Marco Focchi Tutti abbiamo una nostra comfort zone, dove i disagi sono minimizzati, dove ci si sente in uno stato di benessere, dove è assente il senso di rischio. Il conio dell’espressione è dovuto al teorico del management Alasdair White, che l’ha definita come una condizione ansiosa neutra, nella quale il livello di prestazione può realizzarsi senza che il soggetto di senta messo a repentaglio, perché tutto è sotto controllo. Ma esiste una condizione in cui tutto è sotto controllo? Il film di Jonathan Glazer The zone of interest sembra suggerire di no. Le prime scene ci portano in un paesaggio idilliaco, in un bosco accanto a un fiume, dove una famiglia tedesca sta facendo una scampagnata. Poi le scene si spostano in una bel giardino fiorito, dove si festeggia il compleanno del capo famiglia. Quando lo vediamo scendere dalla scaletta di casa per partecipare alla festa notiamo che indossa una divisa nazista. Veniamo a sapere infatti che si tratta infatti di Rudolf Höß, il comandante del campo di concentramento di Auschwitz. Il film prosegue mostrandoci diversi quadretti di serena vita famigliare: la colazione la mattina, i dialoghi tra moglie e marito la sera prima di addormentarsi, mentre Hedwig, la moglie, ricorda con nostalgia un viaggio in Italia chiedendo al marito quando potrà riportarla laggiù, dove si era sentita bene e coccolata.
Dietro il muro grigio del giardino di casa in cui la famigliola vive, c’è il campo di Auschwitz, dove Höß si occupa con diligenza della gestione quotidiana: riceve degli ingegneri che gli spiegano il funzionamento degli inceneritori, studia la modalità di dispersione dei resti e tiene la contabilità degli arrivi e delle “partenze". Non vediamo mai nulla delle atrocità che non ci è difficile immaginare dietro il muro. Sentiamo ogni tanto alcune grida lontane, vediamo prigionieri entrare e uscire dalla villetta degli Höß per mansioni di servizio. Il film non ha bisogno di mostrarci apertamente le efferatezze del campo per farci sentire la discrepanza tra la vita serena nel giardino e quel che accade al di là del muro. I coniugi non sembrano turbati da quel si sa ma non si vede, e Hedwig manifesta solo la preoccupazione di far crescere un po’ di verde per nascondere il grigio del muro che separa la zona d’interesse, il giardino, dalla zona degli orrori. Siamo sicuri che nulla penetri di quel che succede al di là del muro? Quando Höß viene chiamato a Berlino per ricevere disposizioni dai superiori lo vediamo, in un momento, aggirarsi solitario tra le ampie scale di marmo dei palazzi del potere e vomitare, apparentemente senza ragione. Sarà la preoccupazione del possibile trasferimento che si profila, o l’ombra di quel che accade al di là del muro, dove ogni tanto si vede una lenta colonna di fumo nero salire al cielo? Tuttavia non lasciamoci fuorviare dal contesto, che distanzia dal nostro presente la storia che ci racconta. Non viviamo anche noi in una zona d’interesse, saziati dagli agi del consumismo, impegnati nella giostra, nel parco divertimenti in cui siamo rinchiusi, mentre intorno a noi c’è l’Ucraina, c’è Gaza, c’è la Somalia? Lacan diceva che la bellezza è l’ultima barriera che vela l’orrore, un po’ come il giardino fiorito degli Höß nasconde Auschwitz. E in fondo, non dobbiamo considerare che quel che il film ci mostra, apparentemente lontano, mostruoso, circoscritto dal tempo di una storia conclusa, è quel che viviamo ogni giorno, dove in modo sotterraneo, dietro le apparenze della nostra vita confortevole, tranquilla, ornata di svaghi, scorre il fiume turbolento della pulsione, che ci travolge nell’eros, ma che ha la sua punta estrema nella pulsione di morte?
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Agosto 2024
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