L’incontro con persone che soffrono di anoressia ha interrogato lo psicoanalista italiano Domenico Cosenza sin da quand’era giovane. Questa interrogativo lo ha indotto a presentare una tesi presso l'Università di Parigi VIII dal titolo: “Il rifiuto nell’anoressia”, con la quale ha ottenuto il dottorato di ricerca in psicoanalisi. Da più di dieci anni è direttore scientifico di istituti terapeutici per la cura di pazienti con disturbi alimentari, come l'anoressia o la bulimia. È docente presso l’Istituto freudiano ed è membro dell'Associazione Mondiale di Psicoanalisi e della Scuola Lacaniana di Psicoanalisi, di cui è l'attuale presidente. Ha pubblicato, presso Astrolabio Il muro dell’anoressia – di cui è appena uscita la traduzione spagnola – dove parla del sintomo anoressico e chiarisce quel che può essere il suo trattamento nella clinica contemporanea. Venerdì 17 gennaio ha presentato il suo libro presso la Biblioteca del Campo freudiano di Barcellona, dandoci occasione di conversare con lui sulla sua ampia esperienza in questo campo. Intervista di Marta Berenguer Marta Berenguer: Perché hai scelto il tema dell'anoressia per la tua tesi? Questa decisione ha a che fare con un marchio particolare rivelatosi nella tua analisi?
Domenico Cosenza: In realtà la scelta ha un rapporto più forte con una contingenza della mia carriera professionale, vale a dire un incontro precoce, quando da giovane ho iniziato a lavorare in questo campo in un’istituzione di Milano che da molto tempo si occupa di persone con disturbi alimentari. È stata la prima istituzione italiana a lavorare in questo settore con un orientamento psicoanalitico. Quando ero ancora un ragazzino di quindici anni alcuni amici psicoanalisti avevano iniziato a lavorare con questo tipo di pazienti, e presto ho iniziato anch’io a seguire la stessa strada. Nell’incontro con i soggetti anoressici si è poi verificato un effetto di sorpresa e di enigma, legato principalmente alla modalità di godimento che sviluppano nella costruzione del sintomo. Questo punto di sorpresa continua a interrogarmi, e intorno a questa prima domanda enigmatica si è sviluppato il mio percorso sia nel mio lavoro istituzionale in comunità terapeutiche, sia nel mio studio privato, e sia anche nel mio lavoro di ricerca, che proseguo da molti anni. Il cibo, l'esperienza alimentare non è solo un atto per nutrirsi, ma anche, secondo Roland Barthes, un "modo di comunicare" che ordina, organizza e guida il soggetto nella sua dimensione socio- culturale. Che rapporto ha il cibo con l'inconscio? Sì, è un rapporto molto complesso, che dobbiamo collocare su diversi piani dell’esperienza. Come dice Freud nei Tre saggi sulla teoria sessuale, l'oggetto orale per eccellenza, il cibo, funziona su diversi piani: da un lato il piano più evidente è quello della dimensione nutritiva, che risponde alla necessità, ma per il soggetto umano il cibo non si riduce mai a questo, giacché appartiene, al tempo stesso, a una dimensione di soddisfazione pulsionale. Il cibo è il primo dono che il soggetto riceve dell'Altro, e per questo ha un valore simbolico, ed entra per questo in gioco anche la dimensione del desiderio. Freud lo spiega molto chiaramente dicendo che il bambino, quando si dirige verso il seno materno, sperimenta una soddisfazione che va al di là dei suoi bisogni e delle sue esigenze nutritive. Qui si vede come l'introduzione dell'oggetto orale si appoggia sul bisogno ma va anche oltre. Si tratta di un'esperienza molto complessa, che coinvolge una dimensione di identificazione del soggetto con il cibo. Questo è molto chiaro, per esempio, nella relazione con la cucina e le tradizioni alimentari di famiglia. Fino a qualche anno fa, a casa a tavola, si producevano molti scenari che parlavano della storia di una famiglia. Ora quest'immagine sembra sempre più in declino. Siamo in un'altra epoca. In che modo questo cambiamento influenza la soggettività? Penso che il declino della riunione famigliare a tavola manifesti il declino dell’Altro simbolico nell’esperienza del soggetto contemporaneo, è un esempio dell'effetto di erosione, di caduta della dimensione simbolica che caratterizza la vita moderna. Lacan, già negli anni Trenta, parlava di una caduta dell’imago paterna, tema anche ripreso da Jacques-Alain Miller nella sua lettura di Lacan. Attualmente stiamo assistendo a un declino dell’Altro simbolico e a una crescita allo zenit della dimensione del godimento. Questo si vede anche da come i soggetti è si ordinano intorno al cibo. Tende oggi a prevalere un rapporto non rituale con il cibo. Giorno dopo giorno assistiamo nella vita quotidiana a una caduta del rapporto con il cibo come rituale e un legame con esso sempre più solitario. In un soggetto con una struttura nevrotica questo si può sostenere, perché il nevrotico non è mai veramente solo, in qualche modo è sempre con l'Altro, anche se non gli sta di fronte. C'è però tutta una dimensione della clinica contemporanea in cui il soggetto sperimenta un rifiuto dell’Altro e un rapporto esclusivo con l'oggetto di godimento. Lo abbiamo imparato soprattutto nel campo delle tossicodipendenze, ma anche in quello dei cosiddetti disturbi alimentari, dove questi problemi si manifestano in modo evidente. Il soggetto perde la propria relazione con l'oggetto cibo, ha l'illusione di controllarlo quando in realtà non è così, e finisce per esserne schiavo. Qualcosa di simile accade nell'esperienza del tossicodipendente: con l'illusione di controllare la droga ne diventa schiavo. Forse non sempre succede come sto per dire, ma potremmo affermare che la prima esperienza con il nutrimento, il primo dono che riceviamo dall’Altro, è il cibo della madre. Cosa puoi dirci, nella tua esperienza clinica, di questa prima relazione madre-bambino? Possiamo dire che c'è sempre qualche difficoltà per il bambino o per la bambina nell’articolare una separazione dall'Altro materno. Questa esperienza non è solo uno svezzamento dalla madre, è una separazione di una parte di sé. Nelle sue prime esperienze di vita il bambino non percepisce una differenza tra il seno della madre e se stesso, si deve articolare una operazione di separazione in cui è come se il soggetto perdesse un pezzo di se stesso. Il problema è che questa operazione che non sempre funziona. Nella clinica dell’anoressia lo vediamo. Non a tutti i casi, ma nella maggior parte, il soggetto non vuole perdere questa parte che trova nel corpo dell'Altro materno, e invece di andare in direzione di questa separazione resta come catturato dall'oggetto primario. Chiaramente, quando succede così, il bambino o la bambina incontreranno, nel corso della loro esistenza, una difficoltà estrema per quanto riguarda le situazioni contingenti della vita in cui s’introduce qualcosa di relativo alla perdita, all'evento traumatico, all’eccesso, all’incontro con qualcosa di incontrollabile. Ogni volta che questo accade nell’esistenza appare il fatto che non si si è verificata questa separazione dall'oggetto primario, e ciò produce una serie di conseguenze importanti che, soprattutto nella pubertà, in molti casi portano a sviluppare sintomi come l'anoressia o la bulimia. Se il soggetto non è riuscito a realizzare un processo di separazione dell'Altro materno durante lo svezzamento, quando giunge il momento della pubertà – momento in cui le trasformazioni pulsioni del corpo convocano il soggetto a occupare una certa posizione rispetto all'Altro, rispetto al corpo e rispetto al desiderio – avrà difficoltà ad assumere una posizione sessuata. In questa congiuntura, non essendo in grado di trattarla in modo diverso, il soggetto s’inventa una risposta che, in molti casi, soprattutto nelle femmine, è la risposta anoressica. Invece di prendere una posizione sessuata, la risposta è la costruzione di un sintomo come l’anoressia, che mette come la marcia indietro rispetto a questa posizione. Non è un caso che gli effetti dell’anoressia si mostrino nel corpo come una regressione. Vediamo quindi l'annullamento di tutti gli effetti di trasformazione del corpo che vanno in direzione di una posizione sessuata, come per esempio i caratteri sessuali secondari, o la non comparsa, nella maggior parte dei casi, del ciclo mestruale. Abbiamo parlato della dimensione sociale, di quella famigliare, e ora potremmo entrare in quella individuale, soggettiva. L'anoressia secondo la psicoanalisi è un disturbo o un sintomo? Penso che sia più interessante leggerlo come un sintomo, a patto di non intendere l'anoressia come un sintomo in senso freudiano. Nella maggior parte dei casi il sintomo anoressico non ha nulla a che fare con una metafora che sta per qualcosa d'altro, e non è neppure un messaggio silenzioso che il soggetto rivolge all'Altro, o un messaggio che prende il posto della parola impossibile da articolare. Nella maggior parte dei casi nell’anoressia autentica non troviamo questa dimensione metaforica del sintomo freudiano. Questo sarebbe, per esempio, il sintomo isterico che presenta modo evidente, anche nelle sue somatizzazioni, un carattere di messaggio, un carattere di domanda inconscia. In questi casi, quando giunge l'interpretazione dell'analista rispetto alla dimensione inconscia, la somatizzazione scompare. È l'esperienza che Freud ha fatto nella clinica delle pazienti isteriche. Nel caso dell’anoressia mentale si può parlare di qualcosa di simile solo nei casi di anoressia isterica, dove nel sintomo è presente questo carattere di messaggio, cioè dove l'anoressia si struttura come una domanda implicita che la ragazza rivolge, inconsapevolmente, all'Altro. La clinica dell’anoressia isterica è però solo una parte della clinica dell'anoressia mentale, forse non la più importante. Nella maggior parte dei casi in questa clinica siamo al di là del campo della nevrosi e la funzione dell’anoressia, più che a una domanda inconscia, è legata a un ruolo di difesa dall’Altro, da un godimento eccessivo dell’Altro. Nei tuoi libri e nei tuoi articoli sostieni che "i disturbi alimentari hanno a che fare con un rifiuto dell'Altro" Che vuoi dire? Chi è questo Altro? L'Altro può assumere diverse forme. Sicuramente nell'esperienza concreta questo Altro è l'Altro materno, l'Altro primordiale, la prima incarnazione dell'Altro che il soggetto incontra nella propria esistenza. Non è però semplicemente un rifiuto dell’Altro materno, è anche un rifiuto dell’Altro simbolico, cioè un rifiuto del significante, un rifiuto d’incontrare qualcosa che proviene dall’Altro e introduce un limite al rapporto con la pulsione. Quando Freud parla del legame sociale, per esempio, cosa dice? Che il soggetto deve pagare un prezzo per inserirsi nel legame sociale. Deve sperimentare una perdita di godimento, è questo il prezzo da pagare per entrare nel legame sociale. Fa così il bambino quando, attraverso l’educazione impartita dai genitori, comincia a imparare che non può fare tutto quello che vuole ovunque. Da un lato, l'effetto di questa limitazione è una perdita di godimento e, dall’altro è la possibilità di un migliore inserimento sociale. La stessa questione vale anche per questi pazienti. Freud diceva che lo psicotico, per esempio, ha un problema strutturale riguardo questa operazione, preferisce non perdere il godimento e rimanere fuori dal legame sociale. La domanda sui disturbi alimentari è che hanno qualcosa di questo genere nella loro struttura. Il tossicodipendente, l’anoressica o la bulimica non isterica, scelgono una modalità di godimento che si caratterizza presentandosi come assoluto, che rifiutare l'incontro con la legge simbolica dell'Altro. Il soggetto preferisce quindi godere al massimo del proprio sintomo e rimanere fuori dal legame con l'Altro. Il problema è come questo di sia strutturato nell'esperienza di un soggetto. La tesi che presento nei miei libri è che dobbiamo leggere la frase del rifiuto dell'Altro nel suo duplice aspetto. Ovvero: c’è una dimensione del rifiuto dell'Altro, la più ovvia, dove è soggetto anoressico, per esempio, a rifiutare l'Altro, ma nella storia clinica di questi soggetti c’è anche una dimensione in cui l'Altro non ha fatto spazio per la singolarità del soggetto. Sarebbe, in questo caso, di un rifiuto che viene anche dall'Altro. In questo senso dobbiamo capire la frase "rifiuto dell'Altro" nel doppio versante che condensa. Qual è la relazione del soggetto che soffre di anoressia con lo specchio? È una delle manifestazioni dell’anoressia che non si presenta semplicemente come un rapporto di alienazione, come accade nella nevrosi. Potremmo dire che un soggetto nevrotico mantiene sempre un rapporto di alienazione con lo specchio. In realtà, lo specchio non rende mai per il soggetto la sua posizione desiderio. C'è sempre qualcosa di essenziale che viene lasciato fuori. Nel caso dell’anoressia invece non abbiamo una semplice relazione di alienazione con lo specchio, c’è una relazione al limite della persecuzione. Ogni volta che un soggetto anoressico si guarda allo specchio fa una brutta esperienza, riceve una sentenza di condanna o di squalifica, un giudizio negativo. Si tratta però di uno sguardo "dettato" precedentemente da altro? È uno sguardo dettato dall’Altro, ma che è al cuore del soggetto stesso. Si tratta di un rapporto con il proprio aspetto che non ha trovato la possibilità di un trattamento simbolico. Diventa così per il soggetto anoressico qualcosa di persecutorio. Questo sguardo è un trauma, ma al tempo stesso il soggetto non può mancare l'appuntamento con lo specchio. Questo è il punto particolare. Il soggetto sperimenta, relativamente a questo sguardo malevolo, un circuito di godimento che lo specchio puntualmente gli ritorna. Parliamo del sintomo dell’anoressica come di una "luna di miele", quasi come una dipendenza che è molto difficile lasciare. Cosa significa per un soggetto anoressico smettere di mangiare o "mangiare il niente"? Quel che si vede nella clinica dell'anoressia non è semplicemente che il soggetto smette di mangiare, ma che comincia a mangiare "qualcos'altro". La particolarità dell’anoressia, a differenza della bulimia, o dell’obesità, dove sembra che l'oggetto fenomenico sia il cibo, è che questo "altro " è invisibile, ma è un oggetto che per l’anoressica costituisce il solo oggetto di godimento. È un oggetto che si trova nel corpo dell’anoressica, è all’interno e si alimenta precisamente del rifiuto del cibo, rifiuto di alimentarsi. Quanto più rifiuta il cibo tanto più prova una godimento speciale, che ha un carattere assoluto. Il livello di godimento provato dal soggetto è tale da risultare incomparabilmente superiore a qualsiasi altro tipo di godimento. Ecco perché quando il sintomo comincia si costituisce, in effetti, una "luna di miele" in qualche modo paragonabile a ciò che accade ai tossicodipendenti. Rispetto al sintomo si struttura una forte relazione egosintonica e il soggetto comincia ad amare il proprio sintomo più di se stesso. È il motivo per cui, in alcuni casi, giunge fino a morire. Non perché voglia suicidarsi, ma perché gode a tal punto del suo sintomo che il problema della morte non si pone neppure. C'è un rapporto con oggetto di godimento per cui il soggetto perde la misura, è senza limite. Se in questi momenti cruciali nessuno interviene per mettere il limite che manca al soggetto, la morte diventa la prospettiva più vicina. È il lato più tragico di questa clinica. Il libro che presentiamo a Barcellona si intitola Il muro dell’anoressia. Capisco che, come tu stesso racconti, ti riferisci alla sfida che per la psicoanalisi si pone nel trattare con le anoressiche. C'è una breccia in questo muro per poter penetrare in questo problema? Sì, naturalmente c'è una breccia. Nella maggior parte dei casi bisogna aspettare un po’ prima di poter vedere questa breccia che apre una possibilità d’intervento. Consideriamo che il soggetto di solito viene a partire dalla domanda dell'Altro famigliare: del padre, della madre, di qualcuno che ha un rapporto di cura con il soggetto e che è angosciato da ciò che gli accade. La richiesta di aiuto non viene dal paziente, da una sua domanda, perché il soggetto ha già il sintomo, che è la sua risposta al problema. La breccia può prodursi a partire dal momento in cui il soggetto sente che questa risposta non è sufficiente per trattare quel che lo angoscia, quando comincia a trovare nella sua esperienza qualcosa di incontrollabile, quando trova una mancanza nel sapere, qualcosa che gli sfugge, quando torna a provare angoscia. Quando il sintomo è fortemente costituito la posizione del soggetto anoressico è piuttosto di angosciare l'Altro, ma sembra quasi indifferente a ciò che accade perché un effetto del sintomo, anche sul piano fisiologico, è di anestesia, di alessitimia, il soggetto non sente le emozioni e sembra che qualsiasi cosa possa succedere, non produca su di lui alcun effetto. Il problema che incontriamo nel nostro lavoro clinico è come possiamo portare il soggetto a uscire dall’anestesia che si produce con lo sviluppo dell’anoressia. Prima dicevi che il sintomo è, nel caso dell’anoressia, una sorta di difesa. Voler eliminare il sintomo, come alcune pratiche si propongono di fare, sarebbe controproducente? Penso che sia molto pericoloso, soprattutto nei casi più gravi, con una struttura di personalità fragile di tipo psicotico, dove l'anoressia non è qualcosa che dobbiamo eliminare, ma limitare e mitigare, per aiutare il soggetto a costruire, accanto all’anoressia, un'altra soluzione soggettiva, più singolare. Soprattutto nei casi molto gravi non bisogna ingaggiare una lotta contro il sintomo, perché sarebbe un rischio mortale. Se cade la soluzione anoressica, c’è il pericolo che si attivi nel soggetto qualcosa di molto più preoccupante. Potrebbe verificarsi un esordio psicotico se saltasse questa sua struttura. Bisogna fare molta attenzione con il sintomo. La soluzione non è eliminarlo, ma moderarlo. La pubblicità, la magrezza estrema che vediamo nelle passerelle, l'ossessione di "mangiare sano" di "prendersi cura di sé”, lo scientismo intorno all’alimentazione, l'ideale della bellezza ... questo tipo di fenomeni contribuisce all’"epidemia" dei disturbi alimentari o non si tratta solo di questo? Direi che rispetto alla vera anoressia questi fenomeni non toccano l'essenza del problema. L'essenza dell’anoressia è l’opposto di ciò che accade nella magrezza della moda dove, per esempio, troviamo soggetti per i quali l'equazione corpo = fallo funziona, ovvero dove avere un corpo di un certo tipo funziona come causa del desiderio nell’Altro. Nell'anoressia mentale succede il contrario: abbiamo un fallimento dell'equazione corpo = fallo, e quindi il corpo anoressico non funziona come causa di desiderio, ma come causa d’angoscia. Nel caso di vera anoressia ci troviamo in un clima molto diverso da quello in cui si parla della natura seducente del corpo magro. Il corpo magro come seducente si può trovare in soggetti che potrebbero anche avere sintomi anoressici, ma con un modo di funzionamento più nevrotico-isterico, dove il corpo funziona come causa del desiderio. Anche se ci sono casi di modelle incorse nell’anoressia, dobbiamo ben differenziare questi fenomeni, e non pensiamo di poter confrontare la magrezza della modella con il sintomo anoressica. Sono cose molto diverse. Lacan cita in uno dei suoi seminari una frase tratta da una poesia di Guillaume Apollinaire: " Chi mangia non è mai solo”. La solitudine e il cibo vanno di pari passo? Credo che questa frase sia vera, ma quando si tratta di sintomi come l'anoressia mentale o l'obesità nella loro forma psicogena troviamo qualcosa che ci porta in una dimensione leggermente diversa. In queste posizioni il soggetto ha una tendenza a rimanere fuori dall’Altro, in una relazione con l'oggetto che è fuori dal discorso, non regolata. In questi casi la dimensione metaforico- simbolica rimane accantonata. In questo senso uno degli articoli del libro “Il cibo e l’inconscio” (editore Tres Haches) ho dato una definizione dei disturbi alimentari come morte del convivium, della commensalità. In queste posizioni il soggetto si pone in una situazione di isolamento con l’oggetto di godimento e lascia l'Altro fuori scena. Nell'era in cui viviamo non possiamo dimenticare che Internet è in gioco in un mondo globalizzato, e che l'anoressia non è più un problema solo dei paesi occidentali. Ne sono prova le comunità virtuali che nascono intorno all’identificazione con l'anoressia . Cosa puoi dirci in proposito? Penso che non sia soltanto un tema occidentale, è un tema del capitalismo avanzato, perché lo troviamo già negli anni Settanta in Giappone, per esempio, anche in paesi che non appartengono alla cultura occidentale, ma che hanno avviato uno sviluppo economico in un sistema di produzione sociale capitalistico, dove gli oggetti godimento sono al cuore del funzionamento del sistema. Non è un caso, allora, che questi sintomi si sviluppino soprattutto nei paesi in cui la questione non è etnica, ma correlata con le caratteristiche che assume la dimensione sociale in un discorso di capitalismo avanzato, che ruota intorno alla produzione di oggetti di godimento e spinge continuamente il soggetto di goderne. Qual è l'insegnamento principale di Lacan su anoressia e disturbi alimentari? Direi che il discorso di Lacan in questo campo appartiene essenzialmente all’anoressia. Ha avuto un'intuizione che nessun altro ha avuto: pensare che l'anoressia è un'esperienza DI godimento positiva, molto particolare, dove l'oggetto del godimento dell’anoressica è il "niente", l'oggetto niente, un oggetto che non si vede, ma che si alimenta appunto attraverso il rifiuto del cibo. Quanto più il soggetto rifiuta il cibo tanto più gode. Nella clinica questo aspetto è ben visibile negli occhi del le pazienti, la loro faccia è assolutamente compresa in questa operazione. Lacan parla di anoressia in diversi momenti del suo insegnamento. Il meno conosciuto su questo argomento è l'ultimo Lacan, dice qualcosa di molto interessante: l'anoressia è un rifiuto dell'inconscio, del sapere inconscio. Il sintomo anoressico si costruisce completamente in modo che il soggetto possa evitare l'incontro con la dimensione dell’inconscio, e quando ne incontra qualcosa si angoscia. Per questo non ne vuol sapere. Penso che sia la lezione più importante di Lacan per quanto riguarda l’anoressia .
0 Comments
Leave a Reply. |
Marco Focchi riceve in
viale Gran Sasso 28, 20131 Milano tel. 022665651. Possibilità di colloqui in inglese, francese, spagnolo. Archivi
Novembre 2024
Categorie
|