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Di cosa si parla

Le nuove tecnologie e il diritto all'oblio

18/12/2016

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Marco Focchi
​intervista di Pino Alberola

1. Siamo sottomessi alla tecnología?


La tecnica è il prolungamento del gesto. Lo mostra bene il film di Stanley Kubrick “2001 Odissea nello spazio", dove all’inizio l’osso brandito dallo scimmione diventa un’arma, e alla fine invece il computer si rivolta e uccide gli astronauti che vogliono disattivarlo. Prima l’uomo, o l’ominide, sembra padrone dello strumento, poi ne diventa vittima. La filosofia contemporanea ha pensato la tecnica come forma estrema di dominio, ma di un dominio che sfugge di mano all’uomo, dove quel che prima era mezzo – la tecnica come tramite per raggiungere uno scopo – diventa fine in sé, e così trasformandosi la tecnica pone l’uomo stesso sotto il proprio dominio. Ma per la tecnica possiamo fare lo stesso ragionamento che per il linguaggio: apparentemente il linguaggio è un mezzo per comunicare, ma questo è solo il suo aspetto più superficiale, e l’uomo non né è mai completamente padrone, come dimostrano il lapsus, il motto di spirito, la creazione poetica. Temiamo di essere dominati dalla tecnica perché sentiamo di non essere completamente padroni del linguaggio, del gesto, del nostro corpo stesso, e questa è una delle inquietudini più profonde, ma che non si risolve con la ricerca di una maggior forza nel dominio. 




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2. Come le nuove tecnologie hanno cambiato il modo delle nostre relazioni?


Le nuove tecnologie hanno influito moltissimo sulle nostre relazioni. Quando andavi su una carrozza di metro a Milano vent’anni fa la gente al massimo leggeva il giornale, e potevi, se volevi, scambiare qualche parola con un vicino. Ora tutti sono chiusi nella bolla del proprio iPhone. Ma non c’è solo l’aspetto che isola. Le nuove reti sociali aprono canali e possibilità di comunicazione enormemente maggiori di quando si comunicava solo per telefono o per posta. Questo tuttavia non ci fa sentire meno soli. Quel che sta succedendo di nuovo è che la tecnologia ha sviluppato ormai dispositivi che vanno al di là dell’intelligenza artificiale, e che rispondono alle espressioni emotive, o che cercano il contatto oculare: sono giocattoli per il bambini, o robot assistenti per anziani. La domanda che possiamo porci allora è come la relazione con macchine che mimano la relazione emotiva possono influenzare il nostro modo di amare o di rapportarci con gli altri. Sono già stati fatti studi su bambini che hanno avuto come partner non il solito orsacchiotto di peluche, ma bambolotti “affettivi” come quelli che ho descritto, e pare abbiano una minore tendenza a scaricare l’aggressività su questi oggetti, perché li percepiscono come vivi. Su un altro piano poi c’è uno studioso americano, Daniel Levy, che ha preconizzato che tra non molti anni sarà normale avere relazioni sessuali con androidi, e questo ci servirà, dice, a “far pratica”, un po’ come se si trattasse di imparare a nuotare in vasca da bagno prima di entrare in mare. Secondo me dietro queste idee c’è uno dei fantasmi più antichi dell’umanità: il fantasma di Pigmalione, cioè l’idea di un partner creato con le proprie mani, non detentore di un proprio desiderio, e completamente docile al nostro. 




3. Che vantaggi ci sono?


Dobbiamo parlare dei vantaggi, sì, perché fuori dalle illusioni senza tempo, le nuove tecnologie ci offrono opportunità enormi. Come in ogni caso si tratta di sfruttarne i lati positivi. Ci sono i ragazzini che si passano i selfies degli organi sessuali sul cellulare, ma ci sono anche costruzioni di reti sociali non limitate dalla distanza. Al di là dei vantaggi e degli svantaggi sul piano individuale, di cui ho accennato nella risposta precedente, è interessante considerare l’impatto politico dei nuovi canali sociali. In Italia, come è noto, una forza politica, quella dei "Cinque stelle” è nata dal nulla proprio sfruttando i mezzi della rete, e pretende anche di promuovere una sorta di democrazia diretta attraverso la rete. Le primavere arabe sono state accompagnate da un grande clamore su twitter e su Facebook. Gli studiosi del fenomeno sono divisi su questo: alcuni ne vedono i lato liberatorio, altri, come Evgeny Morozov, hanno notato che non appena alcune organizzazioni internazionali hanno cercato di forzare la censura nei paesi dittatoriali, mettendo a disposizione piatteforme internet  libere, i collegamenti anziché andare alle fonti di notizie e verso la creazione di reti si sono massicciamente convogliati su siti porno. È il lato hikikomori della rete, che è presente in tutti noi, e che rischia sempre di prevalere sul bisogno di contatto.


4. Che problemi stiamo incontrando?


Vedo un grande problema nell’incancellabilità delle tracce nella rete. Ragazzini che possono aver inserito nei loro profili post imbarazzanti nell’ingenuità dell’età rischiano di portarseli dietro per tutta la vita. La rete ci priva del diritto all’oblio, il che vuol dire al diritto alla privacy. Quel che non era mai stato un problema prima ora lo è diventato in modo preponderante. Non abbiamo più nessuna privacy. Dobbiamo avere sempre una vigilanza attenta su quel che facciamo circolare. Dobbiamo far attenzione anche a quel che diciamo in una conferenza. Occorre per esempio per tutti noi essere molto accorti a non dare dettagli clinici sui pazienti anche nelle riunioni a circolo ristretto, anche tra amici, perché quel che dite una sera lo potete ritrovare facilmente domani su Facebook o su Youtube. Anche nelle nostre riunioni a Milano di discussione di casi clinici chiediamo sempre di spegnere i registratori, ma non possiamo certo perquisire le persone all’ingresso, e può sempre succedere che quel che si dice venga tuttavia registrato e vada in rete. Mi sono abituato all’idea che qualsiasi cosa io scriva, fors’anche una lettera privata, devo sapere che può passare sotto lo sguardo pubblico, perché una volta digitalizzato qualsiasi testo non è più controllabile. D’altra parte il caso Snowden ci ha aperto gli occhi su questo.


5. Come tutto questo investe il campo della psicoanalisi?


Nella psicoanalisi, in Italia, c’è stato un lungo dibattito se consentire o no le sedute via Skype, e l’Ordine Nazionale degli Psicologi (a cui anche gli psicoanalisti devono essere iscritti da noi) ha dato il suo consenso. Ma era un dibattito a cose fatte, perché moltissimo colleghi già praticavano sedute in rete, e proibirlo sarebbe stato svuotare il mare con un cucchiaio. È chiaro che non siamo più nella Vienna di Freud, quando alla seduta si andava in carrozza e ci si poteva mettere tutta la mattina o tutto il pomeriggio. Oggi i pazienti lavorano non in una città, ma nel mondo, e vivono una settimana a Milano e una a New York. La tecnologia permette di gettare dei ponti per non interrompere la continuità del lavoro. Naturalmente non è la stessa cosa una seduta via Skype e una seduta in presenza. Il corpo conta in psicoanalisi. Da un lato credo che gli psicoanalisti debbano superare alcuni pregiudizi. Mi ricordo che nel 2002 alcuni colleghi erano straniti perché rispondevo a un paziente via sms. Oggi lo fanno tutti, ma è vero che non bisogna lasciarsi inghiottire dall'aspetto smaterializzante della tecnologia. Il corpo ha delle intensità che solo la presenza può trasmettere, e che fanno parte della componente pulsionale della relazione analitica. Per questo guardo con scetticismo ai siti specializzati in consulenze psicoterapeutiche che offrono moduli e pacchetti preconfezionati, da prendere a consumo. Ce ne sono almeno due di molto grandi, americani, ma se si va a vedere le loro dichiarazioni, da un lato offrono psicoterapie dichiarandole equivalenti a quelle in presenza, e scritto in piccolo da un’altra parte dichiarano che i servizi di consulenza non possono essere considerati equivalenti a una psicoterapia. C’è poi un grosso problema legato alla privacy, che in rete non può mai essere garantita al cento per cento. C’è anche un altro particolare effetto: una volta il paziente veniva e vedeva l'analista dietro lo schermo del suo anonimato, mentre si metteva a nudo davanti a lui. Oggi i pazienti che vengono sanno già tutto di noi perché lo hanno letto sulla rete, e siamo noi a non sapere ancora niente di loro. Questo produce una particolare distorsione di quel che Lacan chiamava soggetto supposto sapere. Non è un ostacolo: è una variabile in più di cui tenere conto.

Testo pubblicato su L'informacion il 16 dicembre 2016
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    marcofocchi52@gmail.com

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