Elisabetta Corrà – La stampa TuttoGreen Lo scorso 4 febbraio Rai3 ha trasmesso l’ultima puntata del programma Storie Maledette, ideato e condotto dalla giornalista Franca Leosini. La storia senza ritorno (da ciò che Dostoevskij identificò come il sottosuolo dell’anima) stavolta era l’aggressione di Luca Varani ai danni di Lucia Annibali, sfregiata in volto da un acido corrosivo nel 2013. Una vicenda di una crudeltà inedita che proprio per questo si conquistò una notevole attenzione sulle pagine di cronaca dei giornali, e un posto nell’archivio di atti che danno il termometro di quanto sta accadendo alla società contemporanea. Ma la lettura del reato proposta da Franca Leosini, che ha intervistato per due ore e mezzo un Luca Varani sempre più mortificato e confuso, si è spinta oltre la ricostruzione giuridica. E così, alla fine della puntata, la sensazione sgradevole passata da quest’uomo che si è preso 20 anni di carcere per aver devastato la vita di una donna, è la osmosi tra fatti efferati, che si stagliano come monadi improvvisamente visibili, e la nostra quotidianità. Quanti uomini sono come il Varani? Quante donne sono come la Annibali? Incalzato dalle domande di Franca Leosini, Luca Varani non ha saputo fornire una sola spiegazione minimamente consequenziale alle ragioni delle proprie azioni; i suoi agiti sono emersi nel racconto di una passione erotica durata anni come atti unici, isolati da un contesto interiore; neppure l’attrazione probabilmente perversa che lo legava alla Annibali - i due non riuscivano a lasciarsi, a chiudere, a rinunciare l’uno all’altra - ha trovato un “perché” ancorato ad un sentimento, o ad una emozione. L’inquietudine insita nelle frasi a volte autoassolutorie di quest’uomo distruttivo hanno alla fine restituito un ingombrante vuoto dove chiunque si sarebbe aspettato scuse, proteste, motivazioni, assunzioni di responsabilità. L’uomo che ha assoldato un sicario per sfregiare con l’acido il volto della propria amante è sembrato non tanto narcisista (certo, anche narcisista, come ha scritto Massimo Gramellini su La Stampa) quanto piuttosto incapace di inscrivere il proprio agire in una catena di causa/effetto. Un uomo, invece, profondamente scisso, che passa all’atto dove forse non lo desidera fino in fondo, e che poi delle conseguenze di questo atto non sa che farsene, perché gli sono estranee. Violenza sulle donne, va bene, il caso Varani parla di questo, ma forse permette anche di andare più a fondo di che cosa sia non la violenza stessa, ma il percorso che porta alla violenza, le attitudini che negli uomini e nelle donne di oggi conducono a saldare insieme eros, odio, catastrofe, vita. Massimo Gramellini, commentando a Che Tempo che Fa l’aggressività con cui Hillary Clinton è entrata in campagna elettorale, ha fatto notare che non abbiamo bisogno di aumentare il numero di donne al potere impegnate a imitare i maschi, per pareggiare i conti della discriminazione di genere; invece, abbiamo bisogno di donne che nei palazzi dove si decide portino la propria femminilità. Le doti del femminile che rendono le donne donne e che sono una ricchezza collettiva. Il punto è probabile che sia proprio questo: perché attorno a noi osserviamo una carenza del femminile, che si esprime come imitazione fallica dei maschi (competizione, spregiudicatezza, capacità di tenere la fatica, obbligo della performance) e come rinuncia alla propria soggettivazione specifica. Dove va mai ancora di moda dire che una donna può fare carriera se mette a frutto la sua capacità di accogliere e mediare, come ha fatto la poliziotta che si è tolta il casco per incontrare gli operai in sciopero? Una donna autentica, che ha stupito tutti perché le donne sempre più si sentono obbligate a non fare le donne se vogliono provare a rompere il tetto di cristallo delle gerarchie del potere e del successo.
Viene in mente il celeberrimo monologo di Lady Macbeth - al cinema in queste settimane nella versione di Justin Kurzel con Marion Cotillard e Michael Fassbender - che aspetta il ritorno del suo sposo e prepara il delitto: “venite spiriti che attendete pensieri di morte/liberatemi del mio sesso e riempitemi dalla testa ai piedi della più tremenda crudeltà/ Avvicinatevi al mio seno di donna e prendetevi il mio latte in cambio di fiele”. Nella versione originale, Shakespeare usa il verbo “unsex”, privare del sesso, come definizione del genere. Quindi, Lady Macbeth invoca il Male per respingere la propria femminilità e farsi la voce nell’orecchio titubante di Macbeth, muoverlo all’omicidio e giungere al potere. Il film di Kurzel è notevole perché, come hanno notato molti critici, all’inizio della tragedia Macbeth e la moglie seppelliscono il loro unico figlio. L’inaridimento dei loro sentimenti parte dalla morte del bambino, che inibisce ogni amore tra loro. Per questo, sempre nella ipotesi cinematografica di Kurzel, non potranno generare stirpe di re: svuotati di ogni amore da un dolore troppo grande sono diventati sterili entrambi. Marion Cotillard ha spiegato benissimo questi aspetti della sceneggiatura in una intervista su The Guardian: “Si amavano, ma erano entrambi troppo devastati dentro per darsi qualcosa di luminoso”. Eppure, è da un collasso del femminile (“unsex me here”) che si innesca la disponibilità interiore a commettere qualunque cosa. Una condizione di aridità psichica che nel corso dell’intervista anche il Varani mostra in modo radicale. La fidanzata storica, descritta come “la donna della mia vita”, non gli impedisce di intrattenere “una passione” erotica impellente con Lucia Annibali, una passione che dura per anni nonostante le scenate, le ambiguità e la scoperta di Lucia che Luca continua a tenere i piedi in due staffe. Sta con lei, ma intanto sta anche con Ada. Eppure, anche Lucia non riesce a lasciarlo: sa delle sue bugie, delle sue insicurezze croniche e forse malvagie, dei suoi passaggi a vuoto preoccupanti, quando passa in pochi minuti dalla dolcezza ad una freddezza disarmante. Ma non lo lascia. Perché una donna affermata e indipendente come Lucia si è innamorata di un uomo così povero di emozioni, così incapace di relazione? Questa è la domanda inquietante che traspare dalla ricostruzione giornalistica di Franca Leosini. Lo smarrimento maschile di Varani è evidente per tutti, lo è per gli ascoltatori del programma tv, e ci si chiede come non riesca ad esserlo per Lucia. Ma è qui che “esplode” il nucleo tragico della storia. Il maschile invischiato nella scissione tra madre e amante (Luca perde la madre poco prima di incontrare Lucia), senza riferimenti interni, che teme la libertà erotica della giovane collega di lavoro (“a me le donne che si propongono non piacciono”), ma ci si butta a capofitto senza sapere perché desidera quell’eros che disprezza. Ma cosa disprezza esattamente il Varani fino ad assoldare una banda di albanesi per aggredire Lucia sul portone di casa? L’impressione è che Luca odi le proprie proiezioni su Lucia, in altri termini che odi ciò che di se stesso Lucia, senza neppure immaginarlo, gli mostra. Questo è l’elemento comune a tante storie di violenza sulla donne magari meno famose, storie che contengono spesso, prima ancora di diventare, per fortuna, reati penali, la violenza dei sentimenti brutalizzati da soggetti capaci solo di tradurre in atti nuclei psichici scomposti, non elaborati, tossicomanici. Uomini che proiettano sulle donne la propria crisi interna, donne che non riescono a riconoscere in tempo la frattura, o che scelgono di subirla fino in fondo perché l’amore ha già preso la texture perversa dell’odio. Perché l’amore, oggi, troppo spesso, nella generazione dei 30-40enni, non riesce ad essere amore. Il motore della vicenda di Luca e Lucia è la povertà psichica in cui tanto spesso ci si imbatte nella vita di tutti i giorni, quando ci si accorge che il soggetto ipermoderno incapace di desiderio, vincolato al godimento coatto, è anche incapace di soffrire, di “sentire” i punti di faglia che hanno strutturato la sua personalità. Quando la madre di Luca Varani muore, il padre regala al figlio una Porsche per alleviare il suo lutto. Ma come può una Porsche sostituire una madre? Ma cosa c’entra una automobile di lusso con il lutto? Nulla, o invece tutto. Come ha scritto Michela Marzano, “è l’assenza che costituisce la nostra relazione con lo spazio, il tempo, l’amore”, ma se questa assenza strutturale viene evacuata come un prodotto di scarto sostituibile con compulsioni tossicomaniche (viaggi, vestiti, auto, consumi vari), che cosa resta della possibilità del soggetto di entrare in relazione intima con l’Altro? “Non c’è amore senza paura, quando si ama si ama proprio perché non si capisce. L’amore, quello vero, è fatto di un andirivieni continuo tra la realtà e l’immaginazione (passim)”, dice Michela Marzano. Ma come fa ad esserci una erotica in soggetti per cui la paura va anestetizzata il più in fretta possibile, ciò che di sé non si comprende liquidato come “irrazionale” e l’immaginazione condannata perché non quantificabile in una lista di sms? La radice della violenza sulle donne sta qui, nella indisponibilità attuale del soggetto ad essere attraversato dalla proprie contraddizioni come parte della relazione con l’Altro. Il farsi interrogare dall’Altro è vissuto come una minaccia, e quindi va fatto fuori, umiliato, annientato. Qualche volta ucciso. Non è una violenza solo sulle donne. Questa è una violenza tra gli uomini e le donne. Una violenza che in qualche modo si decide di auto-infliggersi, che è amalgamata, purtroppo, al modo in cui oggi si dice società, legami affettivi, coppia. Perciò la riflessione di Michela Marzano sull’amore (“L’amore è tutto, è tutto ciò che so dell’amore” UTET 2013) è anche una proposta di “politica dell’amore”, intendendo con questo una proposta di riflettere per davvero sulle conseguenze dell’eclissi dell’amore nella società ipermoderna: “Miserie di un mondo che soffoca gli affetti e nega l’asimmetria del desiderio. Come se tutto si riducesse a scambi tra creditori e debitori (...) In fondo, è la paura che ci domina, una paura onnipresente e devastante. Perché l’individuo contemporaneo ha paura di tutto, soprattutto degli altri”. Quale sia il prezzo di una erotica autentica, anche nell’eventualità di una perdita, di una delusione, di un cambio di passo radicale nella propria esistenza altrimenti apatica, lo si vede nello stupendo film di Paolo Sorrentino “Le conseguenze dell’amore”. Il protagonista, un ragioniere affiliato al crimine organizzato, vive da anni recluso in un lussuoso albergo di Lugano. E’ un eroinomane, ma soprattutto è un uomo isolato da se stesso e dalla propria storia, a cui non ha la forza di dare un significato, fosse anche ribellarsi al ricatto mafioso che lo inchioda in un limbo senza fondo in Svizzera. Tutti i giorni scambia sguardi densi di attrazione erotica con la giovane cameriera del lounge dell’albergo. Lei lo ricambia, e non riesce a capire per quale motivo lui non le chieda neppure come si chiama (“Si è accorto che io esisto?”). Ma lui la ragione la sa fin troppo bene e la scrive sul suo taccuino quando finalmente accetta di rispondere alla sollecitazione sensuale di quello sguardo: “Progetti per il futuro: non sottovalutare le conseguenze dell’amore” perché “sedermi a questo bancone è la cosa più pericolosa che ho fatto nella mia vita”. Perché l’amore scardina tutto, non è coazione a ripetere, conservatorismo mortifero del presente, tossicomania del consumo. Il ragioniere di Sorrentino lo sa: “La vita in mancanza di fantasia diventa un spettacolo mortale”. Il pericolo gravissimo che stiamo correndo come società non è il singolo atto di violenza, ma la brutalizzazione dei rapporti ridotti a scheletri senza più emozioni da mettere in un due che è un noi.
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