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Di cosa si parla

La traslazione nei centri clinici

12/7/2018

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FotoClotilde Leguil

Intervista a Clotilde Leguil

​
CPCT: Vorremmo avere alcuni chiarimenti su diversi punti specifici riguardanti la gestione della traslazione nella cura lacaniana, in quanto orientata da e verso il reale, e sulla sua specificità nel particolare dispositivo del CPCT (Centre Psychanalytique de Consultations et de Traitement). Freud fa della traslazione “il vero e proprio fattore dell'azione curativa e della sua riuscita" e al tempo stesso  “la più potente delle resistenze” al trattamento. In poche parole, e per introdurre la questione, in che cosa consiste il contributo lacaniano al concetto di traslazione?

Clotilde Leguil: Non è un problema specifico del CPCT, sebbene riguardi anche il CPCT, in quanto gli psicoanalisti che vi lavorano sono lacaniani. Potremmo riprendere la questione della concezione lacaniana della traslazione, domandandoci che tipo di Altro incontriamo quando incontriamo un analista, e un analista del CPCT.


Quali chiarimenti ha portato Lacan rispetto alla traslazione di Freud? Il primo contributo di Lacan è stato risolvere l’aporia freudiana consistente nell'osservare che la traslazione era un ostacolo alla cura – l'amore di traslazione può bloccare la cura – e che allo stesso tempo era una condizione della cura. Lacan, a partire dal Seminario I, ha preso sul serio questa domanda e ha dimostrato che potremmo fare una distinzione, presente anche nello stesso Freud, tra la traslazione da un punto di vista immaginario, l'amore di traslazione da un punto di vista immaginario – vale a dire la relazione affettiva che potrebbe essere stabilita con l’analista – e la traslazione da un punto di vista simbolico. Nel Seminario I Lacan lo spiega molto bene dimostrando che alla fine la traslazione dal punto di vista immaginario è quel che fa emergere la resistenza, l’inerzia. È quanto ha mostrato anche negli Scritti, in "Intervento sulla traslazione", a proposito del caso di Dora, definendolo in modo molto sottile in relazione allo statuto della parola nella traslazione. 


Rielaborando il Seminario I ho imparato molto, perché quel Lacan vi mostra, con gli strumenti del suo primo insegnamento, che la parola in analisi può avere due statuti. Può avere lo statuto della parola rivolta all’analista come altro minuscolo, come un simile. Come tale essa può essere ostacolata. Il paziente, invece di parlare di sé, parla rivolgendosi a un altro e infine si frena nelle proprie associazioni, in ciò che può dire. Lacan sostiene che la presenza dell’analista in questo caso si attualizza troppo, che l'analista è troppo presente. È la traslazione nella sua dimensione di inerzia, è la traslazione immaginaria. Distingue poi un secondo lato della traslazione, la traslazione nella sua dimensione simbolica, che conferisce un altro statuto alla parola.
Lacan per questo fa riferimento allo statuto sacro della parola. Questa parola non è più una parola di comunicazione ma una parola di rivelazione. Non è più rivolta all'analista come altro minuscolo, ma avviene in quanto parla in lui il discorso dell'Altro.
Lacan nel Seminario I ricorda la prima ricorrenza in cui Freud usò il termine Übertragung, spostamento, trasferimento di qualcosa. Lo ha introdotto per la prima volta nella Traumdeutung, a proposito dei sogni, dimostrando che si trattava di una traslazione di significanti. Non è tanto la traslazione sulla persona dell'analista che conta, quanto piuttosto la traslazione dei significanti. L’apporto di Lacan a proposito della teoria freudiana della traslazione è stato straordinariamente illuminante.
La distinzione della traslazione tra la sua versione immaginaria, libidica e la sua dimensione simbolica – cioè il trasferimento di significanti che si attualizza durante la cura e che permette al soggetto stesso che parla di ascoltare ciò che dice al di là di ciò che crede di dire – è fondamentale. Potremmo dire infine – e sarebbe un abbozzo del contributo di Lacan – che Lacan ha fatto un avanzamento sulla questione della traslazione dimostrando che l’analista non occupava solo il posto dell’Altro maiuscolo per far avvenire in colui che parla il soggetto dell'inconscio, ma che occupava un posto di oggetto a minuscola – vale a dire  che occupava il posto di colui che causa il desiderio di parola, che causa il desiderio di parlare. Con Lacan  abbiamo a che fare con un'altra definizione della presenza dell’analista: non è più la presenza in eccesso che ostacola la libera associazione, ma è la presenza corporea a partire dal desiderio che consente la messa in atto dell'inconscio, con tutto ciò che questa messa in atto comporta sul piano della pulsione. 


CPCT: La traslazione inizia a volte a stabilirsi anche prima dell’inizio della cura. È presente nella scelta di un analista piuttosto che di un altro. Che ne è quindi al CPCT, dove il paziente non sceglie il suo analista? Possiamo in questo caso parlare di traslazione verso l’istituzione o, in altri casi, verso la psicoanalisi?


C.L.: Quel che dici è molto interessante perché consente di specificare che le condizioni dell’incontro con un analista al CPCT non sono del tutto identiche alle condizioni d’incontro con un analista quando c’è una domanda d’analisi in senso stretto, anche se non sempre si sa a chi rivolgersi per questa domanda. Mi è capitato di ricevere pazienti al CPCT come consulente. Penso a una persona in particolare. È stata una situazione molto divertente. La persona viene e mi dice che vorrebbe fare un'analisi. In generale, questa non è la prima domanda che classicamente incontriamo al CPCT. Non c'era tuttavia alcun motivo per rifiutare questo paziente, ma quel che soprattutto era buffo era che, lasciandolo parlare, mi rendo conto che sa esattamente con chi vuole fare un’analisi e che ha già pensato a qualcuno dell’Ecole de la Cause Freudienne. Ma poiché è angosciato, vorrebbe prepararsi iniziando al CPCT a costi contenuti. Interessante in questo è che la persona è venuta al CPCT quando aveva già in mente un analista, in realtà l’angoscia ha fatto sì che si trovasse in una strategia di evitamento, cercando una deviazione al CPCT in modo da non iniziare subito.
Solitamente si tratta di due diversi tipi di domande, e i pazienti che incontriamo al CPCT non sempre sanno cos’è la psicoanalisi. Spesso trovano l'indirizzo del CPCT su Internet, o sono stati indirizzati dai colleghi che lavorano al CMP. Poiché abbiamo persone provenienti da tutti i ceti sociali, non sono assolutamente persone iniziate a Freud o a Lacan. In quale momento prende quindi forma la traslazione con il CPCT? La traslazione può svilupparsi già alla prima consultazione perché ciò che incontra il paziente arrivando al CPCT – contrariamente a quel che si può incontrare più spesso nella società, nelle istituzioni psichiatriche che non danno spazio alla psicoanalisi – è un Altro che non fugge di fronte alla traslazione. Stavo pensando a un'espressione che Guy Briole ha usato in un'intervista con François Leguil pubblicata nell'ultimo numero della rivista La Cause du Desir nel testo “Le follie contemporanee". Briole ha evocato la "fobia della traslazione oggi". È vero che oggi l'ideologia scientista va nella direzione di una fobia della traslazione. Soprattutto non ci deve essere nessuna traslazione, ma un discorso scientifico, oggettivo.


Possiamo quindi dire che la specificità del CPCT come istituzione per i pazienti è il fatto di  proporre l’incontro con un Altro che sostenga questa traslazione, che non sia catturato in questa fobia della traslazione, che non cerchi di oggettivare i sintomi e che dal primo momento accolga il lamento, la domanda, e quindi la parola, accordandole un valore senza fuggire dalla posizione di soggetto supposto sapere che non fa affidamento sul discorso della scienza. Questa è la prima cosa.


Quindi sì, la traslazione può aver luogo con il consulente, tuttavia questa traslazione è anche ciò che consente al paziente di avere fiducia nel percorso proposto dal consulente, per continuare con chi esercita nel CPCT, affidandosi a questa prima parola. Penso che nei primi colloqui al CPCT sia davvero importante consentire al paziente di capire perché sta venendo. Partire dalla base, dalla clinica del CPCT, dove non si è in un grande processo d’analisi. Non bisogna far coincidere tutta la traiettoria della cura con il primo incontro al CPCT. Siamo allo stadio elementare della clinica della sofferenza umana, come dice Lacan, quando cioè una sofferenza diventa una interrogativo su di sé. È già straordinario che la sofferenza possa diventare una interrogativo. I primi colloqui possono permettere a questa sofferenza di diventare un interrogativo.


Può anche accadere che i consulenti facciano dei trattamenti. Non so se succede sempre ma, in ogni caso, quando ho lavorato al CPCT, è successo perché alcuni colloqui hanno fatto accadere qualcosa immediatamente dopo aver parlato con i consulenti. La traslazione d'altra parte non significa necessariamente che il soggetto farà il trattamento al CPCT. Ricordo una giovane donna venuta per molestie sul lavoro. Mi aveva presa come testimone di quel che le stava accadendo sul posto di lavoro, il reparto di una grande salumeria, dove era stata molestata dal suo superiore. Pensava di c’entrare in qualche modo per il fatto di essersi trovata in quella condizione, e che avrebbe dovuto fare per questo un trattamento. Era stata indirizzata al CPCT dallo psicologo del lavoro. Ho dovuto riceverla tre volte perché lei riuscisse ad accorgersi da sé che non c’entrava affatto in quel che le era successo e che importante per lei era invece difendersi legalmente.
In questo c’è quindi una traslazione minima, una traslazione che le ha permesso di avere fiducia in se stessa passando attraverso l'Altro, ha potuto quindi avere fiducia nella sua parola. È un po' un contro-esempio, ma che mostra la varietà degli incontri che possono essere fatti al CPCT. Penso che la specificità di questa istituzione sia di permettere a tutti coloro che si avvicinano di incontrare un Altro che non giudica, che non dà necessariamente consigli e che permette al paziente di usare la traslazione per prendere da sé la propria decisione di impegnarsi o no in un trattamento.


CPCT: Il dispositivo del CPCT, come tale, offre un primo tempo di consultazione e un secondo tempo di trattamento, pone il problema della gestione della traslazione. Lei, che ha praticato al CPCT come consulente, potrebbe dirci quali particolarità determina nella consultazione il passaggio al trattamento in termini di traslazione?


C.L.: Ho seguito a questo proposito un suggerimento che Hélène Deltombe ci aveva dato quando era consulente e direttore del CPCT. Mentre la paziente parlava, Hélène si tuffava nei suoi appunti, spostandosi così un po' dal punto a cui la paziente si rivolgeva. Fin dall’inizio assumeva una posizione un po’ discosta avvertendo giustamente il paziente che si trattava di un primo colloquio e che il lavoro avrebbe potuto continuare con qualcun altro. Si produce allora come una fiducia nella parola del consulente che è stato in grado di individuare attraverso una frase, una scansione, un punto da trattare. Penso dovremmo anche considerare che quando ci sono colloqui in cui il paziente ha detto qualcosa che non aveva mai detto prima, non gli  chiediamo di ripeterlo una seconda volta e di ricominciare da capo con qualcun altro. Bisogna essere pronti quando si sente che fin dall’inizio, alla prima consultazione, si è messo in moto qualcosa di intenso.


CPCT: Il tempo limitato del trattamento, massimo sedici sedute, implica una particolarità sulla questione della traslazione?


C.L. Sì, ho potuto osservare, in questo tempo limitato, che, in un certo modo, ha permesso ai soggetti angosciati dall’analisi – con l’idea che l’analisi è infinita – di impegnarsi in qualcosa in cui a un certo punto ci sarebbe stata un'uscita. Il fatto che il tempo sia contato controbilancia il fatto che il trattamento sia gratuito, perché c’è egualmente un effetto di perdita. Non rimandiamo eternamente la possibilità di fare sedute. Dal momento in cui il paziente accetta di venire per sedici sedute una volta alla settimana o ogni due settimane, è già in gioco un rapporto con la perdita.
A un certo punto, sarà necessario avere a che fare con quel che non sarà più, che non sarà sempre lì e questo produce effetti interessanti, tocca comunque qualcosa che ha a che fare con il godimento. Alla fine del trattamento – avevamo molto lavorato al CPCT, in particolare in cartello, su questo – si vede spesso emergere la dimensione dell’angoscia. Alcuni pazienti interrompono prima della fine ed è qualcosa che riguarda l’acting out o il passaggio all'atto. Optano per la rottura piuttosto che per l'assunzione della perdita. Succede anche, ma è piuttosto raro, che i pazienti chiedano di continuare in un momento successivo. Nel corso dei cinque anni in cui ho lavorato al CPCT, sotto la direzione di Hélène Deltombe e di Victoria Woollard, mi è capitato due volte. È abbastanza raro, devo dire. Il lavoro al CPCT non porta a rimettere in discussione il senso della propria esistenza. Circoscrive il disagio a un quesito, ed è già una possibilità di trovare un luogo dove possa risuonare una questione sulla propria vita. 
Traduzione di Micol Martinez
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