorato quelle che oggi chiamiamo le “zone grigie” del consenso. Volevo far luce su queste torbide modalità dell'esperienza soggettiva nella relazione con l'Altro, modalità oscure in cui il soggetto non sa più se ha acconsentito o meno, in cui il soggetto non sa più se si è lasciato fare volendo veramente ciò che gli è accaduto, o se si è costretto a fare ciò che non desiderava in nome di una legge, di un principio, di una richiesta che gli sfugge. Ho voluto quindi fare luce su queste esperienze, in cui il soggetto si trova di fronte all'enigma di ciò che è accaduto quando è stato messo in gioco il suo consenso o, talvolta, quando quel consenso è stato forzato. Ho voluto esplorare l'oscurità insita nell'esperienza soggettiva quando questa coinvolge il desiderio e il godimento. Queste esperienze travagliate riguardano sia l'intimo sia il politico. Il consenso è la nozione a partire dalla quale i filosofi del contratto sociale – Rousseau in primis – hanno concepito il riconoscimento di un'autorità legittima. Il problema della forzatura del consenso può sorgere anche all'interno di regimi che strumentalizzano il consenso e cercano di imporre il potere strappando il consenso ai cittadini. Nel 1951, in L'homme révolté, Albert Camus parlava di “ideologie del consenso” in relazione ai regimi totalitari che impiegano “tecniche private e pubbliche di annientamento (4)”. Consenso, insomma, alla propria umiliazione, consenso a tradire il proprio desiderio, consenso a contribuire in prima persona al proprio annientamento soggettivo. Ma torniamo all'intimità e alla psicoanalisi. Per cercare di chiarire il confine tra “cedere” e “acconsentire", ho dovuto iniziare facendo riferimento al modo in cui Lacan usa il verbo “cedere” nel seminario su L'angoscia nel senso di “cedere alla situazione”. “In questo confronto radicale e traumatico, il soggetto cede alla situazione (5)”, dice Lacan a proposito del trauma. Nel tentativo di chiarire il confine tra "cedere alla situazione" e acconsentirvi, ho dovuto distinguere tra diversi gradi del “lasciarsi fare", gradi che possono essere definiti solo dalla finezza dell'approccio psicoanalitico. Questi gradi, che ho posto come tre, sono: il “lasciarsi fare” consenziente, il “lasciarsi fare” per angoscia e il “lasciarsi fare” traumatico, sotto l'impatto di un'irruzione di godimento. Il "lasciarsi fare" consenziente è un'esperienza di abbandono di sé a favore dell'Altro nell'incontro amoroso e sessuale. Annie Ernaux ne dà un resoconto quasi clinico nel suo racconto Passione semplice (6). Questo primo grado non è né forzatura né trauma. È apertura all'altro e consenso a lasciarsi attraversare dalla contingenza. Potremmo parlare, secondo lei, di “semplice consenso”, la pura esperienza dell'incontro come luogo di trasformazione dell'essere. La seconda grado, “lasciarsi fare dall’angoscia", non è ancora il trauma, ma ci stiamo avvicinando al confine. Il soggetto si lascia fare, senza acconsentire realmente, ma sotto l'effetto dell'angoscia suscitata dal desiderio dell’Altro. Cosa vuole veramente? Cosa vuole da me? Cosa vuole in me? Uso il personaggio di Camille, interpretato da Brigitte Bardot, nel film Le Mépris (1963) di Jean-Luc Godard. Camille si lascia fare. Accetta di salire sull'auto del produttore, mentre Paul finge di non sapere cosa sta per accadere. Camille si lascia fare, solo per scoprire cosa rappresenta per Paul. Alla fine disprezza Paul e può lasciarlo. È riuscita a interpretare la propria codardia e a trasformare in atto il suo “lasciarsi fare". Infine, l'ultima fase del “lasciarsi fare" che ho isolato, corrisponde al superamento del confine tra "consenso" e "cedimento", dove si esercita una forzatura sul corpo. Analizzo questo ultimo grado sulla base dell'esperienza psichica e sessuale traumatica che Freud ha definito essere all'origine della psicoanalisi. Utilizzo il caso Emma (1897), di cui si può leggere nel carteggio con Wilhelm Fliess. Il caso Emma mostra i postumi di una forzatura traumatica: pietrificazione, amnesia, confronto con un inarticolabile. Che dire allora della cosiddetta esperienza tossica? Mi è sembrato indicare un'altra dimensione del "lasciarsi fare", un basamento della relazione con l'Altro, un luogo al di qua di ogni consenso, un luogo in cui il soggetto si lascia intossicare dalle parole, da un incontro, da una modalità di godimento, senza cogliere ciò che sta immettendosi nel suo corpo. Questa intossicazione lo porta, in una seconda fase, a non potersi liberare o separare da ciò che lo ha avvelenato. Il veleno è questa strana sostanza che circola ora nelle sue vene, una sostanza fatta di discorsi e di godimento, una sostanza che al tempo stesso lo turba e lo consuma, una sostanza che è in lui ma non è lui. Una nuova dimensione del soggetto Ad attirare la mia attenzione, nella cosiddetta esperienza tossica, è stata la dimensione del soggetto. Il mio saggio non tratta delle cosiddette personalità tossiche, né fa rimanda il “tossico” dalla parte dell’altro. Propongo un approccio antipsicologico al tossico. Propongo un approccio basato sul soggetto e sulla strana esperienza di godimento che il termine tossico designa. Il soggetto che traversa un'esperienza tossica, o che vi si smarrisce, è un soggetto che “s'innesta sul corpo”,(7) come diceva Lacan dell'inconscio in Televisione. Non è semplicemente un soggetto della parola e del linguaggio. È un soggetto che risente di ciò che accade nel suo corpo, un soggetto che non vede più con chiarezza e che si sente intrappolato in una modalità di godimento in cui il suo desiderio è rimasto intrappolato. Questo nuovo soggetto, è l'ipotesi che propongo, è il soggetto che Lacan ha potuto chiamare nel 1969 il soggetto del godimento (8). Si stabilisce così una differenza insanabile tra “il soggetto del godimento e quel che chiama il soggetto diviso dalla marca (9)”. Il soggetto del godimento, non è il soggetto definito dalla catena significante, è il soggetto che s’innesta sul corpo. È un soggetto che si riferisce alla "fase sensibile dell'essere vivente", la fase sensibile che Lacan ha definito nella conferenza di Baltimora del 1966 come “la cosa insondabile capace, tra la nascita e la morte, di fare esperienza, capace di attraversare tutto lo spettro dal dolore al piacere che in francese chiamiamo il soggetto del godimento (10)”. Una nuova forma di angoscia , Questa esperienza "tossica" può essere infine interpretata come una nuova forma di angoscia, angoscia reale o angoscia tossica (11) come già la chiamava Freud in riferimento alla prima angoscia, quella dell'asfissia, quella della nascita, quando l'essere che viene al mondo sperimenta una costrizione, una prima angoscia. Riferendosi a questo primo stato di angoscia che mette in gioco i viventi, Freud scrive che “la causa della sensazione di angoscia è l'interruzione del rinnovamento del sangue (della respirazione interna): la prima angoscia è stata quindi di natura tossica (12)”. L’angoscia espressa dal termine "tossico" oggi segnala un pericolo. E questo pericolo potrebbe avere a che fare con la paura primordiale dell'irrespirabile. La mia ipotesi è che il termine "tossico" sia il segno di un'esperienza pulsionale che mette in pericolo il vivente. Dire "è tossico" non significa dire che "è troppo”?. Quando diciamo "è tossico", non stiamo forse cercando di porre un limite a ciò che è in eccesso? Quando diciamo "è tossico", non stiamo forse cercando di identificare ciò che ci minaccia, in un momento in cui nessuno sa cosa sia il bene o il male? Dire "è tossico" non è forse un tentativo di formulare un limite al godimento? Dire "è tossico" non indica forse il desiderio di un nuovo respiro? Io direi che il termine "tossico" ci invita a riformulare ciò che sarebbe il male, a partire dal vivente, per affermare la necessità di non costringere il vivente a godere al di là di ciò che è vivibile. La mia ipotesi è che il termine "tossico" si sia imposto nella nostra lingua nello stesso momento in cui la dimensione dell'eccesso di godimento propria di una nuova modalità del Super-io contemporaneo, definita da Lacan nel 1972 come un Super-io che "costringe a godere” (13) ha rivelato i suoi effetti nocivi. Questa angoscia non ha nulla a che vedere con l'angoscia degli esistenzialisti, l'angoscia kierkegaardiana di fronte alla libertà, l'angoscia heideggeriana di fronte all'essere-per-la-morte, l'angoscia sartriana di fronte al nulla. Ha a che fare con l'angoscia lacaniana. L'angoscia espressa dal tossico è un'angoscia di fronte alla pulsione scatenata, un'angoscia di fronte all’eccesso di godimento, un'angoscia che esprime l'hybris del godimentoolto. Un nuovo momento Questo mi porta al punto cruciale della mia argomentazione in "L'era del tossico" (2023). Perché parlare dell'era del tossico? Prendo innanzitutto atto del modo in cui questo termine è entrato a far parte del nostro discorso quotidiano, sia in ambito privato sia pubblico. Amori tossici, ossessioni tossiche, eredità tossiche, gestione tossica: sono solo alcuni dei modi in cui viene usato il termine tossico, riflettendo un nuovo modo di esprimere ciò che suscita angoscia nel nostro rapporto con l’altro. La nuova estensione di questo termine all'incrocio tra l'intimo e il politico, che può essere trovato sul piano della vita amorosa e sessuale, come su quello dell'ecologia, indica anche che siamo in un nuovo momento della civiltà. Se ai tempi di Freud il disagio si esprimeva in termini di pulsione di morte, inibizione, sintomi e angoscia, oggi si esprime in termini di ciò che si dice essere tossico. Parlare di un nuovo momento significa considerare che abbiamo a che fare con un nuovo tempo logico, nel senso che Lacan distingueva tre tempi logici. È un momento logico in cui affiorano retroattivamente gli effetti di un altro momento, quello degli anni Settanta, quello della liberazione del godimento, quello della speranza riposta nella protesta contro la repressione e in un godimento libero che sarebbe stato l'effetto dell'immaginazione al potere e anche della liberazione del desiderio. Siamo arrivati a un altro punto in cui ci rendiamo conto che se seguiamo solo il godimento, ci scontriamo con qualcosa di tossico. Non distinguendo tra godimento e desiderio, ci smarriamo nell'esperienza di un nuovo tipo di veleno. Parlare di un momento significa, infine, anche considerare che un problema etico e politico è stato formulato in termini nuovi. Tossico" esprime quel che mette in pericolo il vivente, perché è un termine che si riferisce a tutto ciò che che avvelena il corpo rendendo fragile il vivente. È una nuova estensione di un termine che si è imposto nella nostra lingua e che merita di essere preso sul serio. Anche Jacques Lacan sosteneva che esiste un solo tipo di linguaggio, "il linguaggio concreto parlato dalla gente (14)”. Ebbene, nel linguaggio concreto del nostro tempo, c'è il tossico per dire l’angoscia. Una nuova metafora Degno di nota, e questo è anche uno dei punti di partenza del mio saggio, è che tra il XX e il XXI secolo il termine "tossico" ha cambiato senso. Mi sono interessata a questo cambiamento, a quella che io chiamo anche una nuova metafora. Se guardiamo la storia della parola stessa, possiamo distinguere tre periodi a partire dal XIX secolo. Ai tempi di Baudelaire, e ancora in quelli di Freud, i tossici, al plurale designano le sostanze stupefacenti. Baudelaire ha fatto del vino e dell'oppio i fiori del male, paradisi artificiali che ci permettono di sopportare il reale. Voluttà dei dolci veleni, che ci inebriano e ci danno sollievo. Proprio all'inizio de Il disagio della civiltà, Freud cita le sostanze tossiche (15) come degli scacciapensieri, Sorgen-brecher, che leniscono il dolore aggirando lo psichico e agendo immediatamente sul corpo. "Il metodo più brutale, ma anche più efficace, per ottenere tale influenza (per evitare la sofferenza) è il metodo chimico, l’intossicazione (16). Freud ne vanta gli effetti, sottolineando al contempo la pericolosità delle sostanze tossiche come rimedio al disagio. Nel XX secolo, in seguito al progresso industriale e alla produzione di nuove sostanze chimiche che avrebbero dovuto migliorare la vita quotidiana (come il Teflon e il PFOA), l'aggettivo tossico è stato utilizzato per descrivere gli effetti nocivi di un'industria che viola la diversità dei viventi, mette in pericolo la salute e soffoca letteralmente le popolazioni. Annie Ernaux cita in Les années che questa espressione: "è tossico” (17) è apparsa nei discorsi sull’ecologia negli anni '70. Ma nel XXI secolo c'è stata una svolta. Si parla del tossico al singolare. Il termine viene allora usato come sostantivo per designare il rapporto con l'altro, all'effetto prodotto da discorsi che ci avvelenano, alla dimensione angosciante e pericolosa di certe relazioni, al disagio nel legame con gli altri. Il tossico non rimanda più a una sostanza prodotta da estratti vegetali, come gli stupefacenti (ricavati dalla coca o dai papaveri). Non si riferisce più agli effetti inquinanti di una produzione industriale indifferente all'ambiente. Si riferisce all'aria dell'altro, quella che respiriamo, come Lacan diceva a proposito della nascita (18), si riferisce all'esperienza che il soggetto può fare nel sentirsi avvelenato da una sostanza misteriosa, fatta di parole e cose, di discorsi e di affetti, della presenza dell'altro e dell’effetto a posteriori di un incontro. La tossicità parla di una nuova forma di contaminazione attraverso il rapporto con l'Altro, quando questo convoca un’esigenza di godimento che rende fragile il desiderio. Mi interessa questa nuova metafora che, è questa metafora che cerco di decifrare dandole peso e considerando che il termine "tossico" non si è imposto nella nostra lingua per caso. Questo mi porta all'archeologia del tossico, all'archeologia a cui si può tornare per cogliere l'origine di questo termine, il suo luogo di nascita e il modo in cui ha viaggiato nel tempo per entrare nella lingua dei soggetti del XXI secolo. Il tossico, nella sua accezione metaforica contemporanea, deve forse più all'antichità greca che ai secoli precedenti. Per i greci, il toxikon designa un veleno violento usato dai barbari nella caccia e nella guerra. Essi impregnano le loro frecce con un veleno che, una volta entrato nel corpo della preda, si diffondeva così rapidamente che la carne andava rapidamente in putrefazione. In un testo attribuito ad Aristotele, si dice che i Celti si affrettavano a mutilare la parte avvelenata per evitare che la carne si putrefacesse. Si dice anche che si cercava un possibile antidoto a questo veleno e che un corvo era stato visto mangiare una foglia di quercia dopo essere stato avvelenato e che era guarito. Che cosa deve la nostra esperienza tossica contemporanea all'antico toxikon? Direi che l'esperienza tossica è quella che si riferisce all'effetto prodotto dalla freccia avvelenata dell'altro. Qualcosa come una freccia impregnata di un oscuro veleno viene conficcata nella nostra carne, e una volta che il veleno si è diffuso nel corpo, il soggetto è in pericolo. Non può mutilare la parte avvelenata. Lacan nel 1959 parla di mutilazione (19) come di un atto dell'animale per salvarsi dal pericolo, e testimonia che la mutilazione nell'esperienza traumatica umana non è possibile allo stesso modo. Si chiede: “In che modo gli esseri umani si difendono in modo diverso dagli animali che si automutilano? (20)”. La questione è come separarsi dagli effetti dell'esperienza tossica. In un certo senso, si tratta di separarsi da una libbra di carne, da un pezzo di investimento libidico, da un pezzo di corpo intossicato, da una parte di godimento. Per concludere questa esplorazione archeologica, vorrei infine aggiungere che tossico è un termine che si trova anche al centro della mitologia. A questo proposito, il mito di Eracle è costruito interamente intorno al tossico. Alla fine della sua vita, Eracle ha indossato una tunica intossicata dal centauro Nesso. Questa tunica era impregnata del veleno delle sue stesse frecce, il veleno che aveva raccolto sconfiggendo il mostro noto come Idra di Lerna, un mostro dall'alito tossico, secondo Apollodoro. Una volta che indossata la tunica di Nesso, donatagli dalla moglie senza sapere che era avvelenata, Eracle non può più toglierla. Se la toglie, infatti, brandelli di carne si staccano insieme alla tunica. La tunica avvelenata gli si attacca alla pelle. Anche in questo caso, il significato attuale della parola "tossico" può essere chiarito da questo mito, che si trova anche in Ovidio. L'esperienza tossica è quella che si ci attacca alla pelle, come una tunica avvelenata che ha impregnato la nostra carne. L'esperienza tossica ci penetra nel corpo e ci mette in pericolo. Solo una metamorfosi ci permetterà di sfuggirvi. Solo cambiando il nostro rapporto con il godimento possiamo ritrovare il filo del desiderio. Un’interpretazione psicoanalitica del tossico Questo mi porta al cuore del mio libro, ossia all'interpretazione psicoanalitica della tossicità come esperienza di godimento sconvolto. L'esperienza tossica, quella che ogni soggetto può avere quando cede a un godimento eccessivo che mette a rischio il suo rapporto con il desiderio, è infatti quella che può essere spiegata a partire dalla dimensione del Super-io. Ma attenzione: non si tratta di un appello al Super-io come rimedio al tossico, bensì la di mostrare che l'esperienza tossica si riferisce a una nuova modalità del Super-io esplorata da Lacan negli anni Sessanta. A questo proposito, lo scritto del 1963 "Kant con Sade" è cruciale per decifrare l'esperienza tossica come esperienza di godimento che mina il desiderio. Questo scritto, che era inteso come prefazione alla "Filosofia nel boudoir" di Sade appare nuovamente attuale in relazione alla tossicità del nostro tempo. Immergersi nell'esperienza tossica significa anche interrogarsi su ciò che accade dal punto di vista del godimento in termini di messa in pericolo del desiderio. In effetti, immergersi nell'esperienza tossica significa anche interrogarsi su questa forzatura del godimento che viola il consenso, che lo annienta trascinando con sé il soggetto del desiderio, la metonimia dell'essere del soggetto, che è il desiderio. Rileggerò "Kant con Sade" a partire dall'esperienza tossica come uno sforzo proposto da Lacan per far emergere il volto sadiano del Super-io come Super-io del godimento. Per proporre una lettura drammaturgica, partiamo da quello che Freud ha chiamato nel 1920 l'al di là del principio di piacere. Come rispondere alla coazione a ripetere, per via della quale ogni ricerca del piacere non conduce all'armonia dei piaceri, ma a un al di là e a una forzatura che porta a una deriva verso la pulsione di morte? Una volta compreso che la richiesta di provare piacere non porta a nessun bene, e che se non è regolata da qualcos’altro porta alla pulsione di morte, come rispondiamo a questo "al di là del principio di piacere”? Si potrebbe pensare che la risposta debba essere il Super-io. Si potrebbe pensare che la risposta stia nella severità del Super-io, che ci ordina di sacrificare sia il piacere sia il desiderio in nome del dovere morale. Questa è la soluzione kantiana. È quella che Kant, prima di Freud, ha attuato nella sua morale affermando il dovere di obbedire all'imperativo categorico, quello che impone di sottomettersi alla legge della ragione, per agire moralmente, in nome di un universale. Ma la lettura sovversiva di Lacan nel 1963 (che possiamo già vedere formulata nel 1958 nel Seminario VII, dove Lacan mette insieme la legge morale e das Ding, la Cosa), consiste nel portare alla luce una punta di crudeltà in questa morale kantiana. In effetti, si tratta di non tenere mai conto delle proprie inclinazioni, dei propri interessi particolari e, in definitiva, del proprio vero desiderio. Si tratta di sacrificare tutto ciò che ci sta a cuore, anche a costo di provare un pizzico di dolore (un affetto che dimostra la bontà della nostra azione) per agire solo dal punto di vista dell'universalità della legge. In altre parole, dobbiamo sempre sacrificare l'oggetto del nostro desiderio. La morale di Kant è senza oggetto. L'assenza di oggetto è un modo per controbilanciare le inclinazioni. Non si tratta di un dilemma tra più cause alla maniera del dilemma corneliano tra amore e dovere. Non si tratta di un conflitto tragico. Si tratta di “contrastare il peso (21)», cioè di eliminare qualsiasi oggetto dalla bilancia ,e di lasciare che le inclinazioni pesino da una parte da sole, per dissolversi nell'intelligibilità della legge morale. Lacan ci mostra che questa dimensione del Super-io kantiano è perfettamente analoga all'imperativo sadiano del godimento: anch’esso ordina il sacrificio di tutte le inclinazioni, di tutte le passioni, in nome del dovere di godere. In sostanza, al dovere kantiano di sacrificare il desiderio corrisponde il dovere sadiano di godere senza limiti. “Ho il diritto di godere del tuo corpo, può dirmi chiunque, ed eserciterò questo diritto senza che nessun limite mi fermi nel capriccio delle esazioni che voglio soddisfare (22)”, afferma la massima sadiana, riformulata da Lacan. Il Super-Io, nella sua versione sadica, rende dunque il godimento un'ingiunzione tanto imperativa quanto quella della legge morale: non tollera eccezioni, deviazioni o fallimenti dal punto di vista del godimento stesso, ci costringe a godere, ancora e ancora. Questa meravigliosa lettura del Super-io come luogo stesso da cui si formula un imperativo di godimento mi sembra uno strumento prezioso per decifrare la tossicità del nostro momento. L'esperienza tossica è infatti quella in cui il soggetto si sente preso quando si attiva in lui un imperativo di godimento che gli ordina di sacrificare tutte le inclinazioni, tutto ciò che gli è caro, tutto ciò a cui potrebbe dare peso nella sua esistenza. Il Super-io che qui chiamo tossico, il Super-io del nostro momento, è più simile a un Super-io sadico che a un Super-io kantiano. È quello che ci ordina di godere sempre di più fino a perderci nella tossicità del godimento estremo. La questione dell'antidoto, la via del desiderio Che cosa può controbilanciare questo Super-io tossico, il Super-io al di là del principio di piacere, il Super-io che Lacan definisce a partire dall'imperativo sadiano del godimento? Non si tratta di tornare alla morale kantiana, cioè alla repressione del godimento. Abbiamo visto con Lacan che, fondamentalmente, la morale kantiana e l'imperativo sadiano sono due facce della stessa medaglia. L'antidoto, quello che gli antichi cercavano in natura quando un animale era avvelenato dal toxikon, è la metamorfosi, e più precisamente la metamorfosi del desiderio, la metamorfosi prodotta dal desiderio. Solo il desiderio può sbarrare la via al tossico. Solo il desiderio può permettere al soggetto di non cedere alla tossicità del godimento. Solo il desiderio può togliere peso al godimento, non controbilanciando il godimento forzato con un'altra forzatura, quella della repressione, ma introducendo la necessità vitale della mancanza d’essere per desiderare, affermando l'urgenza di non cedere al proprio desiderio, per non scomparire dietro le esigenze della pulsione. Solo il desiderio può disintossicarci da queste parole, da queste esperienze di godimento, da queste coercizioni del consenso, che hanno danneggiato il nostro rapporto con il vivente. Per questo l'esperienza analitica può essere concepita come una cura della parola, ma anche come una cura per la disintossicazione attraverso la parola, che permette al desiderio di farsi strada nella nostra esistenza. Solo prestando nuova attenzione al mormorio del desiderio possiamo liberarci dai comandamenti del Super-io. Se alcune parole hanno segnato il nostro destino e hanno agito in noi come una freccia avvelenata impregnata di toxikon, altre parole possono diventare pharmakon. Altre parole possono circolare nelle nostre vene e aiutare gradualmente, come diceva Freud, a eliminare il veleno (23). Altre parole possono spianare la strada al desiderio e condurci alla metamorfosi. Esplorando quel che Lacan chiamava l'oscurantismo specifico della parola, e quel che potremmo anche chiamare l'oscurantismo specifico dell'esperienza di intossicazione da parte del Verbo, possiamo allora delicatamente eliminare il veleno e consentire la metamorfosi. 1 Lacan J., « Fonction et champ de la parole et du langage en psychanalyse », Ecrits, Champ freudien, Seuil, 1995, p. 321. 2 Ibid. 3 Ibid. 4 Camus A., L’homme révolté, Gallimard, Folio essais, 1985, p. 308. 5 Lacan J., Le Séminaire, livre X, L’Angoisse, texte établi par Jacques-Alain Miller, Champ freudien, Seuil, 2004, p. 361. 6 Ernaux A., Passion simple, Gallimard, folio, 1991. 7 Cf « Le sujet de l’inconscient, lui, embraye sur le corps », Lacan J., Télévision, Champ freudien, Seuil, 1974, p. 60. 8 Lacan J., Le Séminaire, livre XVI, D’un Autre à l’autre, texte établi par J.-A. Miller, Champ freudien, Seuil, p. 141. 9 Ibid. 10 D’après Lacan, « Conférence à Baltimore », 1966, La Cause du désir, n°94, p. 15. 11 Freud S. , Introduction à la psychanalyse, trad. S. Jankélévitch, « L’angoisse », p. 377, Petite Bibliothèque Payot. 12 Freud S., ibid., p. 374. 13 Cf « Rien ne force personne à jouir, sauf le surmoi. Le surmoi, c’est l’impératif de la jouissance – Jouis ! », Lacan J., Le Séminaire, livre XX, Encore, texte établi par J.-A. Miller, Champ freudien, Seuil, p. 10. 14 D’après Jacques Lacan, Conférence à Baltimore, 1966, La Cause du désir n°94, p. 9. 15 Freud S., Le Malaise dans la civilisation, trad. B. Lortholary, Points Seuil, p. 66. 16 Freud S., ibid., p. 66. 17 Ernaux A, Les années, Gallimard, folio, 2008, p. 120. 18 Lacan J., Le Séminaire, livre X, L’Angoisse, texte établi par J.-A. Miller, Champ freudien, Seuil, 2004. 19 Lacan J., Le Séminaire, livre VII, L’Ethique de la psychanalyse, texte établi par J.-A. Miller, Champ freudien, Seuil, p. 89. 20 Ibid. 21 Lacan J., « Kant avec Sade », Ecrits, Champ freudien, Seuil, 1995, p. 767. 22 Ibid., p. 769. 23 Freud S., L’interprétation des rêves, trad. I. Meyerson, PUF, p. 100. Traduzione di Micol Martinez
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