Intervento di François Ansermet alla tavola rotonda tenuta a Milano, presso la sede dell 'Istituto freudiano il 26 settembre 2014, in occasione della presentazione del libro di François Ansermet e Ariane Giacobino "Autismo. A ciascuno il suo genoma", Quodlibet edizioni. Alla tavola rotonda, coordinata da Marco Focchi, hanno partecipato Domenico Cosenza, Roberto Furlan, e Fabio Galimberti, di François Ansermet Vi ringrazio molto per aver organizzato un dibattito sul mio libro. Le questioni che mi sono state poste sono le stesse che a mia volta mi pongo, e vorrei ricordare che il libro è stato scritto a quattro mani da una genetista e da uno psicanalista. La nostra idea era di considerare i punti d’arresto, i punti di blocco che ci possono essere nei due campi, punti che ci spingono a portare avanti le ricerche. È lavoro analogo a quello che ho fatto con Pietro Magistretti,, e consiste nello sviluppare una maniera di pensare che potremmo chiamare pensiero dell’incommensurabile. Non c’è infatti comune misura, non c’è analogia, non c’è termine di riferimento unitario tra il biologico e lo psichico. Ci sono dei punti d’arresto comuni, come la singolarità, o la causalità, e forse nel confronto che abbiamo intrapreso possiamo arrivare a un cambiamento di paradigma. Non si tratta di fermare le ricerche, ma piuttosto di cambiarne il paradigma. Si arriva a dei punti di stagnazione, a dei punti dove ci si scontra con ostacoli impervi. Si possono allora proseguire le ricerche nella stessa direzione, oppure cambiare paradigma, e forse oggi con la psicoanalisi e con le neuroscienze, tra genetica e psicoanalisi siamo all’alba di un cambiamento di paradigma. Per questo non cerchiamo di utilizzare la genetica o le neuroscienze per provare la psicoanalisi, ma tentiamo piuttosto di integrare le questioni che appartengono alla psicoanalisi nel campo della biologia. Si pone poi un problema: perché vediamo oggi quest’eccitazione sul tema dell’autismo? Quando ho cominciato i miei studi gli autistici erano uno su mille, adesso siamo arrivati a uno su cinquanta, e presto saremmo tutti autistici. Possiamo parlare di un problema biopolitico, utilizzando questa parola di Foucault, come faceva Marco Focchi in apertura. C’è una posta in gioco al tempo stesso biologica e politica. In un’epoca in cui siamo tutti connessi con delle cuffie, con degli schermi, con dei gadget, siamo in fondo tutti autistici, siamo rinchiusi in noi stessi e al tempo stesso siamo connessi con tutto il mondo, salvo con chi ci sta accanto. Nell’epoca in cui siamo tutti collegati produciamo quindi degli scollegati, gli autistici, diventati una figura emblematica, e per questo diciamo che si tratta di un problema biopolitico. Cosa succede? Il mondo sta cambiando. Si scrivono pagine nuove della storia e non sappiamo ancora quali siano. Il cervello sempre on line non è forse un problema del mondo contemporaneo? C’è un sistema di reti neurali per default che si blocca quando si fa qualcosa, per evitare un sovraccarico, un eccesso. Quando si fanno cose importanti quindi, in un certo senso non si fa niente, e un quesito da porsi è se oggi utilizziamo ancora questo sistema. Alcuni chiamano in causa questo sistema per l’autismo, per la depressione o per la schizofrenia, un po’ per tutto insomma. Questo è interessante, mostra infatti una convergenza con la riflessione della psicoanalisi italiana, perché si pone delle questioni sull’eccesso. I neurobiologici parlano di una sindrome del mondo sovraintenso. Questo assomiglia al nostro modo di considerare l’autistico come preso in un eccesso di godimento non ancorato, cosa che da luogo all’idea di un trattamento dell’autismo attraverso una sottrazione di godimento. Oggi assistiamo a nuovi modi di modellare l’umano, “modellare” va preso qui nel senso che dà al temine Ian Hacking. Lo si modella con il trauma, con l’iperattività e con l’autismo. La mia specialità di clinica psichiatrica con i bambini, oltre che riferirsi alla psicoanalisi, si basa su queste tre problematiche che vi ho detto. Cosa succede allora? Voglio mostrarvelo aggiungendo un’altra osservazione. Siamo nell’epoca in cui circola un particolare sofisma: quello delle basi biologiche. Eccone l’articolazione. Ci sono dei disturbi psichici, Questi disturbi psichici si suppone abbiano una base biologica, Si pensa di dimostrare questa base biologica, Se però hanno una base biologica quindi non sono psichici. 5. Quindi, come conclusione, non ci sono disturbi psichici. Questa sarebbe una bella notizia: saremmo tutti guariti. Come avete già osservato, come hanno notato Fabio Galimberti e Domenico Cosenza e anche Roberto Furlan, il dibattito sull’autismo è un dibattito sul determinismo e mette in questione la causalità naturale del XIX secolo, cioè una certa idea del rapporto diretto tra la causa e l’effetto. Ritengo che questo problema sia comune alle tre problematiche che vi ho menzionato. Dire che c’è una causalità familiare, una causalità del senso, è esattamente la stessa cosa che parlare di un gene che determina l’autismo, o che c’è una traccia epigenetica. I tre piani utilizzano in fondo la stessa idea di causalità. Io ho cercato effettivamente di fare una critica interna. Se volete, siamo pieni di false causalità. Voglio raccontarvi quel che mi è capitato con un giornalista particolarmente aggressivo. È venuto nel mio ufficio dicendo: “So che il suo servizio è di orientamento psicanalitico e che diagnosticate le madri frigide”. Sono rimasto completamente stupefatto! Non capivo cosa intendesse dire. Poi ho pensato che forse era stato fuorviato dalla somiglianza verbale tra “madre frigorifero” e “madre frigida”. Vorrei citarvi un articolo molto interessante per uno svizzero, che ha trattenuto la mia attenzione. È stato pubblicato nel New England Journal of Medicine del 2012 e parla di una correlazione tra il consumo di cioccolato in un paese e il numero dei premi Nobel. C’è poi un’altra ricerca che mostra una correlazione tra il il consumo di cioccolato e il numero di killer seriali. All’interno dello stesso giornale c’è dunque una messa in tensione di questa concezione semplificata della causalità, che costituisce un po’ l’ossessione della evidence based medicine. Penso che la evidence based medicine sia utile, perché se ho una polmonite mi aiuta a scegliere l’antibiotico migliore, ma penso allo stesso tempo che abbia dei limiti. Su questo argomento c’è un eccellente articolo del 2003, uscito nel British Medical Journal, che spiega come non abbiamo nessuna prova dell’interesse reale di utilizzare il paracadute quando ci si butta da un’aereo, perché non è stato effettuato nessuno studio in doppio cieco con un gruppo di controllo. Tutti si gettano dall’aereo con il paracadute, e non succede che uno apra il paracadute e un altro invece no. Forzo un po’ i tratti naturalmente, ma è per dire che questa problema del determinismo oggi è importante, e in esso sta la trappola della causalità in qui è caduto tutto il dibattito sull’autismo. Una questione che a volte pongo ai miei interlocutori è relativa al legame sussistente tra causalità, determinismo e colpevolezza. Perché quando la causa è genetica si ha minor senso di colpa? Oggi infatti la genetica va insieme l’epigenetica, che è ancora più colpevolizzante che non la causalità psichica. Su questo problema la rivista Nature tre settimane fa ha pubblicato un numero la cui copertina mostra una donna incinta con dita rosse puntate su di lei per dire: “Non date la colpa alla madre!”. Mette quindi in gioco il senso di colpa nella biologia. Le associazioni dei genitori dei bambini autistici lottano contro gli psicanalisti, li accusano di essere colpevolizzanti, e prendendo come contraltare il punto di vista biologico. All’interno del punto di vista biologico però, questa problema si pone oggi nello stesso modo. Aggiungo ancora un’osservazione, una risposta che in realtà non è una risposta. Si tratta del problema – che ciascuno dei partecipanti a messo in luce – che ci muoviamo oggi tra genetica, neuroscienze e psicoanalisi, e in tutti e tre questi campi incontriamo l’irriducibile questione della singolarità. Si tratta davvero una questione comune. In genetica, in particolare, si aveva l’idea attraverso il gene ci fosse una riproduzione identica, dello stesso. Si studiavano i sintomi, se ne cercavano le basi genetiche per poter sostenere di aver trovato quel che produce lo stesso identico elemento replicandolo. Oggi la genetica lavora più nel senso della produzione di una differenza interindividuale. Si è così passati dalla produzione dello stesso, dal replicarsi, alla produzione della differenza. Credo che questo sia un punto assolutamente importante. Siamo, per così dire, geneticamente determinati per non essere completamente geneticamente determinati. Ci sarebbe una determinazione biologica per un al di là del biologico. Siamo programmati per non essere programmati. Ciò significa, a questo punto, che c’è una mancanza nella causalità. La scienza lo dice affermando che c’è un determinismo della differenza. C’è sopratutto un determinismo della mancanza di determinazione. La conseguenza per la psicanalisi è allora che non si fa un lavoro nella logica del determinismo, di un determinismo causale, ma piuttosto nella logica della risposta. Quando un organismo è colpito dalla trisomia, una malattia genetica confermata, verificata, studiata, non si sa tuttavia che soggetto ne deriverà. Provo ora a rispondere alla domanda di Cosenza: “Che incidenza ha sulla cura tutto questo?” Si dice che c’è una determinazione della differenza, e quindi che c’è una mancanza nella causalità. Entriamo allora in una prospettiva clinica dove ci s’interessa piuttosto alla risposta del soggetto, al dettaglio, a quel che il soggetto manifesta di più particolare, al di là della sindrome genetica da cui è colpito. Per questo distinguerei da una parte una determinazione biologica dell’unicità, della differenza, che è diversa dalla singolarità della risposta. Come psicanalisti lavoriamo sulla singolarità della risposta, e non sull’unicità del determinismo.
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