Milano, 28 febbraio 1981 Conferenza di Jacques-Alain Miller ROSA ELENA MANZETTI – Jacques-Alain Miller ha accolto questo invito alla conferenza: “Lacan e l’insegnamento della psicoanalisi”. Miller è il curatore delle pubblicazioni dei seminari di J. Lacan ed è stato direttore editoriale della rivista “Ornicar?”. Dopo lo scioglimento dell’École freudienne, voluta da Lacan nel gennaio 1980, è ora segretario generale dell’ École de la Cause freudienne, la nuova formazione riunitasi attorno a Lacan. Dopo l’appuntamento di Torino nel novembre dello scorso anno, in cui J.-A. Miller ed Eric Laurent hanno dato una testimonianza interessante intorno alla situazione della psicoanalisi, eccoci a questo nuovo appuntamento in cui il nodo si stringe su qualcosa di molto importante: l’insegnamento della psicoanalisi. Credo sia il nodo che nella storia del movimento psicoanalitico ha provocato una serie di questioni e sta provocandone anche attualmente e su questo lascio la parola a J.-A. Miller. JACQUES-ALAIN MILLER – Sopratutto è importante per coloro che capiscono il francese, perché non posso rivolgermi a voi nella vostra lingua. Non ho scelto io il titolo della conferenza di oggi, ma l’ho accettato molto volentieri: “Lacan e l’insegnamento della psicoanalisi”. È un titolo che direi toccante, perché quest’anno per la prima volta Lacan non ha annunciato il seminario, per la prima volta dopo trent’anni. Il posto e l’importanza del seminario di Lacan nella comunità psicoanalitica francese è precisamente indicato dagli eventi ai quali assistiamo attualmente a Parigi e in Francia.
Dall’inizio di quest’anno, proprio perché Lacan non ha annunciato un nuovo insegnamento, da due mesi assistiamo a uno smarrimento e addirittura a un panico tra i suoi allievi. È un fenomeno veramente notevole, e solo la psicoanalisi ne può rendere conto, e non, per esempio, la sociologia. Trent’anni d’insegnamento di Lacan, vi ho detto, e voglio ricordarvi cosa sono stati questi trent’anni. Lacan ha iniziato il suo insegnamento nel 1951, a casa sua, nel suo salotto, non so per quante persone, venti, forse trenta. Poi nel 1953 questo insegnamento è diventato pubblico. Si è spostato all’ospedale di St. Anne, alla clinica per le malattie mentali, per cinquanta, sessanta persone che lo hanno seguito per dieci anni. Vorrei sottolineare – poiché questa conferenza per cui sono venuto riunisce tutto questo pubblico ed è annunciata con dei manifesti e attraverso la stampa – quale sia stata la discrezione di Lacan per tutto il tempo del suo insegnamento. Dovete sapere infatti che in questi dieci anni, dal ’53 al ’63, Lacan ha trattato ogni anno un tema nuovo, incentrato su una o più opere di Freud, e ha mantenuto per tutto questo periodo un titolo molto modesto: “Seminario di commento ai testi di Freud”. Sotto questo titolo Lacan ha posto il suo insegnamento. Oggi sappiamo che la stenografia di quanto ogni anno ha detto costituisce un vero e proprio libro. Lo sappiamo da quando me ne sono accorto e ho iniziato a redigere questo libro con il consenso e il sostegno di Lacan, il quale aveva invece lasciato il suo insegnamento allo stato di note e di appunti stenografati. Quando oggi uno di questi corsi degli anni ’50 viene pubblicato come libro è sempre un libro attuale. È quel che si dice essere precursori. Durante questo periodo Lacan ha anche pubblicato qualche testo in una piccola rivista quasi confidenziale, La psychanalyse. Poi nel ’63 ha dovuto smettere il seminario all’ospedale di St. Anne, e l’ha ripreso subito dopo in pieno quartiere latino, all’École Normale Superieure, questa volta davanti a trecento persone. Era l’epoca in cui cresceva l’influenza di ciò che si è chiamato strutturalismo. Lo strutturalismo, per noi che in quel periodo eravamo studenti, era sopratutto una boccata d’aria fresca, perché gli strutturalisti mettevano l’accento sul significante e non sul significato. Per concludere questa panoramica vi dirò che dopo il ’68 Lacan fu cacciato dall’École Normale Superieure semplicemente perché il direttore era convinto che il ’68 fosse nato proprio a causa di Lacan. Il che naturalmente era eccessivo! La verità è che a confronto con l’insegnamento di Lacan, quello universitario ne risultava sminuito. Lacan continuò così nell’aula magna dalla facoltà di diritto, dove venne ospitato e dove ha proseguito fino all’anno scorso. Ora, per la prima volta, Lacan non ha annunciato un nuovo seminario. Ciò crea un vuoto, e un silenzio davvero assordanti, e la comunità psicoanalitica nel suo insieme, in particolare quella francese, ha cominciato a determinarsi in rapporto a questo vuoto e a questo silenzio. Ho fatto una breve panoramica soltanto perché possiate rendervi conto che Lacan è sempre stato tenuto in una posizione di vera e propria marginalità. Ha sempre parlato solo sui gradini dell’università, non al suo interno, e in uno stato di continua precarietà. Quello di Lacan era un insegnamento ostinato, che si è tenuto ogni settimana per trent’anni con una conferenza che durava due ore, che non si riferiva a nessun manuale, e che proponeva ogni volta un passo nuovo. Nessuno ha mai fatto niente di simile, e nessuno a Parigi ha potuto conservare per tanto tempo un pubblico così numeroso. Ecco dunque un pensiero di cui si potrebbe seguire l’evoluzione momento per momento, se il termine “evoluzione” e il termine “pensiero” si addicessero a Lacan. Ma non gli si addicono, perché si tratta piuttosto di un linguaggio sempre più stringente e preciso che riguarda l’esperienza analitica. È un tipo di insegnamento inesauribile nella sua inventività, che nello stesso tempo scava indefinitamente negli stessi punti e ritorna sempre al suo postulato di partenza. È un fenomeno unico non solo tra gli intellettuali francesi, ma anche tra gli psicoanalisti. È un insegnamento che è potuto sembrare completamente gratuito: prima di tutto perché non veniva pagato, contrariamente alla pratica analitica che costa, che può anche costare cara. È come se avesse dato qualcosa per niente. Non c’era nessun diploma, quando si seguiva Lacan, era solo per seguire Lacan e non per ottenere un pezzo di carta. Gli analisti si potrebbero domandare in cosa questo insegnamento sia necessario per la pratica analitica. Un simile insegnamento essoterico non è forse gratuito dal punto di vista di uno psicoanalista? Perché è davvero singolare che un analista si sia rivolto al pubblico in generale e non agli psicoanalisti, in un periodo in cui nessun altro psicoanalista faceva qualcosa di simile. Oggi questo paradosso non ci meraviglia più, perché lo psicoanalista è pronto a parlare di tutto a torto e a traverso. Lo si interroga come prima si poteva interrogare un filosofo. La differenza tra Lacan e tutti gli altri è che lui ha sempre parlato della pratica della psicoanalisi, di ciò che fa lo psicoanalista, dell’atto dello psicoanalista, di ciò che sfugge allo psicoanalista stesso. Oggi lo psicoanalista è pronto a parlare di tutto tranne della pratica della psicoanalisi, perché non sa quello che fa, e solo attraverso l’insegnamento di Lacan ha una possibilità di venirne a capo. Gli psicoanalisti sono pronti a convincersi che la pratica basti a se stessa, e che la psicoanalisi sia fondamentalmente extraterritoriale rispetto a ogni ideologia e al discorso della scienza. Dunque si sono abituati a chiudersi alla comunità scientifica. Sapete certo che nella comunità psicoanalitica internazionale si è imposta la regola che lo psicoanalista debba essere analizzato, e se ne è tratta la conclusione che la sua analisi possa bastargli a condizione che venga condotta da un analista conforme. Detto altrimenti, l’esigenza che l’analista che produce un altro analista sia conforme a determinate norme ha sostituito l’esigenza razionale di rendere conto dell’efficacia della pratica psicoanalitica. C’è qui però un paradosso: da una parte la psicoanalisi si infiltra nella cultura moderna, dall’altra gli psicoanalisti hanno rotto i ponti con essa, e in particolare con la scienza. Si sono arroccati volentieri a Freud, ai suoi riferimenti scientifici, la maggior parte dei quali datava alla fine del XIX secolo. Per contro l’insegnamento di Lacan ha preso come parola d’ordine il ritorno a Freud e la fedeltà a Freud, ma nello stesso tempo ha riattualizzato i riferimenti scientifici di Freud, con il sostegno di una formula che Freud non ha espresso: l’inconscio è strutturato come un linguaggio. A partire da qui abbiamo nuovi riferimenti che sono sempre stati estranei a Freud: linguistici, logici, matematici. L’insegnamento di Lacan, sin dall’inizio, è il rifiuto della chiusura: della chiusura sulla tecnica analitica, e della bocca chiusa sul sapere analitico. Bisogna domandarsi perché gli psicoanalisti sono così imbarazzati a rendere conto apertamente della loro pratica. Il fatto è che questa pratica comporta un vuoto ineliminabile. Motivo per cui sono sempre pronti a colmarlo con qualsiasi cosa: per esempio con dei riferimenti all’energia psichica che non hanno mai potuto registrare né alimentare, o semplicemente mettendo in questo vuoto tutte le categorie della psicologia generale. Gli psicoanalisti sono fuggiti da questo vuoto dell’esperienza, mentre Lacan lo ha guardato negli occhi. Ne ha reso conto e ha mostrato che poteva essere elaborato. L’insegnamento di Lacan è lo sforzo per rendere ragione della pratica quotidiana dello psicoanalista. Bisogna sapere, e coloro che sono passati attraverso questa esperienza lo sanno, che la psicoanalisi ha effetti indubitabili sul soggetto, ma proprio nel momento in cui questi effetti sono più indubitabili, sono anche più evanescenti. Proprio nel momento in cui una parola d’interpretazione conduce a un mutamento soggettivo, lo psicoanalista sente quanto più dolorosamente che ciò che dura solo un istante, che quanto viene dopo cancella quanto c’era prima, e che la parte più preziosa dell’esperienza è continuamente evanescente. Invano si tenta di trattenere questi momenti fugaci nella descrizione dei casi. Notate semplicemente l’enorme contrasto che c’è tra tutto ciò che si prova nell’esperienza analitica e ciò che può esserne comunicato fuori, tra quanto si pensa, si vive e si verifica nell’esperienza, e quanto se ne può comunicare al pubblico. Vi è un lato irriducibile, e gli psicoanalisti vi si rassegnano un po’ troppo facilmente parlando di altre cose. Lacan si distingue tra tutti perché è l’unico che non vi si è rassegnato. È vero che nella psicoanalisi vi è tutto un aspetto impossibile da comunicare, che chiamerei estetico, inerente al gusto o al tatto, e che s acquisisce con l’abitudine e con il fatto di frequentare i pazienti. È quello che i giovani analisti vanno a cercare dai più anziani, e si chiama “controllo”. Nessuno sa bene cosa sia un controllo; è una specie di educazione al tatto. Il più delle volte è un’occasione per il giovane analista di verificare che l’anziano non ne sa molto di più. E un controllo si paga. Ma finisce con lo svanire quasi nel silenzio. Dice allora Lacan che vi è qualcos’altro nella psicoanalisi, che non è solo estetico, e che può essere anche matematico, nel senso originale del greco, che riguarda i màtemi: sono la radice della parola máthema, ciò che si può insegnare. In fondo nella psicoanalisi non tutto è màtema, ma lo sforzo di Lacan è quello di ampliare la parte della psicoanalisi che dall’estetico può passare nel màtema. Che cosa riguarda specificamente il màtema? Il puro significante. È, a propriamente parlare, la sola cosa che si può insegnare in un linguaggio di puro significante, senza ricorrere all’esperienza comune. Oggi senza ricorrere ai màtemi significanti – perché per questo occorrerebbe una lavagna, e qui ci sono tante belle cose ma non c’è una lavagna – cerco tuttavia di comunicarvi qualche cosa, sebbene non abbiamo esperienze comuni. La conquista della psicoanalisi è di essere riuscita a fare màtemi con ciò che è impossibile dire. Si possono fare molte cose con quel che è impossibile dire: se ne può fare un’esperienza di tipo mistico. La psicoanalisi è un altro modo di fare l’esperienza di quel che è impossibile dire. Il lavoro e l’insegnamento dello psicoanalista consistono nel giungere a fare màtemi di quel che è impossibile dire. Ci sono anche fatti d’esperienza analitica che si delineano a partire dal modo specifico in cui ogni soggetto vi si accosta. Per esempio, se l’uomo vuole La donna, l’essenza della donna, non può raggiungerla se non attraverso il campo della perversione. Lacan si è domandato se ciò potesse essere insegnato a tutti. Si è domandato se un fatto d’esperienza come questo potesse diventare un fatto d’esperienza scientifica. Perché in effetti il postulato della scienza è che ci può essere insegnamento per tutti, senza gli effetti comuni suscitati dalle esperienze comuni. Lo sforzo dell’insegnamento di Lacan è di rendere màtemi tali effetti d’esperienza. Sin dall’inizio, l’insegnamento di Lacan tende a una formalizzazione. La sua tesi accoglieva già quella che è la struttura della psicoanalisi, e questa struttura è formalizzabile in modo tale da essere completamente accessibile alla comunità scientifica. Perché dunque questo vuoto dell’esperienza davanti al quale gli psicoanalisti mostrano la loro insufficienza? Questo è dovuto al fatto che non c’è altro campo della psicoanalisi che quello del linguaggio. Ci s’immagina che il linguaggio sia particolarmente rivolto al referente, serva a designare l’oggetto. Questa supposizione condusse inizialmente Freud a cercare di verificare l’esattezza di quanto gli dicevano i suoi pazienti. Pensava infatti che il loro linguaggio avesse un referente. L’esperienza analitica mostra invece che il linguaggio in quanto tale è antinomico al referente, e che non trova mai le parole giuste per cogliere le cose. È quanto Lacan diceva all’inizio con un linguaggio hegeliano: il simbolo è l’assassinio della cosa. Ciò significa che nel linguaggio ci sono solo la metafora e la metonimia. I neopositivisti anglosassoni si arenano proprio su questo postulato: che il linguaggio sia funzionale al referente. L’inconscio non si sa cosa sia. Neanche Lacan lo sa. Ma bisogna rendersi conto che neanche la natura si sa cosa sia, e ciò non impedisce alla fisica matematica di esistere. Quel che si può tuttavia sapere dell’inconscio è che ci si accosta a esso solo a partire dal linguaggio. La psicoanalisi non si avvale di altri mezzi per cogliere il proprio oggetto. Il soggetto invece di cui tratta in questa esperienza è del tutto speciale: non è costruito sul modello del soggetto che pensa e che è. È un soggetto che parla, e di cui si verifica nell’esperienza che è superato da quel che dice. È il postulato di partenza dell’esperienza, ed è il postulato dello psicoanalista. Nella relazione psicoanalitica egli verifica continuamente, come fatto empirico, che il soggetto è superato dalla sua stessa parola, e che sparisce continuamente davanti a parole che lo superano. È un fatto dell’esperienza analitica, non è un’elucubrazione teorica. Lacan dice anche che l’analista è come sommerso dal manifestarsi della divisione del soggetto, che non ha dunque nessuna stabilità. Ed è proprio ciò a rendere così difficile l’insegnamento della psicoanalisi e la sua trasmissione scientifica. Vi è una temporalizzazione molto particolare del soggetto, che contrasta per esempio con quella solidità del soggetto sulla quale è nata la clinica psichiatrica classica. La clinica psichiatrica classica ha potuto svilupparsi con la più grande certezza studiando e descrivendo innumerevoli casi, e si può dire che essa ha incontrato un pieno successo. È riuscita così bene che ora non esiste più. Questa almeno è la diagnosi che viene fatta da un autore francese recente, e la sua diagnosi è tanto più interessante perché quest’autore non è affatto lacaniano. È un giovane psichiatra che si chiama Paul Bercherie, che ha scritto un libro dal titolo I fondamenti della clinica, e che conclude decretando il completo successo della clinica classica. Grazie a ciò essa non esiste più: il pieno successo finisce nello scacco completo. La psicoanalisi non corre rischio, è ben lontana dal successo completo, e ciò lascia tutte le possibilità. Ciò che in fondo Descartes coglie con il suo cogito ergo sum, è il soggetto sul piano in cui può pensare: “dunque sono”. È la piccola trasformazione che Lacan opera su Descartes. Freud ha colto l’inconscio, un piano dove qualcosa pensa, dove vi è pensiero ma dove il soggetto non può formulare: “dunque sono”, dove non può giungere alla coscienza di sé. L’inconscio è un piano dove viene meno per il soggetto ogni possibilità di nominarsi, di designarsi, dove manca il referente essenziale per il soggetto stesso. Il soggetto di cui tratta è dunque separato dall’essere, e per indicarlo Lacan ha forgiato un piccolo simbolo: la lettera S . Il soggetto, separato dall’essere, è perciò separato dalla propria identità, motivo per cui è può identificarsi con altri. Ecco il punto in cui il reale, quanto vi è di più reale nell’esperienza analitica, si identifica con quel che è impossibile dire. Ciò richiede una logica nuova adatta a questo soggetto che svanisce. Richiede anche una topologia. Non bisogna credere che la topologia introdotta da Lacan sia un’elucubrazione gratuita; quanto vi è di più reale nell’esperienza analitica è la sparizione del soggetto come buco. Ma il buco non è una nozione semplice. Vi sono molti tipi di buco secondo le superfici in cui i buchi sono posti. Perciò è necessario introdurre nella psicoanalisi un novero complesso di superfici che non si limiti al piano e alla sfera. La sparizione del soggetto è un’evidenza quotidiana per lo psicoanalista, e nello stesso tempo a essa è sempre impari se non tenta di elaborare una logica e una topologia nuove. La cosa più semplice sarebbe inventare una sostanza al posto del soggetto evanescente. Ma non c’è una sostanza nell’esperienza analitica. Ciò che più si avvicina alla sostanza è il godimento. Si vede nel sintomo, il quale invece non è evanescente, e che costituisce per il soggetto un’opacità. Da qui deve partire il fondamento della clinica analitica. Non crediate che il sintomo psicoanalitico abbia alcunché a che vedere con il sintomo psichiatrico. Il sintomo analitico propriamente detto, nella sua forma più sviluppata, include la presenza dello psicoanalista. Freud lo aveva rilevato dicendo che l’inizio di un’analisi si caratterizza per la presa di consistenza dei sintomi dell’analizzante, e che in fondo tutti i sintomi del paziente vengono rimaneggiati nella relazione di transfert. Ciò spaventò Freud quando se ne rese conto: si accorse che la psicoanalisi era un nuovo tipo di malattia mentale dove lo psicoanalista era complemento del sintomo. Lo psicoanalista deve saper completare il sintomo per rendergli il suo senso. Lo si vede chiaramente nell’isterica, che è stata il punto di partenza della psicoanalisi. Dove è andata a finire la grande clinica dell’isteria, questa clinica superba che affascinava i baroni della medicina? Questa clinica si è in qualche modo rarefatta e si è richiusa sul suo desiderio fondamentalmente insoddisfatto. È diventata più discreta ed è un grande problema clinico di questi tempi. Questo si spiega sopratutto con l’emergere della psicoanalisi, perché il dispositivo analitico ha introdotto nel teatro dell’isterica un effetto di estraniazione, nel senso di Brecht, e perciò la teatralità dell’isterica, rimaneggiata e tenuta a distanza, si è trovata impoverita. Ciò evidentemente non impedisce all’isterica di continuare a esistere, e anzi il dispositivo analitico ha come primo effetto sul paziente quello di isterizzarlo, perché gli offre il suo piccolo teatro in forma ridotta e burocratica. Ma non dell’isteria vorrei parlare oggi, quanto piuttosto della psicosi, perché la psicosi ha una certa relazione con il màtema e con l’insegnamento in particolare. Lo psicotico ricorre infatti allo scritto più di altri. Bisogna sapere che quando Freud si è occupato di psicosi è partito dallo scritto, lo stesso scritto da cui Lacan è ripartito nel suo duplice commento sulla psicosi. E anche nella sua tesi di psichiatria Lacan è partito dallo scritto di uno psicotico. Vedete allora come la clinica non sia costituita solo dal contatto immediato, diretto e vissuto con il paziente. Freud non mancava di pazienti di questo genere nella sua clientela, ma è andato a cercare lo scritto del presidente Schreber. Certamente non ogni scritto è psicotico, anche se si potrebbe almeno sostenere che la psicosi comincia con lo scritto. Occorre dire che nella psicosi gli scritti assumono una rilevanza davvero particolare, e che ciò è inerente allo statuto fuori discorso della psicosi. Certo anche gli isterici hanno scritto, ma si tratta di scritti sul proprio corpo. Non se ne può separare un prodotto. Che cosa significa che la psicosi è fuori discorso? Un discorso, nel senso in cui lo intende Lacan – quattro sono quelli fondamentali – è il modo in cui il soggetto si protegge dal reale, in quanto il reale è impossibile da sopportare. E poiché lo psicotico non è preso in un discorso tipico, gli resta solo il ricorso allo scritto. Questo scritto naturalmente può essere illeggibile, e Lacan diceva appunto che i suoi scritti sono illeggibili, ma bisogna sapere che ogni scritto può cadere nell’illeggibile. È il destino di tutti gli scritti, anche i vostri. Dopo tutto Schreber è meno illeggibile di James Joyce. E anche Joyce con la sua scrittura si faceva un rifugio dalla follia. Come è riuscito Freud a leggere il presidente Schreber e nello stesso tempo a insegnarci qualcosa partendo da questo? Ha considerato Schreber come se i suoi scritti fossero geroglifici. Ne ha contato le frequenze, ha fatto degli accostamenti, non ha pensato di capire tutto: ha fatto esattamente come Champollion. Del resto lo stesso Schreber riceveva le sue parole fondamentali come altrettanti geroglifici. In questo Freud e Schreber sono dalla stessa parte rispetto al testo di Schreber. Nello stesso modo Lacan diche che l’analista e l’analizzante sono dalla stessa parte rispetto all’inconscio. È da notare che l’insegnamento di Lacan ha fatto passi avanti contemporaneamente nella teoria del significante e nella teoria della psicosi. Ciò richiede che non si creda di capire. Capire in modo immediato consiste nel credere che ci sia una correlazione sin dall’inizio, ed evidente, che va da sé, tra significante e significato. Lacan porta l’esempio del bambino che non piangeva se gli si dava un colpetto. Chiedeva prima se fosse una carezza o uno schiaffo. Se gli dicevano che era uno scapaccione allora si metteva a piangere. Ciò vuol dire che il significante non porta necessariamente la sua significazione. Un significante quando entra in gioco può implicare sequenze molto diverse, e diversamente stereotipate. Qui ci troviamo di fronte a una scelta prettamente clinica, che è stata precisata dall’insegnamento di Lacan: o la comprensione, cioè l’assimilazione del significante e del significato, oppure la separazione tra significante e significato. A questo proposito ci sono due pratiche completamente distinte nel dispositivo freudiano. Il dispositivo freudiano può rimanere lo stesso, ma non può funzionare allo stesso modo secondo che si assimilino o si separino il significante e il significato. È una scelta netta perché dà due statuti completamente differenti del soggetto. Spesso è proprio così che è passata l’influenza della psicoanalisi: ci si è immaginati che il suo progresso consistesse nel fare del paziente il soggetto di un soggetto, dove invece prima era l’oggetto di un soggetto. Si è creduto che la psicoanalisi introducesse un progresso umanitario. Ma ciò è molto pericoloso. Forse conoscerete la formula che dà Kant di quel che è per lui il buon senso intersoggettivo: bisogna pensare al posto dell’altro. Nella psicosi questo è molto pericoloso, perché in ciò che la clinica francese chiama automatismo mentale è precisamente l’Altro che giunge a pensare al posto del soggetto. Al contrario quel che insegna l’esperienza psicoanalitica è che il soggetto non è soggetto di un altro soggetto, ma che è invece il soggetto del significante, che esiste solo a partire dalla decifrazione dei geroglifici che sono il suo sapere inconscio. È quanto testimonia la psicosi, cioè che il significante pensa al posto del soggetto. Il fatto che il testo psicotico si possa tradurre, come Freud ha dimostrato, non basta a fare la differenza tra nevrosi e psicosi, perché anche le nevrosi si prestano a una traduzione. Perciò Lacan ha elaborato un concetto specifico per distinguere la nevrosi e la psicosi. Poiché stiamo parlando del suo insegnamento, vale la pena di vedere come ha proceduto. Lacan è andato a cercare in due passi del testo di Freud una parola, Verwerfung, che ha tradotto con il termine forclusion. Non si può dire che la teoria delle psicosi abbia fatto molti progressi dopo che Lacan ha elaborato questo concetto che, per la precisione, è piuttosto un màtema, perché non si tratta di una categoria empirica, ma di una categoria necessaria per rendere ragione della fenomenologia della psicosi. Ma in quanto tale, questa categoria è transfenomenica. In fondo l’idea di base di Lacan a questo riguardo è molto semplice. Cercherò di farlo capire a tutti, perché la mia tesi è che l’insegnamento di Lacan è fondamentalmente semplice. Dunque faccio una prova cruciale: se non capite sarà solo colpa mia. Sapete che Freud dice che ci sono pensieri dei quali il soggetto non vuol sapere niente; solo, nello stesso tempo in cui vuole saperne, questi pensieri rimossi ritornano in un certo numero di atti sintomatici, nei suoi sintomi. Il soggetto non vuole sapere certe cose, ma si tradisce nel lapsus, nell’atto mancato, o nei sintomi, che sono più permanenti. Questo allora – la dimenticanza di un nome per esempio – non è un fenomeno biologico, ma un fenomeno articolato, simbolico, e la tesi di Freud è che ciò che è rimosso ritorna altrove che al suo posto. Lacan ha detto semplicemente che il rimosso e il ritorno del rimosso sono la stessa cosa. Ciò si basa sulla tesi di Freud che si riferisce all’inconscio. Freud si è reso conto che non tutte le rimozioni erano di questo stesso tipo. Nelle nevrosi, ciò di cui il soggetto non vuole sapere niente, ritorna sempre sotto forma simbolica e sintomatica, per esempio sotto forma di diniego. Anche nelle psicosi, dice, vi è un non volerne sapere, ma – è proprio questa frase che Lacan ha sottolineato – non nel senso del rimosso. Nelle psicosi ci sono un rimosso e un ritorno del rimosso, ma non dello stesso tipo, perché ciò che ritorna non ritorna nel simbolico, ma in ciò che per il soggetto è il reale stesso. Non ritorna nel lapsus, non ritorna nell’atto mancato; ritorna sotto la forma per cui il soggetto per esempio, sente delle voci, e sostiene di sentirle realmente. Dopo tutto non possiamo mettere in dubbio questo reale, perché il soggetto lo vive come innegabile. Ciò che distingue il rimosso nella nevrosi e nella psicosi non è tanto il contenuto di quel che viene negato, perché Freud dice che in ogni modo è la castrazione, quanto piuttosto il fatto che il ritorno del rimosso nella psicosi avviene sul piano del reale. Ciò ha condotto Lacan ad affermare che la psicosi ha delle affinità con la scienza, perché anche la scienza suppone ci sia un sapere che funziona nel reale. È d’altra parte quel che aveva così scandalizzato i contemporanei di Newton, cioè che gli astri potessero conoscere la formula della gravitazione. Direi che proprio qui nasce un po’ di confusione tra isteria e psicosi. Esiste in Francia una categoria clinica nuova, da una ventina di anni circa, non so se anche gli psichiatri italiani se ne servono, è la psicosi isterica. Ci sono psichiatri che possono rispondere, che possono dire se c’è anche qui? C’è uno psichiatra in sala? Non ce ne sono? Ebbene, Lacan non è d’accordo su questa categoria clinica. Lacan è freudiano: per lui o si è dal lato della psicosi o da quello dell’isteria. Ma si può intendere come possa prodursi questa confusione; perché anche nell’isteria il sapere inconscio può riguardare il corpo. Si tratta di sapere se il corpo è reale o no. Il fatto allora di distinguere isteria e psicosi ci dà motivo per dire, come Lacan, che il corpo appartiene all’immaginario. Il sapere nell’isteria riappare nell’immaginario del corpo. È una breve parentesi perché non sono sicuro che si possa capire bene. Ritorno allora ai due diversi rimossi: il rimosso nevrotico e il rimosso psicotico. Lacan si accontenta si sottolineare questa parte della frase di Freud: non volerne sapere, ma non nel senso di rimosso nevrotico – e conclude semplicemente che vi è un “prima” e un “dopo” rispetto alla simbolizzazione. Se la rimozione avviene dopo la simbolizzazione abbiamo i fenomeni della rimozione nevrotica, ma se un certo tipo di rimozione si produce prima della simbolizzazione, allora c’è preclusione, e ritorno del precluso nel reale. Che cos’è il fenomeno psicotico? È l’affiorare, nella realtà psichica del soggetto, di un importante significazione che il soggetto non può più collegare a niente, e che fa crollare tutto il suo edificio mentale. È l’irruzione di un’estraneità totale, che costituisce la radicale sovversione di tutte queste categorie. Sapete com’è andata per il presidente Schreber? A cinquant’anni, dopo una vita esemplare, presidente del tribunale tedesco, perfettamente regolare, si sveglia un mattino con l’idea, che respinge con orrore e con sorpresa, che sarebbe bello essere una donna nel momento in cui subisce l’accoppiamento. In questo caso non abbiamo un ritorno del rimosso nevrotico, ma i primi palpiti del ritorno del precluso nel reale. Lacan si è impegnato a costruire di fronte al concetto freudiano della rimozione, il concetto corrispondente per la psicosi forgiandolo su una parola che nel testo di Freud prima non era mai stata individuata, la Verwerfung, la preclusione. Ecco ciò che costituisce, nella sua semplicità, il punto di partenza dell’insegnamento di Lacan sulla psicosi. Non è una soluzione, è un modo di porre il problema. Riguardo a ciò, quando, come spero, leggerete Lacan, sappiate che cerca la semplicità, almeno nel suo seminario. Si può certo dire che non sempre la trova, ma a confronto con gli scritti degli psicoanalisti, che parlano di tutt’altro che dell’esperienza, è ancora quel che c’è di più semplice. Della nozione di simbolico, cui ho accennato molto rapidamente, vorrei darvi per finire, una nozione semplificata. Il riferimento principale di Lacan quando si tratta di immaginario, è sempre l’animale. Egli prende a prestito questa nozione dell’animale da un etologo che voi conoscete forse, che si chiama Uexküll, il quale sostiene che per l’animale vi è una corrispondenza perfetta con l’ambiente circostante, una corrispondenza tra Umwelt e Innenwelt, una vera correlazione biologica, qualcosa che dà veramente all’animale la propria esistenza. Esso è guidato da un certo numero di forme fondamentali che lo catturano, lo prendono, che sono come binari, che lo conducono ai suoi fini naturali, che gli permettono di preservare l’esistenza, e in particolare che gli permettono di trovare la compagna. Così per gli animali vi è tra i sessi una corrispondenza immaginaria, vi è un rapporto sessuale, che può anche essere scritto dall’etologo. Si può dire che l’animale agisce sempre in accordo con questo Umwelt. Ma vediamo ora come funziona questo per l’uomo. Si sa bene che non c’è correlazione biologica tra lui e il suo ambiente; del resto l’uomo crea continuamente l’ambiente in cui vive. Dove potrebbe esserci Umwelt quando ci sono la radio e la televisione che mettono sottosopra quanto ci sta intorno? Quando sono qui per esempio non mi sento per niente nel mio Umwelt. Nessuno del resto. Allora riguardo a ciò, quel che nota Lacan, è che l’immagine non è per l’uomo una guida vitale, e che per l’uomo tutto è rimaneggiato e ripreso nel linguaggio in modo tale che quello che chiamiamo il nostro mondo, esiste solo in rapporto al significante. Il simbolico costituisce l’armatura del nostro mondo. Basta che uno di questi significanti fondamentali venga a mancare, perché il mondo cambi completamente aspetto. Ci si prende gioco de primitivo e delle sue mitologie, ma che cos’è la mitologia se non un’armatura simbolica che indica in ogni momento al soggetto quello che deve fare per essere un uomo o per essere donna; o quel che deve fare per riparare le infrazioni a quest’ordine simbolico? Per questo il primitivo si trova meglio di noi nel mondo, perché la sua armatura lo sostiene molto meglio. Lo strutturalismo è sempre stato contro l’illusione arcaica e avremmo molto da imparare dal cosiddetto primitivo. Se il significante ha tanta importanza nell’esistenza umana, si deve pur supporre che il deterioramento fondamentale del mondo dello psicotico è dovuto all’assenza di un significante fondamentale. La famosa Verwerfung si riferisce precisamente a un significante essenziale per la struttura simbolica. Non è una dimostrazione, è una necessità logica se si ammette la tesi secondo la quale l’esperienza della realtà nell’uomo è condizionata dal significante. Lacan ha isolato questo significante fondamentale come il “padre”. Sarebbe troppo lungo sviluppare questo punto. Non si tratta del padre in carne e ossa, si tratta del “padre” in quanto significante. Si è spesso concluso che Lacan facesse l’elogio del padre. È completamente inesatto. Quello che Lacan vuol dire nella sua analisi delle psicosi, è che nessun uomo è veramente il padre simbolico. Quando un uomo si prende per il padre simbolico, quando il padre vuole enunciare la legge, si produce in pratica la preclusione del padre simbolico. È proprio quello che si vede nell’esempio di Schreber, il cui padre si pretendeva legislatore di tutto. Quando il padre si crede padre simbolico ne segue la psicosi. L’insegnamento di Lacan non è per niente l’elogio del padre. La funzione del padre è un mito di Freud, come si vede in Totem e tabù. Era il problema di Freud: salvare il padre nella civiltà moderna. In realtà il padre, il migliore, è sempre solo un fantoccio, un buffone: è quello che può fare di meglio. Lacan comunque non si è mai preso per il padre simbolico. Mi fermo qui per rispondere alle vostre domande. ELVIO FACHINELLI – Ringrazio Miller per la sua esposizione, che è stata effettivamente al livello più semplice. Devo però dire che la mia impressione è che il discorso di Miller rappresenti un punto di passaggio dal paradosso di Lacan all’apologetica di Lacan. In che senso? Nel senso che alcune formulazioni fortemente paradossali di Lacan, e che hanno un’incisività immediata molto forte, tendono a trasformarsi in quanto dice Miller in enunciati normativi di una scienza e mi riferisco in particolare al concetto di Verwerfung, di preclusione. Questa accentuazione del termine Verwerfung nel testo freudiano è servita a Lacan per approfondire qualche cosa che veniva appiattito, ma mi sembra che in sé si presti male a rendere conto di una serie di fenomeni e di dati di fronte ai quali ci pone la pratica clinica. Cito solo due esempi. Partendo dalla dicotomia paradossale stabilita da Lacan, Miller dice che per l’isterico il corpo è immaginario, e questo distingue l’isteria dalla psicosi; ma nelle malattie psicosomatiche vi è un investimento del corpo che non è di tipo immaginario, e che non è psicotico. In secondo luogo la distinzione, sempre dicotomica, fatta da Lacan e ripetuta da Miller, tra “prima” e “dopo” la simbolizzazione, urta contro l’evidenza secondo la quale il processo di simbolozzazione, e in particolare il processo linguistico, comincia molto prima dell’instaurarsi del linguaggio. Si potrebbe anche dire che incomincia prima ancora della nascita, e si constata una continuità fra tutti gli apprendimenti sensoriali del neonato e la sua possibilità di acquisizione del linguaggio. È quindi difficile stabilite una dicotomia tra “prima” e “dopo” perché si rivela più un fatto paradossale, indice di una difficoltà, più che una situazione clinicamente sperimentata, dove invece non si dà la frattura su cui ha insistito Miller. JACQUES-ALAIN MILLER – Sì, sono del tutto d’accordo con Fachinelli nel dire che è una semplificazione parlare di “prima” e “dopo” la simbolizzazione, perché in effetti la tesi di Lacan è che il linguaggio c’è da sempre, e nella forma più materiale: riempie le biblioteche, circola come discorso comune e, beninteso, precede il soggetto, precede quello che può essere l’accesso del soggetto al linguaggio. Il discorso universale e le sue strutture della lingua precedono il soggetto. Per questo la problematica di Lacan, come Fachinelli sa benissimo, è quella dell’accesso del soggetto al simbolico. Trattando della psicosi, ho tentato di indicare come Lacan giungesse alla preclusione, e come dovesse esserci un significante fondamentale al quale lo psicotico non ha accesso. È evidente che senza dubbio faccio perdere al discorso di Lacan il suo carattere di incisività, e bisogna dire che questo carattere di incisività era dovuto sopratutto al fatto che per anni non lo si è capito, e quando lo si spiega è senz’altro meno incisivo. Ma è un lavoro necessario, fatale, un po’ triste, che è il movimento stesso della cultura. SIGNOR X – Vorrei innanzi tutto specificare che non sono molto ferrato in materia. Mi veniva in mente però un’osservazione sull’affermazione che non c’è correlazione biologica tra l’uomo e l’ambiente, e sull’affermazione che l’uomo crea l’ambiente, e che, non l’uomo è in funzione dell’ambiente ma l’ambiente in funzione dell’uomo. Questa affermazione mi è sembrata un po’ azzardata perché molto volte l’uomo distrugge l’ambiente, se vogliamo fare un discorso di carattere ecologico. Quando questo succede, l’uomo diventa soggetto dell’ambiente distrutto, per cui si opera un ribaltamento. Per quanto invece riguarda le affermazioni intorno agli psicotici e al “significante fondamentale”, sono pienamente d’accordo che se venisse a mancare si verificherebbe una situazione drammatica. Si potrebbe però ipotizzare una situazione diversa, riallacciandosi a quanto ha detto precedentemente Fachinelli. Prendendo per esempio il bambino si potrebbe immaginare la formazione di un significante diverso, più consono ai meccanismi e alle funzioni naturali, che, secondo me, non escludono la formazione di una dimensione umana in quanto diversa da quella animale. Tutto ciò però si potrebbe vedere in modo più drammatico partendo dall’attuale situazione nel mondo, da qualcosa che si è instaurato nel corso dei secoli, che potrebbe essere più positivo se si immagina un’altra formazione di significanti, un’interpretazione diversa del mondo. JACQUES-ALAIN MILLER – Si pone la questione dell’invenzione di nuovi significanti. Lacan tre anni fa, diceva di sperare di inventarne uno. Un significante nuovo, quando viene inventato, ha effetti terribili nel mondo, perché comincia a rimaneggiare tutte le significazioni umane. Freud ha inventato un significante nuovo, e considerate la sproporzione che sussiste tra quanti praticano o si impegnano nella psicoanalisi, e l’incredibile effetto di senso che questa minima pratica ha avuto sull’insieme della cultura e sull’ideologia dell’uomo moderno. A proposito di questo intorno biologico, la scelta del partner sessuale è specificata in modo invariabile secondo le specie. Per noi non è così, ed è quanto verifica l’esperienza analitica. Il cammino di ciascuno verso ciascuna, l’accettazione di ciascuno nei confronti di ciascuna segue per ciascuno dei discorsi particolari. Non c’è etologia umana sul modello di quella animale, ed è ciò che Lacan ha riassunto dicendo che non c’è rapporto sessuale. Ciò non vuol dire che non ci sia relazione sessuale, ma che non c’è un rapporto invariabile di specie, come ci fosse da principio nell’uomo una mancanza riguardo al significante. In questa prospettiva siamo tutti psicotici, c’è un significante fondamentale che manca a tutti, in quanto esseri che parlano, c’è un significante precluso nel soggetto che parla. Freud l’ha scoperto: è il significante de La donna. In questo siamo tutti psicotici, non nel senso in cui ci manca il Nome del Padre, ma che ci manca il significante de La donna. Freud lo constatava dicendo che c’è un solo simbolo della libido e che questo simbolo è maschile. Ciò costituisce il grande problema dell’isterica, ed è per questo che l’isterica è l’argomento fondamentale della psicoanalisi. La questione dell’isteria è: “Cos’è dunque una donna?”, ma è la questione di tutti. Il più delle volte allora, per sapere la risposta, passa per un uomo. Gliene serve almeno uno, almeno uno per verificare che non c’è neanche uno. E quest’uomo le interessa solo per l’accesso che le dà all’altra donna, e come mediatore verso La donna. Ho detto or ora che questo è quasi psicotico, e lo si vede nel caso di Dora. Sapete che Dora aveva un piccolo legame d’amore con un certo signore, ma che perde tutto l’interesse per lui quando egli le dice: “Mia moglie non è niente per me”. Perché ciò che le interessava, senza che lo sapesse, era proprio questa donna. Dopo questa risposta del marito di lei, Dora produce una piccola sindrome persecutoria. Il che non vuol dire che questa isterica sia paranoica, ma che quando si tocca questa correlazione significante fondamentale, ci può sempre essere un’emergenza di tipo psicotico. Lacan ha formulato la Verwerfung de La donna in modo un po’ più paradossale e incisivo. Ha detto che La donna non esiste. Si racconta che lo abbia detto anche in Italia, e che tutti abbiamo capito: “Le donne non esistono”. Il che naturalmente ha suscitato scandalo. Vale la pena allora che io spieghi un po’ Lacan. Non susciterà scandali, ma servirà forse a indicare il suo posto nella comunità scientifica. E d’altra parte è sempre stato uno dei grandi problemi del discorso scientifico quello di farsi capire dalle donne. Sapete forse che Newton è stato tradotto per la prima volta in francese da una donna e che allora era vivo l’interrogativo intorno all’attitudine delle donne al discorso scientifico. Ora il problema è risolto, e forse a questo dobbiamo la sparizione della grande clinica isterica. SIGNOR Y – Il professor Miller, riprendendo con fedeltà Lacan, ha parlato di un’antinomia molto netta fra l’indicante e il referente. Chiedo due cose: se questa è davvero la posizione di Saussure, al quale notoriamente Lacan si riferisce, e a me pare che non sia proprio così e che Lacan dunque faccia un passo avanti. Ma allora mi chiedo se questa antinomia può essere generalizzata, e se può esserlo, ma non credo, come è possibile per esempio la prassi, l’azione pratica dell’uomo, come è possibile indicare qualcosa, fare così...(indica col dito). JACQUES-ALAIN MILLER – Ah! Lei ha fatto questo gesto! E cosa ha mostrato? La cartella che è sul tavolo? Il tavolo? Il microfono? Me? O il suo dito stesso? A questo proposito, in ogni atto di indicare c’è dell’ambiguità. Anche il discorso positivista si è accorto che l’atto di indicare non può assolutamente risolvere una correlazione certa con la cosa. Lei conoscerà il San Giovanni di Leonardo (ritratto con il dito alzato N.d.r.). È questo il senso dell’atto di indicare: si indica l’Altro. Non creda che i logico-positivisti siano poi così imbecilli. Consideri piuttosto i logici nel loro insieme. Sono certamente in grado di rendersi conto che ci sono dei problemi ontologici con il linguaggio. Immaginiamo che i nomi, i sostantivi, stiano al posto degli oggetti, ma sono costretti a constatare che c’è una debolezza ontologica per quanto riguarda gli attributi. Quando si tratta di sostantivi si può definire logicamente un concetto di sostituzione d’identità, dire che un nome e un altro si riferiscono allo stesso oggetto. Si può dire per esempio che “Dante” e “l’’autore della Divina Commedia” si riferiscono allo stesso personaggio. Ma per gli attributi, e in particolare per tutto il resto del linguaggio, non si può avere un criterio referenziale simile, perché bisognerebbe definire non lo stesso oggetto di riferimento, ma lo stesso senso. Qualcuno come Quine, che insieme a Chomsky è il più importante filosofo americano, è assolutamente in grado di rendersi conto che non si può dare nessun senso ragionevole all’espressione “lo stesso senso”. Non c’è identità di senso. È quanto Quine espone per esempio in un libricino di cui consiglierei la lettura, e che s’intitola Sulla relatività ontologica, perché in esso è condotto, lui, criptopositivista, a dire che si deve abbandonare il vecchio precetto filosofico secondo il quale non c’è ente senza identità, e che nel linguaggio ci sono - dice, con un’espressione poetica che rompe un po’ il carattere arido del suo stile abituale - delle “semientità crepuscolari” alle quali non si può applicare il concetto di identità. Lo studio logico del linguaggio, quando è condotto con rigore da qualcuno che non è sordo ai suoi stimoli, come Quine, conduce a questa conclusione. Quando dico questo, mi dico anche che l’extraterritorialità della psicoanalisi non durerà per sempre. Nell’insegnamento di Lacan c’è di che mettere in questione il discorso della scienza, e c’è qualcosa cui corrisponde qualcosa di preciso nel discorso della scienza. Ne ho dato un chiaro esempio con Quine. Non gireremo sempre tra Francia, Italia e Spagna quando si tratta della psicoanalisi e di Lacan, o ancora, in Sud America. Bisogna parlare con gli anglosassoni, che sono quelli che hanno preso più sul serio il discorso scientifico. MARCO FOCCHI – Lei ha parlato dell’esigenza di semplicità riguardo all’insegnamento della psicoanalisi. Sono del tutto d’accordo con questo. Sappiamo che è un problema, questo dell’insegnamento, che divide gli schieramenti in Francia tra coloro che possiamo chiamare i fautori dell’oscurantismo, cioè quanti sfruttano un certo stile di Lacan come si propone negli Ècrits, e una diversa posizione che riguarda lo svolgimento della “cosa” in questione della psicoanalisi, della “cosa”ovvero das Ding. Il problema non è soltanto francese, è italiano, lo è da parecchio tempo. Ci sono molti che tentano di sfruttare un oscurantismo che pretendono di fondare sulla parola di Lacan. Si tratta invece oggi di riproporre l’insegnamento di Lacan in una dimensione del tutto diversa da quella in cui è passato sino a ora, che ha speso sfiorato il ridicolo. Lacan stesso, nella seconda lezione del seminario sull’angoscia, fa dei riferimenti a questa esigenza di semplicità nell’insegnamento, con un’osservazione particolare e molto interessante a proposito di quanto lei ha detto, e che possiamo vedere di riprendere ora. Dice infatti: che cosa distingue la dimensione di seminario da cui vi parlo ora, da quella per esempio di un’analisi di controllo, dove come sapete si tratta di una sorte di prolungamento dell’interpretazione, dove il sapere entra in gioco attraverso un eclair, un lampo, una scintilla? La differenza – dice Lacan – è che noi facciamo necessariamente riferimento a un’esperienza e a ciò in cui si traduce, ovvero la letteratura analitica. Possiamo così intendere la letteratura analitica come un màthema in cui si fa parola ciò che emerge dall’esperienza. Avendo un minimo di riferimenti anche filosofici, è facile pensare a questo come a un fondo cui si può attingere, cui gli psicoanalisti attingono per condurre la loro pratica, è facile pensarlo in riferimento al Ge-Stell, il termine in cui Heidegger individua quella che chiama “essenza della tecnica”. Questo termine, sappiamo, è difficile da rendere tanto in italiano quanto, suppongo, in francese. Si può tradurre come “scaffale”, “supporto”, “ripiano”, indica una struttura, una gabbia. I testi filosofici italiani lo traducono con il termine “in-posizione”, traduzione che non so quanto possiamo accettare, ma che ci indica quella sorta di quadro dove si produce l’Ereignis, l’evento appropriante. Riferendo questo esempio al “fondo” che la letteratura analitica è, possiamo pensare che essa costituisca il quadro dove si produce lo svanimento cui lei ha accennato, e che possiamo riferire alla formula del fantasma come ce l’ha proposta Lacan: l’emergenza nel suo sottrarsi dell’oggetto a. Ora, leggere su questo impianto il problema della necessaria semplicità dell’insegnamento, mi sembra che proponga in tutta la sua portata la distinzione del problema dell’insegnamento da quello della trasmissione. Infatti nell’insegnamento le letteratura analitica è il quadro, il màthema, ai cui limiti deve necessariamente prodursi quel punto singolare che in Lacan è il sorgere dell’oggetto a come otturatore che stabilizza l’interpretazione. Questo riguarda anche la differenza tra il discorso scientifico e la ridefinizione dello statuto epistemologico galileiano cui la psicoanalisi chiama la scienza. Il punto di rottura in cui si produce questa differenza è ai limiti dello statuto epistemologico della scienza. Nel rapporto tra il màthema, nella sua relativa stabilità e la sua lettura, che implica l’intervento del soggetto, individuiamo la possibilità del mantenimento del dire di Freud. Si tratta dell’incidenza specifica del soggetto nel rapporto con il màthema e nel suo attraversamento che mette in risalto il singolare a scapito dell’universale. JACQUES-ALAIN MILLER – Sono completamente d’accordo.
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