Conferenza di Jacques-Alain Miller e di Eric Laurent Libreria Campus, Torino, 8 novembre 1980 MARCO FOCCHI - Lacan ha parlato della situazione della psicoanalisi in un momento storico preciso: ne ha parlato infatti nel 1956. Ora, in questi anni ’80, dopo la lettera del 5 gennaio che decreta la dissoluzione dell’ École freudienne, nuovamente si pone il problema della situazione della psicoanalisi in tutti i luoghi dove l’insegnamento di Lacan ha fatto sentire i suoi effetti: da Parigi, a Caracas, all’Italia. Jacques-Alain Miller e Eric Laurent sono tra i maggiori esponenti del direttivo della Cause freudienne, la nuova formazione da febbraio riunitasi intorno a J. Lacan. Nessuno meglio di loro può dunque illustrarci l’attuale situazione della psicoanalisi, e a loro lascio la parola, ringraziandoli di aver accolto il nostro invito. JACQUES-ALAIN MILLER – Le modalità con cui questa riunione è stata convocata illustrano molto bene una tesi di Lacan: che non c’è linguaggio senza equivoco. Infatti questa riunione è stata annunciata per le ore 18 dal Centre Culturel Français e per le ore 17,30 da questa libreria. Ma c’è di peggio, perché sono stato invitato qui per parlarvi della tesi di Lacan, della sua tesi di psichiatria del 1932 che deve essere pubblicata nella traduzione italiana di Einaudi, e arrivando qui ho scoperto che si trattava di tutt’altro: di un dibattito su Lacan e la situazione della psicoanalisi. È evidente dunque che la tesi di psichiatria di Lacan del 1932 e la situazione della psicoanalisi nel 1980 non sono proprio la stessa cosa, ma questo non mi disturba affatto perché è un argomento molto facile da trattare. I problemi attuali della psicoanalisi, almeno per quanto concerne la Francia, si riducono a un solo problema, e cioè la situazione di Lacan stesso. Voi sapete che gli psicoanalisti si occupano molto della loro situazione. E bisogna dire che Lacan si è fatto una gran bella situazione con la psicoanalisi, e non lo ha mai nascosto dal momento che lui stesso si è definito un self made man la cui fortuna è stata la psicoanalisi. È anche una così bella situazione che la domanda che si pongono gli psicoanalisti francesi da quindici anni è proprio: come sta Lacan? In altre parole, quando morirà? La situazione della psicoanalisi è dominata da questa domanda, e della bella situazione di Lacan avete una prova con la pubblicazione, che – mi si dice – apparirà tra una quindicina di giorni, della sua tesi, poiché è la tesi di un giovane medico, di uno psichiatra degli anni trenta, che è stata pubblicata in Francia nel 1975 e che viene promessa come una novità al pubblico italiano nel 1980. Questo significa essere un precursore! Vorrei sottolinearvi l’eccezionalità del fenomeno che è anche un fenomeno editoriale, poiché, in Francia per lo meno, nel campo delle scienze umane Lacan è un nome d’oro.
Il nome di Lacan si trova a volte in libri che non hanno niente a che fare con la psicoanalisi né con lui, semplicemente a scopo pubblicitario. Il suo è un nome che ispira fiducia, almeno a qualcuno, e per la psicoanalisi francese è una garanzia di qualità, è quello che si potrebbe chiamare un marchio. Se c’è stata l’anno scorso la dissoluzione dell’École da parte di Lacan, è proprio perché il suo nome era diventato nient’altro che un marchio. Ci si è battuti per un anno attorno a questo nome e ciò ha dato origine alla nuova istituzione di Lacan che si chiama “La Cause freudienne”. È quanto meno la dimostrazione che la storia della psicoanalisi non è completamente finita, e che i grandi momenti non sono ascrivibili soltanto alla Vienna dei primi anni del novecento o dell’immediato dopoguerra, ma che stiamo ancora oggi vivendo momenti davvero importanti. Voglio comunque dirvi qualcosa a proposito della tesi di Lacan, visto che sono venuto per questo. È certamente un libro che fa data. Come si sa ha interessato i surrealisti. Si parla del rapporto tra Lacan e i surrealisti credendo che se Lacan ha accentuato l’importanza del significante ciò sia dovuto a questo rapporto. Ma non è vero. Si può invece notare l’influsso di Lacan sui surrealisti. Salvador Dalì ha inventato il suo famoso metodo “ paranoico critico” in seguito alla tesi di Lacan, come egli stesso riconosce. Ma la tesi di Lacan fa data anche per un altro elemento che ci interessa oggi. Si può affermare che è l’ultima grande tesi della psichiatria francese, l’ultima grande tesi clinica. La scuola francese ha avuto una grande importanza verso la fine del diciannovesimo secolo e si può dire che ha i suoi ultimi guizzi proprio con questa opera. È il fenomeno di fronte al quale ci troviamo oggi: la fine della clinica psichiatrica. Oggi c’è soltanto una clinica fondata sulla chimica ed è la sola a progredire. La vecchia psichiatria clinica si sta estinguendo e ormai è soltanto un fantasma. La nuova clinica, quella emergente, consiste nella riclassificazione delle malattie mentali in base all’effetto delle sostanze chimiche sui pazienti. Si tratta quindi di una clinica strettamente determinata dalla invenzioni chimiche. Stiamo vivendo, nel campo della psiche, un divorzio tra la medicina e la scienza, divorzio che tocca, per altro, ogni campo. Si deve notare tuttavia che l’alleanza tra la medicina e la scienza è recente e molto fragile. Ci sono stati medici molto prima che il discorso scientifico si fosse sviluppato nel nostro mondo. Attualmente però la medicina sta per essere riassorbita dalla scienza e quel che resta della dimensione medica si trova nella straordinaria fioritura di psicoterapie di ogni tipo. Esse restano come residuo, e preservano nella dimensione medica, una volta che è stato in qualche modo eliminato tutto ciò che è scientifico, lo sfruttamento del transfert. Ecco perché la tesi di Lacan è preziosa, perché si situa prima che questa frattura sia consumata, ma al tempo stesso bisogna riconoscere che questo libro di Lacan è datato, viene da un mondo che noi oggi abbiamo perduto, è il libro di un Lacan pre-psicoanalista pre-lacaniano. Lacan stesso ha detto di averne accettata la pubblicazione con molte esitazioni. Se l’è lasciata strappare dall’editore, si è sottomesso all’esigenza dell’opera omnia. Se non avesse scritto altro, questo libro non sarebbe mai stato ripubblicato oggi, il suo valore sta nell’après-coup dell’insegnamento di Lacan. Quali sono allora i rapporti tra la psicoanalisi e la situazione di oggi? Conoscete l’ultima frase di quel catalogo di proposizioni censurate che si chiama Sillabo. È l’opera di un grande italiano, papa Pio IX. Sapete che in pieno XIX secolo il papa ha deciso di elencare tutte le preposizioni censurate e l’ultima di queste è: “ La Chiesa cattolica deve riconciliarsi con il proprio tempo”. Questo blocco della Chiesa cattolica ha avuto varie conseguenze. In particolare ha condotto all’aggiornamento molto affannoso e ansimante che abbiamo conosciuto. Il problema che Lacan si è trovato a dover risolvere negli anni ’50 è che la psicoanalisi si doveva riconciliare con il proprio tempo. È certamente un paradosso dal momento che all’epoca di Freud la psicoanalisi aveva anticipato i tempi. Ma essa ha conosciuto un momento di completa immobilità dopo la guerra, specialmente per opera degli eredi di Freud. Questi hanno eternizzato i termini, i concetti, i riferimenti di Freud. Hanno creduto che la biologia fosse rimasta quella che era ai tempi di Freud; e dal momento che Freud non si era mai preoccupato della matematica e della logica – che peraltro aveva un grande impulso nella Vienna dei suoi anni – anche loro si sono tenuti lontani da questi sviluppi. In altre parole hanno tenuto lontana la psicoanalisi dagli sviluppi del discorso scientifico, a cui Freud aveva voluto legarla con vincoli indissolubili: il risultato lo vediamo oggi negli Stati Uniti. Posso dirvi di aver visto con i miei stessi occhi, durante le ferie d’agosto a New York, psicoanalisti che sembravano ripiegati su se stessi, paurosi, timidi. Mi sono rivolto a quello che mi pareva fosse uno dei più intelligenti, e gli ho detto: “Ha l’aria di tenersi a corrente del movimento intellettuale, deve aver letto l’Essere e i nulla di Jean-Paul Sartre “ e mi ha risposto: “Sì, in un manuale di filosofia”. Non posso descrivervi tutti i particolari del viaggio, ma non è difficile capire come la psicoanalisi appaia oggi negli Stati Uniti qualcosa di sorpassato, e come ci sia spazio per tutte le psicoterapie più elucubrate. Il ritorno a Freud per Lacan non ha mai significato l’immobilizzazione della psicoanalisi ai tempi di Freud, perché bisogna distinguere quello che Freud aveva da dire dai mezzi che aveva per dirlo. A questo proposito i suoi riferimenti biologici, per esempio, non devono essere assolutizzati: devono essere ricollocati nel contesto dei fenomeni che si producono nell’esperienza analitica. Freud non è un antropologo, Totem e tabù non è un libro di antropologia; Freud utilizza riferimenti antropologici per cercare di cogliere lo statuto del padre nell’esperienza analitica. Direi che per noi oggi il problema è lo stesso nei confronti di Lacan: non assolutizzare i termini e i riferimenti di Lcan ma, secondo l’esempio che lui stesso ha dato e che ancor oggi dà, rinnovare i termini in cui e possibile parlare dell’esperienza analitica. La psicoanalisi non è una scienza, ma è articolata con il discorso della scienza: in primo luogo perché la psicoanalisi, nei termini di Lacan, è ciò che permette di sopravvivere al reale prodotto dal discorso della scienza. Il nostro reale non ha più niente a che vedere con ciò che esso era prima del discorso della scienza: tutto ciò che ci circonda esiste ora con un’insistenza fino qui sconosciuta. Voglio dire che questo microfono, come questo magnetofono, come le sedie stesse sui cui siete seduti, sono oggetti, come dice Lacan, che ci ingombrano. Per vedere che la psicoanalisi è pronta per l’Italia, basta vedere gli ingorghi che ci sono nelle strade di Torino. Ecco cos’è il reale moderno, che rigurgita e che ha davvero sovvertito il soggetto che crede di crearlo. C’è però anche un’altra articolazione con il discorso della scienza: è che il soggetto della psicoanalisi, nei termini di Lacan, è lo stesso soggetto della scienza spogliato di tutte le sue aderenze naturali, ridotto alle esatte coordinate della sua funzione. Questo ci dà il principio del rinnovamento e del progresso della psicoanalisi, è il movimento stesso della scienza. Consideriamo ora un po’ la diffusione dell’influenza di Lacan: di fatto essa non ha minimamente toccato gli anglosassoni. In fondo ci si può domandare che cosa manchi loro. Credo che manchi la dialettica. Come diceva un mio amico professore alla Stanford University, gli anglosassoni credono a quanto diceva il vescovo Berkeley, cioè che ogni cosa è quella che è, e con tale credenza, evidentemente non si può andare moto lontano con la psicoanalisi. Giacché, per il fatto stesso che si parla, nella psicoanalisi ciascuna cosa non è quella che è, poiché non appena c’è significante c’è inganno, errore sul referente. Sono invece rimasti sedotti specialmente i critici letterari europei che sono stati un vettore molto importante dell’influsso di Lacan. Nello stesso tempo però Lacan è stato da loro considerato come colui che predica la virtù dei giochi dei significanti, come se Lacan fosse un surrealista o un grande retore del Medio Evo. Ne è risultato che molto spesso Lacan ha finito per essere considerato come una specie di Jung del significante, in quanto avrebbe desessualizzato la psicoanalisi. Sapendo quale importanza ha avuto Jung nell’introduzione della psicoanalisi in Italia, è auspicabile che Lacan sfugga al destino di essere una specie di nuovo Jung. Si tratta di sapere che cosa è la sessualità in psicoanalisi. La psicoanalisi constata che la sessualità non si riduce a una questione di ruoli, e che effettivamente nella dimensione sessuale c’è una mancanza rispetto a più registri. In primo luogo è constatabile nell’essere umano una diminuzione della potenza sessuale, un’incertezza sul piano del godimento. Ma in secondo luogo, ed era ciò che osservava Freud, sul piano inconscio il sesso ha un solo simbolo, non due, tra il significante e l’anatomia c’è disarmonia. Ciò che conduce a questa incertezza sessuale umana è la mancanza del significante de La donna. Questo non sta bene a nessuno, e fa sì che una psicoanalisi consista nel cercare questo significante. In terzo luogo, ed è una conseguenza, un uomo non sa che cosa debba fare per essere un uomo di fronte a una donna, né lo sa la donna, e allora inventano espedienti, per esempio delle perversioni. E Lacan lamentava che, dopo tutto, la psicoanalisi non ha permesso di trovarne una nuova; le perversioni, infatti, sono antiche e stereotipate. Ci sono stati due burloni, che si chiamano Deleuze e Guattari, che parlavano di un numero di indefinito di sessi. Sarebbe più divertente se fosse così, sarebbe più bello! In realtà il catalogo delle perversioni è finito e triste. Proprio perché si constata questa mancanza sul piano della sessualità, si può pensare di ridurre tutta questa dimensione con la sublimazione, e se volete, è ciò che fa la credibilità di Jung. Il desiderio è certamente un problema per i sessuologi, perché devono pur constatare che anche il livello dell’eccitazione sessuale non è misurabile e non serve assolutamente nulla mettere un anello attorno al pene o quantificare le secrezioni vaginali della donna: è, come doveva constatare un sessuologo, qualcosa che scivola via. C’è dunque un’articolazione del desiderio e del significante che lascia spazio alle elucubrazioni di stile junghiano. Ma ciò che vi si oppone, e che si constata nell’esperienza, è il fantasma, con il suo carattere ripetitivo, invischiante, del tutto opposto alle fantasmagorie della sublimazione, e che dimostra come non tutto nell’economia soggettiva sia dell’ordine del significante. La frase di Lacan: “L’inconscio è strutturato come un linguaggio” non vuol dire che tutto sia significante. Lacan considera che la sua scoperta principale sia quella dell’oggetto che egli chiama “ a minuscola”. Tra la letteratura degli psicoanalisti e la vera e propria esperienza analitica c’è un enorme divario. Se leggete “Spirali” crederete che la psicoanalisi sia “un’avventura”. Ma Freud ha sempre criticato nella letteratura il “sentimento oceanico”. La promessa della psicoanalisi non è sicuramente quella del mare aperto. È quella di rimasticare, anno dopo anno, il vostro fantasma fino a quando, forse, riuscirete ad attraversarlo, dopo di che non immaginerete di essere un uomo o una donna ideale, sarete solo uno scarto della vostra esperienza. È vero che vogliamo una certa espansione della psicoanalisi, ma non vogliamo mentire sulla merce. C’è qualcosa di radicalmente incontrollabile nella psicoanalisi, nella sua qualità di esperienza strutturalmente privata; per questo presta il fianco agli imbroglioni, per questo ci si aggrappa a uno che si sa non essere imbroglione, e per questo Lacan garantisce la pratica degli psicoanalisti che gli stanno attorno. C’è un lato cattivo del transfert per cui basta premere un certo numero di bottoni per muovere gli stati affettivi del soggetto e, in genere, se li premete bene, a vostro vantaggio, beneficerete della domanda dell’altro che soffre. Che cosa vi domanda? Di essere guarito, supponiamo. Ve lo domanda semplicemente, voglio dire quasi semplicemente, medicamente: è la domanda medica nella sua essenza. Lo psicoanalista sa che ciò che questo paziente desidera è, forse, tutt’altro che la guarigione. Può essere al contrario l’instaurazione nella malattia, l’essere riconosciuto nella propria malattia. A questo proposito il posto dello psicoanalista si pone precisamente nella separazione tra medicina e scienza, e opera con mezzi che non sono in nessun modo quelli della scienza, se non altro perché non sono ripetibili, e non c’è puro standard. Questo resta vero anche se può esserci una certa standardizzazione dell’inizio della cura, e anche se si discute se ci sia una certa standardizzazione della fine, cosa sulla quale gli psicoanalisti non sono affatto d’accordo, poiché, contro Freud, i suoi allievi hanno voluto che la fine dell’analisi coincidesse con il riassorbimento di ogni mancanza nella sessualità. C’è dunque una tendenza della psicoanalisi all’esoterismo: prima di tutto perché è incontrollabile, poi perché l’efficacia delle sue interpretazioni si fonda molto sulla sorpresa del soggetto. Si può facilmente immaginare che, all’inizio del secolo, dire a un paziente: “Tu ami tua madre” facesse colpo. Oggi il paziente stesso arriva in analisi con questa convinzione, e per sorprenderlo bisogna dirgli piuttosto che ama Albertine. È il motivo per cui gli psicoanalisti hanno voluto evitare di rendere pubblico il loro sapere, hanno voluto preservare il loro sapere perché conservasse la sua efficacia nell’interpretazione. Per questo anche gli psicoanalisti si sono rinchiusi a lungo nei loro Istituti, aperti solo ad alcuni a cui si potevano sussurrare all’orecchio i grandi misteri del sapere psicoanalitico. Sono però segreti di Pulcinella, da momento che tutti li conoscono. Ecco perché gli psicoanalisti di Lacan hanno fatto più strada degli altri: perché si sono fondati su una teoria rinnovata a partire da Freud, e perché Lacan non si è fermato a uno stadio della teoria, ma ha proseguito il suo rinnovamento nel corso dei seminari. Per questo si è psicoanalizzato molto meglio attorno a Lacan che nelle altre società. Evidentemente ci vuole una bella faccia tosta per dire questo: e io ce l’ho. Ecco perché Lacan, invece, ha potuto diffondere il suo insegnamento alle masse. È stato uno scandalo che, dagli anni ’50, a Parigi, un membro titolare dell’Internazionale, come lui è stato, svelasse il segreto al pubblico: si trattava di un tradimento della pratica degli altri. Così possiamo dire che da parte di Lacan c’è piuttosto una tradizione essoterica, e che la psicoanalisi, accanto a Lacan, non rifugge il contatto con la cultura. Il pericolo è, evidentemente, che attiri gli imbrogli. Questo rende difficile il cammino tra una chiusura iniziatica e l’incontrollabile esercizio della psicoanalisi, perché non si può essere psicoanalisti senza essere formati “per”, e d’altra parte questo “per”costituisce il centro delle difficoltà. Il problema si pone con particolare rilievo per La cause freudienne, che è appena stata fondata. Infatti più di mille persone si sono offerte di seguire Lacan, certamente non solo psicoanalisti, ma, forse, anche persone che desiderano diventarlo. Da qui l’entità del problema della formazione. A che cosa dunque deve essere formato uno psicoanalista? Lacan non ha sempre detto la stessa cosa a questo proposito. In un primo tempo ha considerato lo psicoanalista come colui a cui si rivolge la parola, l’interlocutore primario o l’interlocutore assoluto perché unico, che per questo decide del senso e della verità di ciò che dice il paziente. D’altra parte, ponendo l’accento sull’interpretazione analitica, si è sempre voluto dire che il soggetto nell’analisi è messo nella posizione di parlare senza sapere quel che dice, e che è coordinato da un altro che gli è complementare e che invece lo sa. In questo senso lo psicoanalista può apparire come una funzione di sapere totale, se così posso dire, un centro culturale a sé stante, un centro della cultura, un mediatore tra il sapere assoluto e i pensieri quotidiani. E bisogna dire che ciò hanno fatto i primi psicoanalisi, giocando sull’immaginario della letteratura europea dall’inizio del secolo. Quando se ne farà l’analisi critica si vedrà che posto ha lo psicoanalista: la talpa del sapere, e nello stesso tempo il sole del sapere. Pensate, per parlare sempre dei surrealisti, a Breton che va a trovare Freud, oppure pensate anche a Lacan, la cui erudizione spazia in ogni campo.Voglio dire che Lacan ha moltiplicato i cenni e i riferimenti per alludere in qualche modo a questo sapere assoluto. C’è d’altra parte un’evoluzione nella concezione di Lacan. Basta, infatti, vedere con chi una psicoanalisi funziona per rendersi conto che non occorre certamente tutto il sapere. Non posso parlare della situazione come è qui, perché non conosco molta gente, ma conosco molti psicoanalisti francesi, e vi posso assicurare che non si distinguono certamente per la loro erudizione. Il che non vieta che siano psicoanalisti o che perlomeno funzionino come tali. Questa è stata una delle ragioni che hanno condotto Lacan a cambiare la collocazione dell’analista e a sostenere che non è tanto l’“Altro unico” del soggetto, quanto piuttosto il supporto imbecille del suo fantasma. Per cui, dopo tutto, essere ottuso non lo ostacola molto nella la sua pratica, e anzi, potrebbe essere un vantaggio. E cioè Lacan, se vogliamo usare i suoi termini un po’ cifrati, ha situato inizialmente l’analista al posto dell’ “A maiuscola” e ha finito con il farne un equivalente dell’oggetto “a minuscola”, vale a dire uno scarto a partire da cui il soggetto parla. Questi oggetti (è difficile parlarne rapidamente, tanto più che sto davvero oltrepassando il tempo a mia disposizione) sono in numero finito. Freud ne ha scoperti due, l’oggetto orale e l’oggetto anale, e Lacan ne ha aggiunti due, più difficili da cogliere, la voce e lo sguardo, di per sé difficilmente isolabili nella percezione. Si può capire come siano stati scoperti più tardi, perché sono oggetti impalpabili, fugaci. Si potrebbe dire che hanno la stessa sostanza del soggetto, quello che è al centro della psicoanalisi, il soggetto del lapsus per esempio. Ciò vuol dire che questi oggetti, non appena si ritorna su di essi, non esistono più, aderiscono al soggetto in quanto barrato. Non penso che questo punto possa essere colto da chi non ha letto Lacan; lo ho accennato solo per sottolineare che qui “oggetto” non è da prendere nel senso corrente. Credo di dover ora stringere i tempi per lasciare la parola a Eric Laurent e anche per lasciare spazio al dibattito. Avviandomi a concludere vorrei dire due parole su quale potrebbero essere i compiti della psicoanalisi, perché non basta limitarsi a descrivere una situazione. Il primo compito riguarda un certo ritorno a Lacan, iniziato già con la dissoluzione dell’École freudienne, che ha suscitato molti malintesi a proposito di Lacan. Si tratta anche di fare in modo che la scoperta e l’insegnamento di Lacan non restino l’avventura individuale di un genio, ma che questo insegnamento s’inscriva in modo durevole nella cultura del nostro tempo. Ecco perché il punto fondamentale è quello del gruppo in grado di sostenere questo insegnamento, e non di strangolarlo, come stava per fare École freudienne. Si tratta anche di clinica: con la fine della psichiatria classica, alla psicoanalisi spetta il compito di fondare un’altra clinica, perché il sintomo analitico non ha niente a che vedere con il sintomo psichiatrico. Il sintomo psichiatrico è osservato e descritto dal medico. Il sintomo analitico non ha senso se non in quanto è osservato e descritto direttamente dal paziente. A questo proposito Freud notava che l’inizio di una psicoanalisi dà veramente consistenza al sintomo analitico del soggetto. In fondo il sintomo analitico ha bisogno dello psicoanalista per essere completo. In questo senso è la psicoanalisi che rende ammalati, ed è quanto Freud aveva ben colto parlandone come di una peste, o spiegando che la psicoanalisi sostituiva la nevrosi originale con una nevrosi di transfert. Motivo per cui la clinica psicoanalitica deve rendersi indipendente rispetto alla clinica psichiatrica. Gli elementi sono in Lacan ma non sono sviluppati: svilupparli mi sembra sia un compito della psicoanalisi d’oggi. Ne aggiungerei un altro quasi irraggiungibile: il compito per la psicoanalisi di occuparsi dei suoi effetti nella cultura, mi riferisco, per esempio, a quel germoglio della psicoanalisi che è il femminismo. Credo di potermi fermare su questo punto e vi ringrazio d’avermi ascoltato. ERIC LAURENT – In questo dibattito, poiché il tempo che ci è assegnato è piuttosto limitato, vorrei aggiungere che la situazione della psicoanalisi, in una cura analitica come nel movimento analitico, è ciò che non va. Ciò che non va è che c’è un disagio nella psicoanalisi o, più esattamente, un sintomo. A Caracas, in Venezuela, il dottor Lacan, presiedendo un convegno sul suo insegnamento, notava che non gli interessava tanto il lacanismo quanto il dibattito su Freud, sulla seconda topica. In fondo si può dire che il disagio del movimento psicoanalitico dipende dal fatto di non sapere che fare della seconda topica di Freud: si comincia appena a confrontarsi con essa. Il dottor Lacan, che è stato un precursore, ha iniziato pubblicamente già nel 1953 a Roma con la sua relazione sulla Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi. Ciò che non va nella psicoanalisi è il suo rapporto con l’esperienza, un’esperienza in cui si parla, e dove tuttavia la pratica non illumina sulla struttura del fenomeno. Quel che imbarazza gli psicoanalisti, il loro sintomo, è la loro esitazione tra il ritenere la psicoanalisi una scienza della natura, nel senso tedesco di Naturwissenschaft, e il ritenerla qualcos’altro. Non è sufficiente dire che è una scienza umana: il sintomo è che, per esempio negli Stati Uniti, si va incontro sempre più apertamente a uno scontro tra chi vuole sbarazzarsi della metapsicologia freudiana e chi vuole conservarla. Ci sono autori che propongono di liberarsi del bambino imbarazzante, come Merton Gill che ha tentato, assieme a Pribram, premio Nobel per la biologia, e affiancato da altri, di leggere il Progetto di Freud per denunciare lo statuto mitico della meta psicologia come modello non scientifico, come insieme di presupposti darwiniani. Su questo aspetto ha particolarmente insistito un libro recente, Freud biologo della mente. Ma per andare dove? Certuni pensano che si finirebbe per gettare via il bambino con l’acqua sporca, e non resterebbe allora che andare verso una psicologia generale. È quanto i teorici americani, come Arlow e Brenner, promotori di una dottrina all american continuano a denunciare. È quanto Brenner ha fatto in una relazione prospettica, nel ’79, al Congresso Internazionale di New York, dove sostiene che la psicoanalisi, la metapsicologia, non è una scienza, ma – afferma – quel che ci separa dalla psicologia è il fatto che noi procediamo mediante osservazioni naturali mutuate in base a un modello induttivo e a una verifica nelle prove cliniche. Si vede che Brenner è rimasto del tutto al di fuori dal dibattito con cui gli epistemologi, per altro americani come Kuhn, Popper, Feyerabend o Lakatos, hanno scosso alcune certezze su ciò che è la scienza rispetto al vero. Ma direi che la posizione più grave è quella che prende Jacob Arlow, in un articolo del 1980 sul Psychoanalitic Quarterly (che precede la traduzione del testo del dottor Lacan Il mito individuale del nevrotico) in cui riconosce l’onnipresenza della metafora nell’esperienza analitica, e ne fa volentieri la condizione della possibilità della cura, ma ne trae questa bella conclusione: poiché la metafora è fondamentale, allora restiamo con il nostro modello pseudo-energetico, poiché è metaforico. Una situazione del genere non può durare a lungo. Autori come Heinz Kohut a Chicago dicono chiaramente di abbandonare il modello pulsionale. Ma che cosa vuol dire? Non basta valorizzare i fenomeni del narcisismo nella psicoanalisi, per pensare di essere a posto con il suo oggetto: questo oggetto “a” ritorna nel dibattito ed è quello che si può prevedere sul futuro delle riflessioni del movimento americano in particolare. In Inghilterra le cose sono leggermente differenti, per esempio grazie agli scozzesi, Fairbairn, Guntrip. Gli inglesi sono un po’ più avanti, rispetto agli americani; partendo dalla relazione d’oggetto, fin dagli anni ’50 hanno insistito sulla dimensione intersoggettiva in psicoanalisi. Hanno sempre tenuto conto del soggetto e dei meccanismi del narcisismo, solo che attualmente segnano il passo. Segnano il passo perché l’intersoggettività, cioè ciò che hanno chiamato lo spazio transizionale tra i due soggetti, inciampa su un punto. Si ha un bell’idealizzare lo psicoanalista come l’altro soggetto, come il soggetto buono, quello che permette tutte le transizioni possibili, ma a un certo punto, inesplicabilmente, diventa un oggetto, un oggetto transizionale, e viene a costituire un serio imbarazzo per il soggetto che era venuto solo per passare o transitare. Il sintomo del movimento inglese è precisamente la difficoltà di teorizzare la fine dell’analisi. Un esempio patetico è quello di Guntrip che racconta la sua analisi dapprima con Fairbairn e poi con Winnicott. È patetico vedere questi uomini di settant’anni, Winnicott e Guntrip, tutti e due psicoanalisti famosi e con una lunga esperienza, tentare reciprocamente di convincersi che “la madre buona” non esiste, e che tuttavia si può continuare a credere che l’oggetto non mancherà mai. Si può anche vedere la difficoltà di terminare un’analisi e di questo si può fare la teoria, dal momento che analisi si terminano ogni giorno, come per esempio nella traduzione recente di un libro di Winnicott. Alla fine, quando lo psicoanalista pensa che l’analisi sia terminata mette alla porta il paziente, all’inglese, gentilmente, ma dicendogli che lo odia. Qualche volta va molto bene, per esempio con la sua nipotina, che gli risponde che anche lei lo odia e si separano gentilmente. In altri casi può andare peggio, come con Guntrip: il paziente non la smette di telefonargli per ricordargli che finché c’è odio c’è amore di transfert. Gli inglesi, come gli americani, si scontrano con queste difficoltà: come concepire la ripetizione se l’inconscio non è strutturato come un linguaggio? Come ricordava Jacques- Alain Miller, questo non vuol dire che l’inconscio sia fondato sulla linguistica. È il limite che la linguistica incontra oggi, come attestano le difficoltà che incontra Chomsky nei suoi ultimi libri, nella sua concezione della grammatica come organo. Questo non preoccupa affatto la psicoanalisi. Lacan ricordava che lo psicoanalista è in anticipo sulla linguistica; è in anticipo perché non si occupa del senso, si occupa del fatto che il suo dire sia efficace. Ecco perché Lacan non crede che ci sia un organo del significante, la cui sensazione sarebbe l’esattezza grammaticale, come pensa Chomsky. Lo psicoanalista sa che c’è una funzione della parola, ma che questa non ha un organo: c’è un campo del linguaggio, il che è tutt’altra cosa. Quest’organo non ha sensazioni. Al posto di ogni sensazione dell’altro sesso, dell’interlocutore sessuale, c’è il godimento. Per questo Lacan fin dagli inizi ha interrogato i limiti della linguistica. In fondo la genitalità di cui in Italia ha parlato il dottor Fornari è un paradosso, come ricordava il dottor Lacan. È un paradosso fondato sul fatto che non c’è rapporto sessuale. Questa ex-sistenza di un rapporto sessuale, concepito come genitale, fa sì che al suo posto ci siano dei sintomi: la psicoanalisi ne è uno. Il punto comune tra la psicoanalisi e la cultura è il disagio. Non si tratta soltanto come dicevo all’inizio, del fatto che c’è un disagio nella psicoanalisi, il fatto è che la psicoanalisi è un sintomo, è un sintomo del reale di questo mondo scientifico di cui ci parlava Jacques- Alain Miller. MARCO FOCCHI – Ringrazio i due relatori per le loro esposizioni, molto dense, molto interessanti, che ci hanno fatto passare attraverso le impasse e le risorse della psicoanalisi, come Miller; mentre Laurent ci ha dato una panoramica del sintomo della psicoanalisi nei paesi anglosassoni e altrove. Direi che ci sono elementi più che a sufficienza per passare al dibattito: ci sono forse delle questioni o possono esserci degli interventi, lascerei la parola al pubblico. SIGNORA X – Avete accennato, citandoli appena, ai due elementi portati da Lacan, cioè lo sguardo e la voce, che a mio avviso sono primordiali, vi siete invece imbarcati tutti e due in tesi fantasmagoriche, interessanti, in frasi molto lunghe, difficili….senza parlare in definitiva del lavoro di Lacan sullo sguardo e la voce. Quindi sono desolata, aspetto, aspetto ancora… JACQUES-ALAIN MILLER – Avrei piacere che qualcuno dei presenti mi ragguagliasse sulla situazione della psicoanalisi in Italia…forse quelli che ne stanno facendo esperienza. È presente qualche psichiatra? C’è un o psichiatra italiano? Se volesse essere così gentile da alzare la mano…nessuno? Viganò vuol dire qualcosa sui rapporti tra la psicoanalisi e la psichiatria? CARLO VIGANÒ – C’è stata recentemente un’iniziativa di un settimanale, “ L’Europeo”, che per alcune settimane, ha allegato dei fascicoletti di documentazione sull’“altra medicina”, altra oltre quella istituzionale, e un primo fascicoletto riguardava l’agopuntura, erano quaranta o cinquanta pagine; un secondo, credo, l’omeopatia, altrettante pagine; un terzo fascicoletto riguardava quaranta tipi di altre medicine, tra cui la psicoterapia e per la psicoterapia venivano indicate alcune associazioni reichiane. Sentendo prima il discorso mi chiedevo, se queste medicine fossero altro, e altro rispetto a punto a quali medicine. Credo che in Italia non sia diverso che altrove. C’è solo qualcosa di diverso rispetto a ciò che ho sentito dire a proposito della medicina e della psicoanalisi. È che in Italia la psichiatria non è tutta farmacodipendente o, come dicevate, dipendente dalla chimica. C’è una psichiatria in Italia che dipende da un altro discorso, che non è scientifico, e che è il discorso politico. Cioè c’è in Italia una psichiatria che fa un discorso, un’eziologia e una nosografia e via di seguito, a partire da quelle che vengono dette, molto genericamente, le cause sociali della malattia. Volevo segnalare solo questo. È una psichiatria che ha una dignità teorica, che ha uno sviluppo teorico. Recentemente c’è stato un incontro a Volterra per discutere della scienza in psichiatria. Ci si sta adesso interrogando sull’eziologia sociale e su che rapporto abbia questo discorso con la scienza. Credo che in questo settore della psichiatria italiana sia molto interessante vedere un contributo della psicoanalisi e anche della psicoanalisi lacaniana, perché questa psichiatria, chiamiamola così, anti-istituzionale, questa psichiatria politica, ha seguito un itinerario che sarebbe interessante confrontare con l’eredità di Freud. JACQUES-ALAIN MILLER – Lacan ha detto qualcosa sull’antipsichiatria: che era un movimento di liberazione…degli psichiatri, per tentare di liberarsi proprio dalla psichiatria. Non è sicuro che ci riescano, ma è interessante che lei abbia notato l’importanza in Italia della dimensione politica nel campo della psiche. Questo è evidente specialmente per gli allievi di Lacan in Italia. Ho detto allievi, ma farei meglio a dire seguaci, perché per essere allievo di Lacan occorre quanto meno frequentare per un po’ Lacan. Molti in Italia fanno sfoggio di Lacan da circa dieci anni, ma sono ripartiti secondo le loro affiliazioni politiche e ideologiche: i lacaniani del P.C.I., i lacaniani della D. C., i lacaniani del P.S.I., e c’è ancora qualche altro gruppetto. Senza dubbio corrispondono alla tradizionale ripartizione dell’Italia, sfaldata nelle sue regioni. Ma io vorrei sapere che cosa ne pensate, perché la cosa ha una sua precisa importanza. Il fatto è che in Italia non c’è nessuna garanzia di psicoanalisi lacaniana perché, comunque, per questo occorre il gruppo. Occorre l’esperienza e la tradizione. È un fatto che in Italia c’è interesse per Lacan, ma non è affatto sicuro che vi sia psicoanalisi lacaniana. Mi piacerebbe quindi sapere se questa è una mia idea o se è quello che pensate anche voi. MARIO FRANCIONI – Faccio una domanda un po’ indiscreta: qual è lo scopo, non certo politico visto che sono stati esclusi i partiti, della vostra venuta in Italia? Ora la mia domanda, che non vuole essere troppo provocatoria, ma in parte lo è, è questa: quali sono i meccanismi, conoscitivi o pulsionali strettamente psicoanalitici, che fanno sì che il discorso psicoanalitico in generale o lacaniano in particolare sia frainteso? Il meccanismo del fraintendimento è riportabile a meccanismi analitici? Ho discusso con Pontalis la possibilità di scrivere la storia della psicoanalisi in termini puramente analitici: meccanismi di resistenza o di altro tipo. Non è esatto dire che in Italia (mi riferisco al primo discorso) è stato fatto un discorso come se Lacan fosse ignorato. Almeno sul piano culturale, non dico di analisi, Lacan è conosciuto da molti anni in Italia, anche nei termini scientifici del dicibile di Lacan. JACQUES-ALAIN MILLER - Non ho assolutamente voluto parlare di un deficit in Italia rispetto a Lacan. Al contrario il pubblico italiano è stato particolarmente pronto, particolarmente rapido, nonostante gli ostacoli della lingua, a interessarsi a Lacan e, effettivamente, da molti anni. Ma questo rende tanto più notevole il divario tra l’interesse culturale pubblico per Lacan e l’inesistenza di un gruppo analitico lacaniano italiano. Quando dico italiano, intendo dire nazionale. Lacan ha fatto molti tentativi per far nascere un gruppo italiano. All’inizio degli anni ’70 ha riunito alcuni suoi seguaci per incoraggiarli a riunirsi nonostante le loro divergenze ideologiche e politiche. La constatazione di fatto è che le divergenze ideologiche e politiche hanno avuto la meglio. Bisogna dunque constatare, a quanto pare, che in Italia il discorso analitico non aveva una autonomia sufficiente rispetto ai vari discorsi politici. Questo è ciò che posso dire, è infatti quello che penso, e se potete farmi ricredere non domando di meglio che d’essere informato. R. QUARELLO – Io chiederei un discorso più esplicito da parte di Jacques-Alain Miller e dei presenti in sala che appartengono a tre gruppi sicuramente, per quanto li riguarda, di derivazione lacaniana. So che ci sono in sala dei menbri di questi gruppi e chiederei un discorso più esplicito. ROSALBA DAVICO – Io avrei una serie di problemi da porre. Ed è molto difficile, per ragioni lacaniane note. Allora cerco di farlo nei limiti del linguaggio. Non c’è niente di sconvolgente se la scuola lacaniana non è unitaria e se non è in Italia il modello che Lacan vorrebbe. Anche perché l’Italia non è la Francia, non è la Germania, non è l’Inghilterra. Quindi non c’è niente di eccezionale in questo. È molto difficile che Lacan abbia un ruolo a Palermo identico a quello che ha a Parigi. Questo non è eccezionale, anche gli animali si muovono in modo diverso secondo le circostanze ambientali, vista la moda degli ecosistemi. Credo che uno stesso problema metta insieme la gente, e poi sicuramente la divida. Bisogna che la psicoanalisi, prima o poi, si domandi se le interessa veramente la sofferenza umana, perché non ne parla mai. Noi stiamo facendo degli esercizi molto interessanti. Lei ha perfettamente ragione quando dice che dobbiamo istruirci: siamo terribilmente indietro! Io trovo che tutto sommato restiamo addirittura alla vigilia di una rivoluzione psicoanalitica. Certamente un fenomeno molto positivo, e sicuramente nel senso auspicato da Lacan è il fatto che la gente si riunisca a parlare di parole, di linguaggi di cui si è perfettamente convinti che non servono a nulla per cambiare certe realtà. Però la gente ha capito una cosa: che è importante parlare, e questa è una grandissima rivoluzione, perché dieci anni fa non ci credeva. Però credo che la rottura, l’incomprensione non sia più una questione culturale e di miglioramento di linguaggio, anche tecnologico o in campo sperimentale. Non si tratta di aggiungere definizioni migliori su quello che è normale o no. Il problema è sapere se chi si occupa della sofferenza umana si è posto il problema di quello che è la sofferenza umana e ne vuole parlare. Allora bisognerebbe parlarne di più. Lei può rispondermi benissimo che qualsiasi cosa si scriva, anche concernente un grossissimo volume sull’oggetto o non oggetto, sia parlare della sofferenza. Però la gente non lo capisce. Allora può anche succedere che qualche volta ci sia questo gioco di specchi, per cui lì, nel gruppo lacaniano (e bisognerebbe arrivare a fare questa autoanalisi) non c’è forse un elemento di autoidentificazione? Quanta gente ve nel gruppo lacaniano perché deve trovare un’identità e non lo dice? Figuriamoci poi quando non lo sa. E allora cominciamo con i giochi di parole e qui siamo in piena scolastica. Naturalmente non ha nessuna colpa Lacan, non hanno nessuna colpa le scuole lacaniane, però voglio dire che se si vuole andare avanti è un discorso che deve essere affrontato. ERIC LAURENT – Nella sua esposizione è molto interessante che in fondo lei ci rimproveri di parlare troppo del linguaggio e non abbastanza della sofferenza. Ma per l’appunto si trova che l’essere umano soffre di linguaggio. Siamo tutti compressi in uno spazio esiguo che è una scatola-per-parlare e si vede come questo ci fa soffrire. Per questo abbiamo tentato di sottolineare che in fondo quel che interessa a Lacan non è nemmeno la parola, direi neanche la sofferenza, perché la sofferenza interessa molto la Chiesa cattolica e tutti quelli che vogliono alleviare la sofferenza umana. La carità ha dei limiti, e per questo, perché ha dei limiti, Lacan, come gli psicoanalisti in genere, parlano piuttosto del godimento. Dopo tutto la sofferenza umana non è niente. ROSALBA DAVICO – Ma esiste! ERIC LAURENT – Sì, ma c’è di peggio, ed è il godimento. ROSALBA DAVICO – È un’opinione! ERIC LAURENT – È quella, mi sembra, di Freud, in quanto Freud sottolinea che l’uomo, l’essere umano, uomo e donna, gode del suo sintomo. Questo per il primo punto. Il secondo punto è che effettivamente non ci dispiace che l’Italia non sia la Francia perché non potremmo altrimenti godere del nostro soggiorno a Torino. Ma quello che constatiamo circa la difficoltà di costituire un gruppo in Italia, nella sua dimensione di unità nazionale, in questa patria del Risorgimento lo si può dire, è che la funzione del gruppo è essenziale per la dimostrazione. E, senza seguire la tesi di Khun riguardo alla scienza, all’epistemologia, o le posizioni piuttosto estremistiche di Feyerabend, si deve constatare che l’epistemologia moderna accentua la funzione del gruppo nella dimostrazione scientifica come tale, ed è in questo senso che, come notava Carlo Viganò, la questione del gruppo si pone in un’altra dimensione rispetto a quella politica. SIGNORA X – Quando lei dice che è necessario essere un gruppo per fare una prova, è per fare la prova lei stesso o per la persona che fa l’attività? ERIC LAURENT – Se vuole il problema è tutto qui: come si riconosce uno psicoanalista? MARCO FOCCHI – Altri vogliono raccogliere l’invito a parlare della situazione della psicoanalisi o della psichiatria in Italia? MARCO BINASCO – Sì, solo per dire che prendo come una domanda provocatoria quella fatta da Miller, aggiungendo che è un peccato non sia stata fatta prima, e arrivi alla fine del dibattito quando non abbiamo più tempo per parlarne. Dico che la prendo come provocatoria per il solo fatto del riferimento a dei gruppi fatto da Miller. Non può sfuggire a Miller, che è un conoscitore della situazione italiana, che il riferimento a dei gruppo, per esempio i gruppi ripartiti secondo la patente politica, è perlomeno della storia, se pure non è storia mitica. La situazione si presenta, se non altro a chi guarda, molto differente e non può essere coperta, così, da questo termine di gruppi o di ripartizioni. Per la questione del gruppo nella prova, invocata giustamente da Laurent, se ci dovessimo attenere a questa allora, esiste per esempio un’Associazione Psicoanalitica Italiana, diretta da Monsieur Verdaglione, come dite voi in Francia, che è un gruppo nazionale, ha le sue attività di formazione, ha la sua passe, ha la sua pubblicistica, ha i suoi movimenti di capitale ecc, ecc. Quindi direi che è qualcosa di estremamente…. JACQUES-ALAIN MILLER - …..lei parla di un gruppo psichedelico! MARCO BINASCO – Questo è un gruppo. Poi da un’altra parte c’è una formazione che non è un gruppo, ma è una coppia, che – credo – è una formazione diversa da un gruppo anche sotto il profilo della questione della prova, che ha un suo funzionamento di scuola. E poi per limitarsi all’ultima, o prima, delle formazioni storiche, non c’è niente, cioè non c’è un gruppo, ci sono delle persone che lavorano assieme, per esempio nei cartelli. Di costoro bisogna dire – per togliere un po’ l’effetto di désaveu che mi sembrava avessero le parole di Miller sull’appartenenza, o pardon, sul contatto, sull’essere attorno a Lacan, come diceva Miller, - bisogna pur dire che hanno avuto rapporti molto stretti con la Francia, con Parigi. Quindi su questo piano le cose si presentano in modo molto diverso. Mi sembrava necessario dissipare l’effetto un po’ d’illusione che potevano avere i termini usati da Miller nel suo intervento. La questione del riferimento a Parigi, che lei ha posto d’altra parte, è capitale e non bisogna misconoscerla nella sua storia. JACQUES-ALAIN MILLER – È assolutamente certo che il nazionalismo non ha sede. Quando il dottor Lacan giovane psichiatra era preso dall’interesse per Freud nella Parigi degli anni ’30, i suoi vecchi maestri, più o meno dell’Action Francaise, amici di Maurras e di Barres, come Pichon per esempio, si rammaricavano che una gemma dell’intelligenza francese come il giovane Jacques Lacan si fosse germanizzato. È un fatto che Lacan non è stato in analisi con un analista francese, ma con Rudolf Loewenstein, che era sfuggito a Hitler e si era fermato dieci anni in Francia prima di trasferirsi negli Stati Uniti. È così che il movimento lacaniano si è innestato direttamente sul movimento viennese. Credo che un insegnamento della psicoanalisi sia quantomeno di non accordare troppo pregio a gretti valori patriottici. In ogni caso è quello che si è potuto constatare in America Latina, in luglio in occasione del Congresso di Caracas, e cioè che i lacaniani sono considerati francesizzati, ma credo che questo momento verrà superato. SIGNOR Y – Io ho un problema: ho l’impressione di cogliere qualcosa di contraddittorio quando lei ha detto che, agli inizi degli anni ’70, Lacan riunì alcuni suoi allievi per cercare di formare un gruppo unitario (conosco bene la storia). Come mai poi questa cosa è fallita? Ciò doveva avere a che fare anche direttamente con quella che è la scuola di Lacan in Francia. Le persone che vennero riunite non erano le uniche che in Italia si occupavano di Lacan; c’erano altre persone altrettanto colte sparse in oscure università della provincia che conoscevano Lacan. Quindi avvenne o un’operazione tipo: “Tu, tu, tu, andate e fate” e occorreva anche un imprimatur. Diversamente si poteva decidere di dire: “Bene, il seme è gettato, vediamo cosa succederà in Italia”, nel confronto con una situazione culturale, politica, di capacità scientifiche completamente diverse. Io credo che la situazione italiana rifletta da un lato alcune specificità nostre, ma dall’altro anche una certa oscillazione da parte di una struttura dell’École freudienne de Paris. JACQUES-ALAIN MILLER – Io credo che occorra un imprimatur. Questa non è certo una posizione per compiacere l’uditorio. Penso che sul piano culturale il lavoro di Lacan debba e possa avere la più ampia diffusione, mentre sul piano della pratica analitica non è sufficiente un riferimento culturale a Lacan per potersi fregiare del suo nome presso quelli che soffrono, come diceva la signora. A questo proposito l’istituzione lacaniana dà ad alcuni suoi membri una garanzia e in conseguenza dà una garanzia a quelli che vanno a trovarli e che hanno una possibilità di fare una psicoanalisi con qualcuno che nella sua pratica può fregiarsi della formazione lacaniana. Gli altri possono ispirarsi liberamente a Lacan, e, se alla fine la loro esperienza si rivela positiva, se è riconosciuta come tale dal pubblico italiano, con il tempo saranno in grado di dare da una posizione indipendente una garanzia che valga qualcosa. Si tratta di sapere se si batte moneta autentica o moneta falsa. Il problema è che nella psicoanalisi non c’è la garanzia della riserva aurea. Da una parte dunque ci sono le garanzie fornite dall’istituzione francese a certi suoi membri, alcuni dei quali stranieri, e dall’altra le garanzie che potranno formare, con il tempo e facendo le loro prove, tutti quelli che vogliono tentare. Ma la nascita della garanzia è lunga e difficile, e si compie a rischio e pericolo di ciascuno, come il tirocinio analitico. FABRIZIO ELEFANTE – Il discorso che Miller ha appena fatto ci riporta alla domanda che Laurent si era posto prima: come si riconosce lo psicoanalista? Credo sia una delle questioni cruciali per l’esperienza della psicoanalisi in questo momento. Per l’esperienza che ne ho è praticamente impossibile rispondere a una domanda del genere. È impossibile riconoscere uno psicoanalista. Ma, sempre per l’esperienza che ho, non è affatto impossibile riconoscere chi non è uno psicoanalista. Accade di riconoscere nitidamente situazioni all’interno delle quali si può dire con certezza che qualcuno non funziona come psicoanalista, che si tratta d’altro. Miller prima aveva usato il termine sfruttamento del transfert: exploitation du tranfert. Se questa questione ritorna oggi, dopo un lavoro e un impegno molto grosso – ritengo – e molto lungo di Lacan e dell’École freudienne sul problema della passe, probabilmente si tratta di reinterrogarsi sul questa questione. Io non posso tanto farlo per quanto concerne la situazione francese, se non per le letture e i vari scritti. Ma per quanto concerne la situazione italiana, si sarà notato l’imbarazzo a rispondere prontamente alla domanda posta da Miller sulla situazione della psicoanalisi in Italia. In effetti qui occorre porre un problema: la psicoanalisi in quanto pratica impone una certa discrezione rispetto alla pratica stessa. Ma vi sono anche situazioni, circostanze come per esempio in Italia, oggi dove questa discrezione diventa omertà. Omertà è un termine molto italiano. Non ho molto tempo quindi dovrò procedere in modo estremamente rapido ora. Quella che è stata chiamata l’introduzione di Lacan in Italia è incominciata all’inizio degli anni ’70 soprattutto in riferimento a tre nomi: quello di Contri, quello di Finzi e quello di Verdiglione. Cito questi tre perché soltanto rispetto a questi tre esisteva la specificità della pratica psicoanalitica. L’interesse verso Lacan degli intellettuali era molto precedente, ma era una questione diversa. Ora, detto molto rapidamente, tutte queste esperienze si sono rivelate da un certo tempo fallimentari. La questione del fallimento per chi conduce un’esperienza psicoanalitica, non è – diciamo così – un problema troppo grave. Ad ogni modo su questo fallimento non posso soffermarmi molto, è evidente che si tratta in ogni caso di individui molto differenti fra di loro. La situazione attuale è quella di una pratica psicoanalitica lacaniana che viene chiamata, con un termine tradizionale molto noto, selvaggia. Ma tuttavia è anche una situazione estremamente differente quanto al modo di riferirsi a Lacan. È su questo punto che intendo fermarmi e concludere il mio intervento. Il problema – io penso – è che c’è stato, per un certo numero di anni, un modo di riferirsi a Lacan che potremmo chiamare opportunistico: saltare sulla groppa del cavallo vincente, per così dire, qua in Italia. Ora le cose sono abbastanza mutate, c’è come una generazione nuova che ha esigenze di rigore molto più forti. Intendevo sottolineare questa questione anche per sentire eventualmente qualcosa sul problema dei diversi modi di riferirsi a Lacan. Uno lo ha già citato Miller: è quello dell’etichetta, le label, cioè quello tradizionale della scolastica lacaniana. È la questione con cui mi sono scontrato spesso personalmente ed è una cosa che richiamava anche Laurent quando parlava del rapporto che esiste tra la psicoanalisi e l’esperienza, in riferimento al fatto che spesso all’interno dei gruppi lacaniani l’esperienza viene espulsa da un certo modo di fare intervenire la parola di Lacan. In ogni caso vorrei concludere con una cosa che Lacan dice, anche se non ricordo dove, rispetto all’eredità che lascia ai suoi allievi: Lacan dice a questo proposito: io vi lascio uno stile, ma non il mio stile, e in questo forse c’è un interesse per la pratica che ci concerne. ERIC LAURENT – Desidero semplicemente dire due parole ringraziandola per aver fatto allusione, in fondo, a una generazione nuova di psicoanalisti che tentano di rifarsi a Lacan nella pratica con più rigore di quelli che li hanno preceduti una decina di anni fa. È naturalmente una speranza per il movimento psicoanalitico in Italia ed è su questo punto che ci potremmo fermare. MARCO FOCCHI – Ringrazio moltissimo i nostri ospiti che hanno posto problemi di portata enorme e sui quali il dibattito non può che interrompersi solo perché non può proseguire indefinitamente. Ringrazio anche gli intervenuti. Arrivederci.
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Agosto 2024
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