Conferenza tenuta a San Paolo il 18 ottobre 1981 Jacques-Alain Miller Cercherò di ritrovare il tono del discorso che avevo lasciato per comunicarvi quel che mi interessa riguardo ai cambiamenti nell'insegnamento di Lacan. In questi primi tre incontri le vostre osservazioni sono andate prendendo un certa consistenza: non esattamente quella che mi aspettavo ma, nonostante tutto, qualcosa che avevo previsto: mi aspettavo il malinteso. Proverò a parlare di ciò che ci interessa: da un lato la psicosi e dall’altro la trasmissione della psicoanalisi. C'è un punto in cui la psicosi e il matema s’intersecano: il punto d’intersezione è precisamente nella scrittura: c'è trasmissione integrale. Per la psicosi si tratta di scritti di difficile lettura e, data l’impossibilità di leggerli, sarebbe davvero una sorpresa se tutta questa produzione arrivasse in libreria. Questo non impedisce che i documenti si accumulino. Lo stesso accade con gli scritti di carattere specificamente scientifico. Non sono fatti per essere letti, contrariamente ai romanzi, che sono fatti invece proprio per essere letti. Qualcosa di questi scritti può tuttavia essere insegnato, qualcosa che non ha bisogno di essere tradotto. Non ci sono rischi di incomprensione, perché in una formula logica non c'è niente da capire. Quando invece si parla di qualcosa, quando si parla a partire dallo scritto, lì cominciano i problemi. La tesi di Lacan può sembrare singolare, è che nell’esperienza analitica tutto – anche il reale, che non ha nulla a che fare con il concreto – dipende dalla scrittura. Questo si può capire e delineare solo a partire da una rete di significanti. Il reale si differenzia dal resto, soprattutto perché si presenta come impossibile, come ciò che non può essere raggiunto.
Consideriamo il tempo precedente alla nascita del discorso scientifico che, nel diciassettesimo secolo con la fisica matematica, segna un taglio netto rispetto allo stile rimasto dominante fino al secolo sedicesimo, e implica un cambiamento di prospettiva fondamentale: a partire dal momento in cui la fisica diventa matematica nasce infatti l’impossibile. Con le dottrine fondate sull’analogia tra il macro e il microcosmo -– alle quali qualcuno si è riferito qui ieri – nulla risulta impossibile. Tutto può essere correlato con tutto, non c'è un reale propriamente detto. Il reale dipende dal fatto di individuare un impossibile, e questo, per dirlo in breve, può avvenire solo con la logica. È necessario mettere l'impossibile in forma logica perché il reale emerga. Il reale è una categoria speciale per Lacan, diversa da quel che si intende con realtà. La realtà dipende dalle sensazioni che fa affiorare in noi e, se partiamo dallo statuto del desiderio evocato ieri, per il soggetto parlante c'è sempre solo “un po’ di realtà”. La realtà dipende strettamente dal fantasma, e lasciando da parte, come eccezione, il fatto che ci giunge attraverso i cinque sensi, per il soggetto la realtà è il suo fantasma. Questo porta Lacan a definire la fine dell’analisi stessa come traversata del fantasma, che fa cadere quella che per voi è l’idea di realtà. Qualcuno mi ha chiesto ieri sera quale speranza e quale consolazione abbia portato la psicoanalisi. Sono stato abbastanza in difficoltà a rispondere che la principale speranza portata è un po’ più di entusiasmo – non so se questo sia attinente alla consolazione filosofica – una volta caduto il fantasma nella cui cornice s’inquadra la percezione della realtà. Una volta sollevati da questa realtà, diventare ciò che resta della propria realtà ha i suoi vantaggi. In che modo il reale si distingue dal simbolo e dall’immagine? Per via dell'assenza di trasformazione. Nell’esperienza analitica possiamo definire come reale tutto ciò che resiste alla dialettica. Lacan parla di dialettica del desiderio, sempre collegata all’Altro: il desiderio non si definisce in tal senso come reale. Per altro verso il godimento è un termine senza dialettica: nell’esperienza analitica possiamo considerare come reale il godimento in quanto non dialettizzabile. Questo significa che l'oggetto a, come plusgodere, è un reale che dipende dall’articolazione significante dell’esperienza analitica stessa, e che l’oggetto a ne è un prodotto. Una volta però estratto attraverso l’esperienza analitica in senso proprio, risulta come ciò che ci si aspetta a partire dalla formalizzazione significante che lo costituisce. Questo ci offre un altro modo di trattare la relazione tra psicosi e scienza, tra psicosi e trasmissione; in un certo senso la scienza dipende da una preclusione, è anche una forma di psicosi, è sul limite. E lo è perché presuppone qualcosa di abbastanza sorprendente: che ci sia un significante articolato nel reale stesso, e che effettivamente vi si possa leggere il linguaggio matematico attraverso il quale, secondo Galileo, la natura si esprime. Lacan dice che a scandalizzare i contemporanei di Newton era l’idea che gli astri conoscessero le proprie formule matematiche. Sembrava impensabile supporre che le formule fossero nel reale. È infatti piuttosto diverso da quel che accadeva prima, quando i cieli cantavano la gloria di Dio, anche se la si può cantare ancora oggi. Con la scienza non esiste più il regno dell’analogia perché le sue formule, le sue scritture, sono inscritte nel reale. È una supposizione, e immaginiamo che attraverso il discorso scientifico stiamo generando un certo numero di oggetti, e che ogni giorno sono sempre più numerosi. Fate caso per esempio a quel che tenete accanto alle orecchie. Sempre più spesso un gran numero di questi oggetti è prodotto dal discorso scientifico, dal sapere nel reale, e noi stessi finiamo per essere un agglomerato di questi oggetti. Nella psicosi c'è un altro modo per situare il sapere nel reale: è l’automatismo mentale, categoria che conoscete. Per il soggetto psicotico si tratta del funzionamento nel reale di un sapere che gli parla – un sapere che possedeva già in precedenza e che funzionava in forma pura. È un sapere che noi diciamo trovarsi solo nella sua testa, mentre lui dice che sta fuori, nel reale. Questo è quel che accade al paziente di cui vi parlerò. È un caso di fronte al quale mi sono trovato giovedì scorso all’Ospedale Italiano di Buenos Aires. Il paziente ripete di non essere malato se non per cause esterne, e in fondo ha ragione; è giusto prenderlo alla lettera: si è ammalato per via di un sapere che gli è esterno. Questo è esattamente il problema di fondo della psicosi: lo psicotico, rispetto a noi, ha il vantaggio di sapere che il significante è fuori. Non si tratta di fare una psicologia del profondo, come dicono gli junghiani, che immaginano il significante come molto profondo. Ieri mi hanno anche detto che in Brasile Jung è particolarmente apprezzato, e la sua psicoanalisi, nata sulle Alpi svizzere, è in forte espansione in un paese diverso in tutto e per tutto. Il movimento junghiano pone il proprio punto di partenza prima del discorso scientifico, per questo motivo si è interessato tanto all’astrologia, ha formulato una psicoanalisi dell’astrologia, della psicoanalisi stessa ha fatto un’astrologia, lavorando per corrispondenze universali. Era attraverso l’astrologia che Jung contava di spiegare la relazione tra microcosmo e macrocosmo. Il punto di partenza di Freud e di Lacan è differente: il soggetto della scienza è nel mondo, è venuto alla luce e non possiamo sbarazzarci di questo parassita. Sogniamo di farlo, sogniamo di tornare homo naturae. Non si fanno tuttavia grandi passi avanti dicendo che questo ritorno è senza speranza, e che siamo costretti a lottare con gli effetti della scienza, i quali continuano a moltiplicarsi a nostro svantaggio, coinvolti come siamo nelle ripercussioni che si verificano sul nostro godimento. La nascita dell'idea di struttura appartiene a un’altra epoca, nella misura in cui è costruita da formule che ci catturano e senza le quali la struttura del linguaggio non potrebbe funzionare. Come dimostra la minima esperienza della psicosi, quando si parla non si esprime niente; parlare presuppone una perdita che si estende a tutto, si parla a discapito del godimento. Questa perdita, nella nostra epoca, si presenta come una mancanza da colmare, e si produce sempre più spesso, è insaziabile e noi, in tutto il pianeta, entriamo in questo tipo di economia. E perché questo non dovrebbe avere relazione con la psicoanalisi? Siamo di fronte all’evidente inanità del nostro modo di consumare. La produzione, incapace di colmare la mancanza di godimento che suscita, ci lascia insoddisfatti. Però stiliamo classifiche, dicendo che l'intero pianeta è in via di sviluppo e che quelli che non sono ancora completamente entrati nella macchina della mancanza di godimento vengono sempre più stimolati a precipitarvisi. Di fatto, la psicoanalisi vince, perché avanza insieme all’esistenza del discorso scientifico utilitarista, il quale se potesse vorrebbe riciclare lo psicotico, smaltendolo come un rifiuto del bene sociale: siamo sempre più motivati a cercare di riciclarlo, come si fa con tutto. Un tempo si riusciva a trovare uno spazio, una funzione sociale per i matti, senza cercare di curarli. A partire da un determinato momento siamo diventati filantropi: per questo ci occupiamo di “terapeutizzare” lo psichico, come diceva Lacan. Quel che non è chiaro è se sia necessario. Quando ci occupiamo della psicosi lo facciamo a partire dalla struttura della nevrosi, perché si suppone che la psicoanalisi sappia trattarla. È il pregiudizio in cui incorriamo, come riportato negli Scritti di Lacan, che hanno come riferimento Una questione preliminare. Avvicinandoci a questo testo il primo schema che troviamo è quello della struttura della nevrosi, dal quale Lacan ricava lo schema della psicosi, attraverso alcune modifiche, introducendo degli elementi complementari a tale schema. Non si trae nulla dal nulla, e questo ci mostra che anche Freud approccia la psicosi partendo dalla nevrosi, perché in psicoanalisi avere dei riferimenti è una condizione necessaria. Si rende però necessario invertire il punto di vista, per poter ammettere che la psicosi è un dato iniziale, e che quel che chiamiamo normalità è la sovrapposizione di un sintomo alla psicosi. Questa rovesciamento è necessario per non cadere nella figura del terapeuta ingenuo e filantropo che ci invitano a essere, per sapere che tutto quel che abbiamo da proporre allo psicotico è soltanto un sintomo. È stato quel che Lacan ha segnalato, ai tempi della presentazione dei malati presso l’ospedale psichiatrico, di fronte a un certo matto sul quale avevano chiesto la sua opinione. E lui rispose: “Ma è del tutto normale!”. È paradossale, senza dubbio, ma è un invito al pubblico a prender distanza dall’evidenza. La questione non è trovarsi dalla parte della maggioranza, giacché esistono corrispondenze solo in quanto condividiamo lo stesso sintomo. Da questo punto di vista non è perché siamo più numerosi che dobbiamo imporre la nostra legge all’altro. Veder le cose in questo modo è molto più importante che sentirsi o mostrarsi ingenuamente filantropi verso il matto. Proverò a parlarvi un po’ del caso N., il cui nome proprio è quello di un grande inventore la cui eredità ha prodotto una svolta nel corso della storia. Questo paziente ha autorizzato l’uso del suo caso. A un prezzo però: non c’è ragione, con il pretesto che è pazzo, che non gli venga chiesta l’opinione. Sarebbe stato più facile presentare il caso se, da quando l’ho conosciuto, avessi avuto il tempo di lavorarci. Non mi è stato tuttavia possibile a causa del ritmo di vita che ho tenuto in seguito, posso però comunque tracciarne le linee fondamentali. Spero di lavorarci a breve, perché nell’istituzione erano d’accordo a farmi avere le sue memorie, la sua autobiografia completa. È un caso interessante perché si tratta di un uomo che a sessantasei anni ha un crollo improvviso. È un evento relativamente tardivo, a Schreber accadde a cinquantuno anni, ma N. aveva quindici anni di più. Nell’ottobre del 1980 si cominciò a notare una modificazione nel suo comportamento: da uomo attivo si era trasformato in un uomo che passa tutto il tempo a letto, attanagliato da idee di persecuzione e di rovina. Vale la pena notare che questo periodo è stato definito di “vita vegetativa”, ma non è propio giusto chiamarlo così. Questa fase termina il 2 di agosto quando N. cambia improvvisamente modo di comportarsi: inizia a uscire di giorno, torna alle undici di sera, racconta cose divertenti, barzellette. Spiega alla famiglia di essere rinato, e comincia a vivere a un ritmo frenetico, trascorrendo lunghe ore lontano da casa. Inizia a riorganizzare i documenti aziendali (relativi al suo lavoro), perché teme controlli fiscali. Crede che i controlli fiscali siano ancora in vigore in Argentina, dove pare che siano particolarmente rigorosi – in realtà, devono esserlo anche in Brasile, perché quando ci si entra fanno riempire pile di carte. La situazione si aggrava quando comincia a pensare che in casa sua ci sono microfoni collocati dalla polizia, dall’FBI, dalla Gestapo, ed è convinto di avere documenti che possono comprometterlo. Un giorno perde l’orientamento e non sa più dov’è casa sua, né che giorno sia. Ha vertigini, nausea, sensazione che le gambe fluttuino e ha paura di perdere l’equilibrio. Rimprovera i figli di non capirlo e minaccia di andare alla polizia a raccontare i maltrattamenti subiti. Ecco allora che quest’uomo, che fino all'età di sessantasei anni stava assolutamente bene, comincia a cedere e a manifestare disturbi. Ricostruendo gli eventi con l’aiuto della cerchia stretta di persone a lui vicine, sappiamo che prima della fase vegetativa doveva aver avuto un edema polmonare, apparso per la prima volta nel giugno del 1980 in un uomo che non era mai stato malato, e che a causa di questo N. aveva dovuto passare una settimana in ospedale. Fu lì che le cose cominciarono a cambiare e che cominciò a scrivere un’autobiografia. La sequenza degli eventi già ci offre dei dati. Prendo in esame le cose più semplici perché dobbiamo dimostrare di nuovo la ragione per cui consideriamo in tal modo la questione. C’è una fase di evoluzione e c’è apparentemente una causa, una contingenza. Se però a partire da una causa contingente c’è una fase di evoluzione, la si può isolare, perché ce la dice il paziente stesso, senza essere in alcun modo forzato. Non ho potuto vedere N., ho letto il referto inviatomi da un istituto psichiatrico; c’è quindi una certa attendibilità. Il paziente stesso isola il momento in cui ha superato una soglia: lo qualifica in modo impressionante: “Ero rinato”. È una sorta di mutazione della propria identità. È una svolta, non qualcosa che si è evoluto, è un movimento, un istante isolato in cui il soggetto passa dall'altra parte. Quel momento non può essere trascurato rispetto all’evoluzione della malattia. Tutto diventa impreciso dal punto di vista mentale ed è necessario occuparsi di ciò che il nostro paziente dice quando lo si esamina, soprattutto occorre fare attenzione alla sua certezza sul fatto che un giorno qualcosa è cambiato. Si tratta di cercare la certezza del paziente – che si trova altrove – che è un elemento diagnostico della psicosi. Adottare questa idea come una regola ci evita di confondere l’isteria con la psicosi. L’oscillazione clinica è un elemento sensibile nelle presentazioni collettive o individuali di casi in Argentina. L’elemento di certezza del paziente sia dell’ingresso in un’altra fase dell’esistenza, sia del fatto che sue allucinazioni esistano nel reale, si differenzia completamente dallo stile dell’isteria. Non posso immaginare che ci sia follia quando un'isterica viene da me con la sensazione che la realtà sia modificata, perché non sa mai se è sveglia o se sta sognando, e tante idee fantasiose le stanno passando per la testa. Maggiore è la sua incertezza sul fatto di essere sveglia o di stare sognando, tanto più lontana rimane la possibilità di una vera e propria psicosi, perché questa è caratterizzata dalla certezza del paziente, e non dall'idea che il mondo gli gira intorno, che non trova il proprio posto e che prova a identificarsi con il mondo per sentirsi stabile. Questo non è nello stile della psicosi. Così, come quel momento di certezza che è possibile isolare, tipica della psicosi è quella fase di apparente "vita vegetativa”, anche se, in realtà, è vita intensa. Se la persona passa tre mesi a letto è perché riflette sulla preparazione della sua nuova nascita. Abbiamo una testimonianza specifica nelle Memorie di Schreber, che ci dice di cosa si occupava quando restava giorno dopo giorno sdraiato a letto. Questo momento statico non è per nulla comparabile con la stanchezza del nevrotico, non è depressione, ma è vita intellettualmente intensa, che lo assorbe interamente. Tornando al primo elemento, l'autobiografia, è tipico il ricorso alla scrittura per apprendere il reale che ne scaturirà. In che modo implichiamo qui il significante? Lo implichiamo perché c’è questo momento di superamento di soglia, che deve essere pensato in termini di elemento e di sua sottrazione. Ma non solo per questo, perché l'uomo si chiama N., è il suo nome proprio. Ha due fratelli con nomi davvero banali, e ne ha altri due con nomi di famosi inventori, il che mostra chi era suo padre: era un uomo legato alle grandi figure dell’umanità, e su quelle figure ideali costruiva la sua famiglia. Il primo risultato è il nome proprio N., che era un ingegnere che lavorava con gli esplosivi e che passò la vita a fare ricerche su questo. Lo psichiatra aveva segnalato che la figura più stimata della famiglia era il nonno paterno, che era un professore. Quest’ultimo trasmise al figlio, il padre di N., un grande rispetto per il sapere. Ho solo il materiale scritto, non ho visto né interrogato nessuno. Constatiamo che ci sono le tre generazioni necessarie per fare un vero psicotico: in questo caso, come per Schreber, abbiamo le tre generazioni. La psicosi è una cultura, ha bisogno di tradizione, e questo è, per altro verso, ciò che in psicoanalisi viene chiamato il Super-Io. Il Super-Io non è semplicemente identificazione con i genitori, con i divieti genitoriali, ma condensa in effetti le tradizioni esistenti. In Argentina mi hanno parlato del caso di una paziente prigioniera della tradizione materna. Da tre generazioni le donne della famiglia si sbarazzavano regolarmente degli uomini. Si tratta di un caso preso in cura di recente. L’analista dovrà lavorarci sodo perché, in questo momento, il destino della paziente è completamente determinato e prestabilito. Sposata da sedici mesi, ha un bambino e cerca un modo per sbarazzarsi del marito, e sembra che lo troverà. La psicoanalisi non fa miracoli, lo psicoanalista può a malapena cercare di collocarsi tra il fatto e la paziente, ma resta molto difficile. Questa era una digressione per parlare del destino della famiglia. Il padre di N. non era violento, stando a quanto lui stesso dice, ma non era nemmeno affettuoso. La madre aveva un buon carattere, ma a tratti soffriva di infermità mentale, ed era stata internata tre volte. Che idea ci si può fare di N.? In famiglia, a detta dei figli, era molto duro, non molto affettuoso, tranne che con la figlia maggiore, e faceva vigere una dura legge. Due o tre elementi di ciò che è stato rivelato dall'esame psichiatrico li ho qui davanti agli occhi: "Quando lo vide lo psichiatra, la sua preoccupazione maggiore era di mettere in ordine le sue carte. Questo aspetto riappare in alcuni colloqui riportati nel dossier: è importante il fatto che se le sue carte sono in disordine, per lui è necessario mettere a posto. È anche convinto che non si prendessero cura di lui con le dovute attenzioni e afferma: "Non ho problemi psichici, i miei problemi sono fuori”. Posso riferirvi anche la diagnosi approssimativa dell’ospedale: psicosi involutiva mista. Personalità premorbosa, paranoide, narcisista. Fattore scatenante: “Periodo di degenza ospedaliera, nel giugno dello scorso anno, vissuto come una situazione di dipendenza, con grande paura della morte”. Lo psichiatra pensa di poter fare una buona diagnosi a partire dallo stato attuale, cosa che non corrisponde al nostro modo di vedere la questione, poiché abbiamo un punto di vista strutturale. Non è un paziente che non possa essere dimesso, ma non può esserlo in breve tempo. Riuscivano a controllarlo con i farmaci. E gli hanno fatto persino alcune sedute di terapia familiare che consistevano nel trasportare fin lì la famiglia per far capire ai famigliari che non sarebbe più stato come prima, ma che “questo non era un buon motivo per sbarazzarsi di lui”. Questa terapia si basa su attività di contenzione. Il punto centrale per questo paziente sono le cattive condizioni o la perdita delle sue carte. Posso ancora citare due o tre cose e poi passeremo alla riflessione. N. era convinto che quello della degenza fosse il momento in cui il suo delirio era retrocesso o in cui, forse, si era almeno placato. "Avevo l'impressione che mi perseguitassero, che mi tenessero d’occhio, e che le mie attività, considerando che usiamo esplosivi ad alta potenza, potessero farmi passare come un elemento sovversivo. Lavoravo con un’autorizzazione speciale dei militari. Potevano pensare che utilizzassi gli esplosivi a scopi terroristici”. Non potremmo dire subito che è delirio. “Temevo che prendessero le mie carte, che non erano in ordine, ma traspapelados, tutte mescolate. Si dice così in portoghese, traspapelados? No? È una bella parola, non so se spagnola o argentina. Spagnola, traspapelados. È per dire che le carte sono in disordine, una sopra l’altra, è una bella espressione che non esiste in francese. Ancora una citazione: '"Una volta ho sentito un rumore molto particolare in casa, un suono forte, e mi hanno spiegato che erano rumori legati all’autoalimentazione dei sistemi di microfoni in fase di registrazione”. Era davvero convinto di essere registrato costantemente e ovunque, e questo lo faceva star male. Continuando con il tema delle carte, spiega quanto si sentisse angosciato all'idea che fossero in disordine. Il terapeuta prova a dirgli che si tratta solo di una sua sensazione, a questo il paziente risponde che no, che si tratta di fatti, di cose esterne, oggettive. È davvero un bel un caso. Niente, qui, è stato forzato per dimostrare come il correlativo di questo momento acuto di superamento di una soglia significante metta in discussione la sua identità e – come emerge dall'autobiografia – il suo stesso nome, che ha avuto un’evidente importanza nella sua vita, come nella sua attività professionale. Il momento della superamento di soglia è correlativo, sensibile allo sgretolamento di un mondo, ma segnato da che cosa? Cosa viene colpito in maniera sensibile? Quel che riguarda la parola, la sua parola, visto che è convinto di essere ascoltato attraverso microfoni e, allo stesso tempo, è coinvolta anche la scrittura. Questo si evidenzia nel ripresentarsi costante del fatto che c’è disordine nelle sue carte, negli ordini di pagamento, nei debiti, in tutto ciò che sostiene l’ordine significante del suo mondo. Non ci parla di una psicosi involutiva, ma di qualcosa che riguarda il significante e il suo disordine; possiamo aggiungere questi due registri: della parola e della scrittura. Dobbiamo interrogarci ora sulla causa. Cosa si è presentato, al momento dell’ospedalizzazione, come elemento non integrabile, come elemento che bastò a mandare a pezzi l'armatura del suo mondo? Siamo nel campo delle ipotesi, ma sono questi i termini entro i quali si deve porre la domanda: quale elemento si è presentato come non integrabile al suo universo significante? Quale elemento lo ha rimescolato, lo traspapelo? Chi ha effettuato il rimescolamento, il traspapelamiento? Qual è l'elemento rimescolatore, trapapelador? Traspapelar: non ci arriviamo per caso, questa parola esiste effettivamente nella lingua spagnola. Tendiamo a immaginare, per quanto dei testimoni vi siano, che lui abbia "una forte personalità", che è un modo elegante per dire quanto rivelato nel dossier: che in casa era un tiranno, un padre di famiglia che faceva regnare intorno a lui una legge ferrea. Tutti i suoi figli lo descrivono nello stesso modo, come un uomo duro che li opprimeva. Nella sua posizione soggettiva era un padrone, e lui stesso racconta di quanto fosse duro nel suo lavoro e duro anche con se stesso; viveva in perenne tensione. Di un padre terribile, che tutti i bambini temono e particolarmente affettuoso con la figlia, si dice: ecco una versione moderna, un po’ degradata, del padre dell’orda. Ecco qui il padrone il godimento in toto. È una ricostruzione, però rende comprensibile questo caso, giacché la prima ospedalizzazione della sua vita ha potuto produrre l’insorgenza psicotica in maniera brutale. È un padrone innalzato al rango di quel che Hegel chiama "padrone assoluto”, cioè la morte. Se ricostruiamo la sua posizione soggettiva in modo coerente possiamo comprendere l'emergere del significante padrone assoluto, la morte, che di fatto si è inserito contro l’intero fondamento della sua posizione soggettiva. Questo ha almeno un valore di ipotesi per far comprendere l’articolazione possibile tra la personalità descritta e l'estremo impatto dell’esordio psicotico, il ricovero in ospedale e lo stato in cui vive all'interno della famiglia. Le sedute di terapia familiare ci mostrano chiaramente che è passato dalla posizione di padrone a quella di schiavo, da cui rinascerà nella posizione inversa, di assistito. Non possiamo nemmeno immaginare che sia recuperabile, non si può curare un uomo di sessantasei anni, e dopo un episodio del genere sarei sorpreso se lo lasciassero lavorare con gli esplosivi. Quando vediamo un caso come questo non dobbiamo affrettarci a dire che lo cureremo, sappiamo che siamo di fronte a qualcosa di impossibile da recuperare, è un caso di scuola. Ho già fatto una lezione partendo da lui, ed è anche quanto di meglio si possa fare. Apprezzo però il lavoro svolto dagli psichiatri, visibilmente interessati a essere precisi, senza trattare il caso alla leggera. Non posso tuttavia essere d'accordo con la loro idea che si possa formulare una prognosi favorevole, né vedo come in un caso simile si possa definire una prognosi favorevole. Se vogliono semplicemente dire che il momento acuto è passato e che il suo umore si può controllare, va bene, ma non vedo come si possa recuperare la struttura in questione. Sono d'accordo con il paziente quando dice che i suoi problemi sono solo esterni perché, in effetti, il significante è fuori, siamo noi a immaginare che sia dentro le nostre teste, dove al limite cerchiamo di collocare questo reale. Consideriamo Chomsky, per esempio, indiscutibilmente un sapiente, ma un sapiente delirante. Nei suoi ultimi scritti è ossessionato dal fatto che il reale del linguaggio lo avremmo nella testa, per l’esattezza nel cervello. È tuttavia un sapiente linguista. D’altro canto lui lo spiega in maniera molto seducente. L'ho sentito recentemente a Parigi, durante uno dei suoi viaggi. È molto simpatico, ma questo non gli impedisce di essere delirante. Rende manifesto che il significante esiste al di fuori, come per N., cioè che viene dall’esterno. Esce dalla bocca però è al di fuori. Quello che ora mi esce dalla bocca per molti di voi non è importante – perché è la voce femminile della traduttrice che ascoltate, è lei che parla, che racconta il significante in questione – poiché domani chiunque potrà godersi le mie parole quanto vuole, grazie a questo piccolo congegno. Ho qui il modo in cui il significante si sostiene al di fuori del soggetto, in cui è più astuto di noi. Questo psicotico lo spiega nella sua autobiografia, che ha intitolato La mia vita, di cui conosco solo poche pagine, ma quando ho lasciato l'Argentina l’ho ordinato e mi è stato inviato il testo completo. N. si pone in relazione con il computer IBM. Se c'è qualcosa che presenta un sapere indipendente dal soggetto e che esiste nel reale, è questa figura moderna: il computer. La scienza fa qualcosa per la psicosi, le offre la garanzia che non si tratta di un sogno. La forma in cui si presente la sua autobiografia è in relazione con il modo in cui lui stesso si mette in relazione con il computer. “Ricordo la mia esistenza fino alla settima vita terrena, calcolata dai più moderni computer IBM di ottava generazione, nell'anno di grazia 1980 di Dio nostro Signore. Autore N. X., ma l'equivalente di X. non c’è perché non c’è il suo nome. Autore: N., alias Felix, e il suo soprannome di famiglia: (Gatto)”. Sarebbe quindi nella sua settima vita, mentre il computer è all'ottava generazione e questo di per sé costituisce già una differenza. È un nome molto interessante, il famoso Felix. Lui stesso commenta: “L'autore chiarisce espressamente che L., nome di battaglia sopra indicato, non è frutto di un capriccio. È stato imposto in strane circostanze durante la prima infanzia, da uno sconosciuto che non riuscì a trovare nessun antenato europeo nato nelle famose pianure della Mancia. La motivazione nota fino ad ora era l’identificazione di Felix con la razza felina, la cui origine è rintracciabile nella villa della residenza paterna, in via ecc…” Così il nome Felix impostogli sin dalla più tenera età dal destino – o da qualcuno che da lassù domina le marionette che abitiamo in questa valle di lacrime – si identificò con i giochi da bambino che faceva con le centinaia di gatti e gattini che abitavano in quella grande villa di residenza. “E i gatti disponibili fino a questa data, per quanto incompleti, alimentavano l'orribile ventre elettronico di un nuovo computer IBM. In omaggio alla memoria del mio adorato padre, Don Ramiro, a cui l'autore non deve solo la sua esistenza, lo strano nome, unico al mondo, ma anche, e questa è la cosa più importante, l'attuale professione di geofisico specializzato in petrolio, minerali e idrologia”. Questo è l'inizio dell'autobiografia del nostro personaggio, e dovrebbe essere letta tenendo accanto il testo di Schreber, che è un paradigma della psicosi. Un'espressione come: “le marionette che abitiamo in questa valle di lacrime”" non è qualcosa che si senta dire da un’isterica. È necessario sapere di cosa parla il paziente. Ci sono casi difficili, che stanno sul limite, che, tuttavia, non autorizzano a parlare di psicosi isterica, perché è una contraddizione in termini dal punto di vista strutturale. Allo stesso modo, l'evocazione del destino, o di qualcuno che dall'alto "domina questa valle di lacrime, domina le marionette che abitiamo” è anche tipica della psicosi. La valutazione che fa del sapere nel reale è molto bella: "l'orrendo ventre elettronico.” Dobbiamo chiederci da dove viene, che cosa rappresenta per lui il nome Félix, questo nome che soppianta il suo: possiamo arrivarci attraverso ciò che evoca più avanti: "la mia felice permanenza" in ospedale, dove si dice che ciò che lo ha turbato, lo ha preoccupato, era stato il fatto che non ci fosse la stanza numero 13. Il suo disagio si incentra sul significante, sull’assenza del numero 13, che suppone non usino per superstizione: qui si avverte un buco nel significante che lo disturba in particolar modo. Ma lui evoca il suo “soggiorno felice", e c'è un altro momento nella storia in cui compare la parola "felice": la "felicità" di quando era a scuola, con gli amici e, a causa di una perdita della struttura, designa il suo godimento psicotico con questo nome, Felix. È un godimento di cui Schreber parla in modo enfatico, senza i limiti che noi ci imponiamo. È un godimento che può essere intollerabile, che lega la follia e la donna, un legame noto da molto tempo, che porta alla convinzione che le donne sarebbero folli, perché i folli in qualcosa sono donne. Nei folli è sempre possibile trovare questo punto di godimento speciale ed eccessivo: Schreber ne è l'esempio paradigmatico. Lacan ne ha scritto il matema: l'effetto della pousse à la femme, la “spinta alla donna”. In francese abbiamo l’espressione pousse au crime “induzione al crimine”, il che significa che qualcuno induce un altro a commettere un crimine. Lacan ha sostituito pousse au crime con pousse à la femme, ovvero un effetto di femminilizzazione del pazzo che traduce in modo molto particolare la preclusione del Nome del Padre. Freud aveva individuato questo problema analitico e per questo diceva di non sapere cosa volesse una donna, perché gli sembrava che in lei il Super-io non fosse come nell’uomo: nella donna non ci sono limiti. È ciò che i matemi di Lacan cercavano di descrivere. Il non-tutto della donna, come dice Lacan, è la scrittura dell'assenza di limiti nella donna, non ci sono limiti, per esempio, in ciò che una donna può fare per un uomo. Ma Felix brilla come El solar, nome dell’antica residenza di famiglia, con tutto il godimento che rimane a N. Lui si era turbato per il disordine delle carte, ma ci siamo convinti che da qualche parte nella sua autobiografia, troveremo espressamente la sua identificazione con le centinaia di gatti e gattini, tantissimi gattini: quella moltitudine – oso dirlo in francese – chatoyante, una moltitudine sfolgorante. E questa è la sua risorsa. Potremmo descrivere questo caso a partire dal discorso del padrone di Lacan, poiché ipotizziamo che N. sia il padrone, e il discorso del padrone presuppone l’identificazione del soggetto con un significante padrone. Partiamo dall’idea che questo significante, che noi supponiamo debba aver sostenuto la sua esistenza, era il nome N. E perché no? Si tratta infatti del padre proprio all'epoca in cui viene varcata la soglia. Questo significante padrone, dominato dal significante assoluto che è la morte, irrompe nella sua esistenza con l’arrivo dell’edema polmonare. Il significante che a un tratto lo pianta in asso scioglie i diversi elementi di questo discorso, soprattutto il sapere, che comincia a vivere di vita propria nel reale, che cessa di essere legato al significante padrone, che si ritrova separato. Questo è l’esordio. Allora cosa resta? Da un lato solo un nome, perché da quel momento è separato dal significante padrone, il sapere si separa, il soggetto stesso si separa, ed esiste una funzione che dovremo trovare da qualche parte: dove se ne va il godimento, che scriviamo con la a minuscola? Il nome che perde in quella trasformazione, N., lo sostituisce con uno che crea attraverso il proprio godimento, il nome Felicità, e a partire da lì sarà eventualmente in grado di ricostruire un delirio stabile. Come è successo a Schreber, che si è curato con il proprio godimento, perché gli produceva godimento guardarsi allo specchio e vedervi riflessa una bella donna. Quel che è interessante in questo paziente è per prima cosa tutto ciò che vi ho detto, però sono soltanto ipotesi. Spero di tornare a Parigi per leggere tutta la sua autobiografia, e lì vedrò cosa modificare dell’ipotesi che ho assunto come punto di partenza. In secondo luogo, il paziente di sessantasei anni è in buono stato di salute e potremo verificare come si evolve, ci sono buone speranze. Ci aspettiamo molto dall’incontro di Parigi in febbraio, convocato dallo stesso Lacan durante l’ultimo incontro tenutosi a Caracas. Abbiamo molte aspettative, perché è grazie allo scambio di casi clinici che possiamo essere più utili agli altri, non solo condividendo riflessioni teoriche su Lacan. Sono stato molto contento di trovare in Argentina materiali clinici, e non intendo abbandonarli nel fondo di un baule. Vorrei porre un’ultima domanda. Perché uno non deve continuare a girare intorno alla terapia come ipnotizzato? Perché esiste un’autoterapia. Una volta passato il momento acuto, di vita vegetativa, si verifica una restituzione e si stabilisce un nuovo equilibrio. Si ricostruisce una nuova metafora, quella che Lacan chiama metafora delirante. È una metafora che delira in modo diverso dal delirio della metafora paterna. Per questo non è necessario disperarsi tanto e, in questo caso, è necessario imparare a rispettare l’impossibile. È difficile. Mi fermo qui, e risponderò alle domande che mi vorrete fare. Dibattito P.: La sua presentazione mi è molto piaciuta, per due ragioni in particolare: la prima è che il momento d’insorgenza del delirio, che la psichiatria classica chiamava irruzione delirante, appare sia in N sia in Schreber, in forma di irruzione ironica, un’enorme ironia rispetto agli ideali del padre. Sia l'uno sia l'altro hanno cercato di fare ironia sulla determinazione e sugli ideali paterni, elemento che si ripete frequentemente nell’esordio di qualsiasi psicosi. La seconda è che l’evoluzione del delirio sembra senza dubbio, essere il lavoro volto alla produzione di un luogo del soggetto. Si ha l’impressione che lo psicotico abbia bisogno di un padrone, non un padrone che lo domini, ma di un altro padrone. L'incontro con l’altro padrone – la morte – nel caso di Schreber è con l'impotenza che non gli permette di avere figli. Tutto il delirio scandisce e cerca quel padrone. Potremmo dire che lo psicotico, o almeno il paranoico, come N. e come Schreber, cerca il padrone come si cerca una donna. N. e Schreber lo trovano, ma non nella posizione di padrone, bensì di donna. Ci penso già da molto tempo: potremmo dire che il delirio è un tentativo, senza successo, di costituire un discorso? Potrebbe essere un discorso in senso lacaniano? Il discorso del padrone, dell'università o anche dell’isterica? Certamente non vogliamo associare questi discorsi alla nosologia. J.-A.M.: C’è un problema a dire che si tratta di un tentativo di costituire un discorso in senso lacaniano, giacché questo si fonda sull'assenza di rapporto sessuale. Ci sono quattro discorsi – esistono, sono istituiti – che rispondono all'assenza di rapporto sessuale. Ora, in fondo, cosa costituisce per esempio il delirio di Schreber,? Parliamo di lui perché lo conosciamo come caso clinico nel suo insieme. Il delirio di Schreber tende, al contrario, a costituire il rapporto sessuale, e anche a presentare una rapporto sessuale più importante, un matrimonio sacro. Un vero e proprio matrimonio sacro, come ne troviamo nella mitologia antica e come era praticato nelle grandi monarchie giapponesi, cinesi, e persino occidentali, dove la coppia reale rappresenta l'unione dei due principi essenziali della vita, cosa che oggi conosciamo in modo degradato. Quando il principe Carlo sposa Lady Diana, in una forma che non è più sacra, ma pubblicitaria, c’è solo un residuo di questo modo di immaginare il rapporto sessuale. Adesso, bene, Schreber diventa la donna di Dio, è la promessa sposa di Dio e nel futuro – perché lo rimanda al futuro – da questa unione nascerà una nuova razza di uomini. Il suo discorso è formulato per situare il rapporto sessuale, così da farlo esistere. Io tenderei a lascialo dove dovrebbe stare, fuori dal discorso. Ha ragione a definirlo così, paranoico, perché la schizofrenia è diversa. C'è una vecchia questione, che da diversi anni si pone nella Sezione Clinica: la richiesta di dedicare un giorno, un anno, alla schizofrenia, ma ci tiriamo sempre indietro, come per l'appunto è accaduto tre anni fa. Bisogna anche dire che Lacan ne ha parlato molto poco. Sarebbe necessario riprendere le cose dall'inizio, dalla storia dei termini, senza dimenticare che proprio la psicoanalisi è all'origine del termine schizofrenia, termine che dobbiamo a Bleuler. Basta leggere la corrispondenza tra Freud e Jung per vedere fino a che punto il concetto forgiato da Bleuler di schizofrenia – che in realtà è un problema che coinvolge il corpo – sia stato concepito in relazione a quanto insegnava Freud. In che senso però la schizofrenia è un problema che coinvolge il corpo? Lacan lo spiega dicendo che essa caratterizza, nell'essere umano, il rapporto tra organo e funzione. Abbiamo degli organi, dobbiamo trovare le loro funzioni. Da un punto di vista biologico gli organi hanno già delle funzioni, ma ci appaiono sempre alcune cosine che nell’immediato non ci sembra di dover usare, e della cui utilità avremo coscienza solo più tardi. Per un bel po’ di tempo ci è sembrato che le tonsille servissero solo per essere rimosse chirurgicamente. Oggi le rimuoviamo con minor frequenza, perché conosciamo la loro funzione specifica. Questo riguarda il punto di vista biologico. L’altro aspetto riguarda il punto di vista del significante. L'uomo si è inventato funzioni significanti per i propri organi. Anche se ci sono degli idioti come Bernardin de Saint-Pierre con le sue idee, come quella che il mare che esiste per metterci le navi e che se abbiamo un naso è perché serve ad appoggiarci gli occhiali. È tuttavia vero che ci preoccupiamo di dare un significato ai nostri organi, alle varie parti del nostro corpo, ed è per questo che se ne modifica l'uso. I lobi delle orecchie saranno stati inventati per indossare orecchini? La questione si pone. Ci sono invenzioni straordinarie, come per esempio quella della religione ebraica che riuscì a dare un significante – recidendo una parte del corpo – dell'alleanza fondamentale con la legge divina. Ci sono anche molti altri modi, a volte più segreti nel loro utilizzo, per significantizzare gli organi. Lacan, in realtà, caratterizza come schizofrenico chi ha difficoltà a trovare le funzioni dei propri organi. Il desiderio stesso incontra questa difficoltà, dovendo farli significare, dal momento che non sono implicati in una relazione istituita. Ad ogni modo, nella schizofrenia, questo non ci porta molto lontano, certamente non indica alcun modo di trattamento, almeno in forma di parola, poiché l'intera questione sta negli organi che si mettono a parlare ciascuno per conto proprio. Un forma di parola che si pone fuori dal discorso, ma non fuori dal linguaggio dello schizofrenico. Sono soddisfatto di quello che possiamo dire, noi analisti, sulla schizofrenia, ma non ancora del tutto, dato che sicuramente si tratta di una questione fondamentale. Dal nostro punto di vista, parliamo della paranoia in modo approfondito meglio di quanto facciano gli psichiatri. Gli psichiatri della schizofrenia non dicono molto. Qui resta comunque un campo aperto. P: D: Mi chiedo se la posizione dello psicotico sia duplice: al di fuori del discorso e all'interno del linguaggio. Nel suo delirio N. afferma che c'è rapporto. Tuttavia, dice: "Mio padre era pazzo, voleva che io fossi N.”. Schreber dice: "Mio padre era pazzo, voleva che io fossi una marionetta ben fatta, seguendo la sua ginnastica, i suoi esercizi, le sue imposizioni”. Voglio sottolineare la dualità in cui mi ritrovo quando dialogo con gli psicotici, che richiedono un ascolto in più modi. J.-A.M.: È necessario esaminare ogni caso per dire cosa richiede lo psicotico, questa è la difficoltà nel processo. Quando sei un chirurgo, non hai bisogno di essere riconosciuto dal paziente. Il terapeuta tuttavia, nella misura in cui si considera tale, è necessario sia costituito come tale dal paziente. Nella psicosi l'esistenza del luogo in cui può essere costituito non è evidente. Se uno di noi si presentasse davanti a Schreber, saremmo con tutta probabilità già condannati. Possiamo noi considerarci terapeuti, ma non lo saremo per il paziente. L'unica domanda che abbiamo da parte di Schreber è che si leggano le sue Memorie, per contribuire alla formazione scientifica dell’umanità. Questa è la sua domanda. Non chiede in alcun modo di essere curato. La sola domanda di N. è di tenere in ordine i suoi documenti. Questa è la sua domanda essenziale. D: Ma perché Schreber mi chiede di leggere il suo testo e di trarne delle conclusioni? J.-A.M.: Ci sono casi in cui può esserci una domanda, però è necessario sottolineare che questa domanda, costituita o meno, è già un elemento che deve essere considerato con attenzione. Il fatto di poter domandare di per sé è già molto. L'ossessivo, per esempio, è perfettamente in grado di domandare un'analisi, ma durante il percorso potrebbe non essere in grado di chiedere di più, e chiede piuttosto un altro che risponda automaticamente alla sua domanda, ma non molto di più. Se non ci sono altre domande, ci vediamo all'ultimo incontro-conversazione, alle tre del pomeriggio, dove vedrò se parlare di un caso di nevrosi ossessiva. Vorrei anche dire qualcosa sui gruppi analitici, ma vedremo come si svilupperà. Traduzione di Micol Martinez Per la psicosi si tratta di scritti di difficile lettura e, data l’impossibilità di leggerli, sarebbe davvero una sorpresa se tutta questa produzione arrivasse in libreria. Questo non impedisce che i documenti si accumulino. Lo stesso accade con gli scritti di carattere specificamente scientifico. Non sono fatti per essere letti, contrariamente ai romanzi, che sono fatti invece proprio per essere letti. Qualcosa di questi scritti può tuttavia essere insegnato, qualcosa che non ha bisogno di essere tradotto. Non ci sono rischi di incomprensione, perché in una formula logica non c'è niente da capire. Quando invece si parla di qualcosa, quando si parla a partire dallo scritto, lì cominciano i problemi. La tesi di Lacan può sembrare singolare, è che nell’esperienza analitica tutto – anche il reale, che non ha nulla a che fare con il concreto – dipende dalla scrittura. Questo si può capire e delineare solo a partire da una rete di significanti. Il reale si differenzia dal resto, soprattutto perché si presenta come impossibile, come ciò che non può essere raggiunto. Consideriamo il tempo precedente alla nascita del discorso scientifico che, nel diciassettesimo secolo con la fisica matematica, segna un taglio netto rispetto allo stile rimasto dominante fino al secolo sedicesimo, e implica un cambiamento di prospettiva fondamentale: a partire dal momento in cui la fisica diventa matematica nasce infatti l’impossibile. Con le dottrine fondate sull’analogia tra il macro e il microcosmo -– alle quali qualcuno si è riferito qui ieri – nulla risulta impossibile. Tutto può essere correlato con tutto, non c'è un reale propriamente detto. Il reale dipende dal fatto di individuare un impossibile, e questo, per dirlo in breve, può avvenire solo con la logica. È necessario mettere l'impossibile in forma logica perché il reale emerga. Il reale è una categoria speciale per Lacan, diversa da quel che si intende con realtà. La realtà dipende dalle sensazioni che fa affiorare in noi e, se partiamo dallo statuto del desiderio evocato ieri, per il soggetto parlante c'è sempre solo “un po’ di realtà”. La realtà dipende strettamente dal fantasma, e lasciando da parte, come eccezione, il fatto che ci giunge attraverso i cinque sensi, per il soggetto la realtà è il suo fantasma. Questo porta Lacan a definire la fine dell’analisi stessa come traversata del fantasma, che fa cadere quella che per voi è l’idea di realtà. Qualcuno mi ha chiesto ieri sera quale speranza e quale consolazione abbia portato la psicoanalisi. Sono stato abbastanza in difficoltà a rispondere che la principale speranza portata è un po’ più di entusiasmo – non so se questo sia attinente alla consolazione filosofica – una volta caduto il fantasma nella cui cornice s’inquadra la percezione della realtà. Una volta sollevati da questa realtà, diventare ciò che resta della propria realtà ha i suoi vantaggi. In che modo il reale si distingue dal simbolo e dall’immagine? Per via dell'assenza di trasformazione. Nell’esperienza analitica possiamo definire come reale tutto ciò che resiste alla dialettica. Lacan parla di dialettica del desiderio, sempre collegata all’Altro: il desiderio non si definisce in tal senso come reale. Per altro verso il godimento è un termine senza dialettica: nell’esperienza analitica possiamo considerare come reale il godimento in quanto non dialettizzabile. Questo significa che l'oggetto a, come plusgodere, è un reale che dipende dall’articolazione significante dell’esperienza analitica stessa, e che l’oggetto a ne è un prodotto. Una volta però estratto attraverso l’esperienza analitica in senso proprio, risulta come ciò che ci si aspetta a partire dalla formalizzazione significante che lo costituisce. Questo ci offre un altro modo di trattare la relazione tra psicosi e scienza, tra psicosi e trasmissione; in un certo senso la scienza dipende da una preclusione, è anche una forma di psicosi, è sul limite. E lo è perché presuppone qualcosa di abbastanza sorprendente: che ci sia un significante articolato nel reale stesso, e che effettivamente vi si possa leggere il linguaggio matematico attraverso il quale, secondo Galileo, la natura si esprime. Lacan dice che a scandalizzare i contemporanei di Newton era l’idea che gli astri conoscessero le proprie formule matematiche. Sembrava impensabile supporre che le formule fossero nel reale. È infatti piuttosto diverso da quel che accadeva prima, quando i cieli cantavano la gloria di Dio, anche se la si può cantare ancora oggi. Con la scienza non esiste più il regno dell’analogia perché le sue formule, le sue scritture, sono inscritte nel reale. È una supposizione, e immaginiamo che attraverso il discorso scientifico stiamo generando un certo numero di oggetti, e che ogni giorno sono sempre più numerosi. Fate caso per esempio a quel che tenete accanto alle orecchie. Sempre più spesso un gran numero di questi oggetti è prodotto dal discorso scientifico, dal sapere nel reale, e noi stessi finiamo per essere un agglomerato di questi oggetti. Nella psicosi c'è un altro modo per situare il sapere nel reale: è l’automatismo mentale, categoria che conoscete. Per il soggetto psicotico si tratta del funzionamento nel reale di un sapere che gli parla – un sapere che possedeva già in precedenza e che funzionava in forma pura. È un sapere che noi diciamo trovarsi solo nella sua testa, mentre lui dice che sta fuori, nel reale. Questo è quel che accade al paziente di cui vi parlerò. È un caso di fronte al quale mi sono trovato giovedì scorso all’Ospedale Italiano di Buenos Aires. Il paziente ripete di non essere malato se non per cause esterne, e in fondo ha ragione; è giusto prenderlo alla lettera: si è ammalato per via di un sapere che gli è esterno. Questo è esattamente il problema di fondo della psicosi: lo psicotico, rispetto a noi, ha il vantaggio di sapere che il significante è fuori. Non si tratta di fare una psicologia del profondo, come dicono gli junghiani, che immaginano il significante come molto profondo. Ieri mi hanno anche detto che in Brasile Jung è particolarmente apprezzato, e la sua psicoanalisi, nata sulle Alpi svizzere, è in forte espansione in un paese diverso in tutto e per tutto. Il movimento junghiano pone il proprio punto di partenza prima del discorso scientifico, per questo motivo si è interessato tanto all’astrologia, ha formulato una psicoanalisi dell’astrologia, della psicoanalisi stessa ha fatto un’astrologia, lavorando per corrispondenze universali. Era attraverso l’astrologia che Jung contava di spiegare la relazione tra microcosmo e macrocosmo. Il punto di partenza di Freud e di Lacan è differente: il soggetto della scienza è nel mondo, è venuto alla luce e non possiamo sbarazzarci di questo parassita. Sogniamo di farlo, sogniamo di tornare homo naturae. Non si fanno tuttavia grandi passi avanti dicendo che questo ritorno è senza speranza, e che siamo costretti a lottare con gli effetti della scienza, i quali continuano a moltiplicarsi a nostro svantaggio, coinvolti come siamo nelle ripercussioni che si verificano sul nostro godimento. La nascita dell'idea di struttura appartiene a un’altra epoca, nella misura in cui è costruita da formule che ci catturano e senza le quali la struttura del linguaggio non potrebbe funzionare. Come dimostra la minima esperienza della psicosi, quando si parla non si esprime niente; parlare presuppone una perdita che si estende a tutto, si parla a discapito del godimento. Questa perdita, nella nostra epoca, si presenta come una mancanza da colmare, e si produce sempre più spesso, è insaziabile e noi, in tutto il pianeta, entriamo in questo tipo di economia. E perché questo non dovrebbe avere relazione con la psicoanalisi? Siamo di fronte all’evidente inanità del nostro modo di consumare. La produzione, incapace di colmare la mancanza di godimento che suscita, ci lascia insoddisfatti. Però stiliamo classifiche, dicendo che l'intero pianeta è in via di sviluppo e che quelli che non sono ancora completamente entrati nella macchina della mancanza di godimento vengono sempre più stimolati a precipitarvisi. Di fatto, la psicoanalisi vince, perché avanza insieme all’esistenza del discorso scientifico utilitarista, il quale se potesse vorrebbe riciclare lo psicotico, smaltendolo come un rifiuto del bene sociale: siamo sempre più motivati a cercare di riciclarlo, come si fa con tutto. Un tempo si riusciva a trovare uno spazio, una funzione sociale per i matti, senza cercare di curarli. A partire da un determinato momento siamo diventati filantropi: per questo ci occupiamo di “terapeutizzare” lo psichico, come diceva Lacan. Quel che non è chiaro è se sia necessario. Quando ci occupiamo della psicosi lo facciamo a partire dalla struttura della nevrosi, perché si suppone che la psicoanalisi sappia trattarla. È il pregiudizio in cui incorriamo, come riportato negli Scritti di Lacan, che hanno come riferimento Una questione preliminare. Avvicinandoci a questo testo il primo schema che troviamo è quello della struttura della nevrosi, dal quale Lacan ricava lo schema della psicosi, attraverso alcune modifiche, introducendo degli elementi complementari a tale schema. Non si trae nulla dal nulla, e questo ci mostra che anche Freud approccia la psicosi partendo dalla nevrosi, perché in psicoanalisi avere dei riferimenti è una condizione necessaria. Si rende però necessario invertire il punto di vista, per poter ammettere che la psicosi è un dato iniziale, e che quel che chiamiamo normalità è la sovrapposizione di un sintomo alla psicosi. Questa rovesciamento è necessario per non cadere nella figura del terapeuta ingenuo e filantropo che ci invitano a essere, per sapere che tutto quel che abbiamo da proporre allo psicotico è soltanto un sintomo. È stato quel che Lacan ha segnalato, ai tempi della presentazione dei malati presso l’ospedale psichiatrico, di fronte a un certo matto sul quale avevano chiesto la sua opinione. E lui rispose: “Ma è del tutto normale!”. È paradossale, senza dubbio, ma è un invito al pubblico a prender distanza dall’evidenza. La questione non è trovarsi dalla parte della maggioranza, giacché esistono corrispondenze solo in quanto condividiamo lo stesso sintomo. Da questo punto di vista non è perché siamo più numerosi che dobbiamo imporre la nostra legge all’altro. Veder le cose in questo modo è molto più importante che sentirsi o mostrarsi ingenuamente filantropi verso il matto. Proverò a parlarvi un po’ del caso N., il cui nome proprio è quello di un grande inventore la cui eredità ha prodotto una svolta nel corso della storia. Questo paziente ha autorizzato l’uso del suo caso. A un prezzo però: non c’è ragione, con il pretesto che è pazzo, che non gli venga chiesta l’opinione. Sarebbe stato più facile presentare il caso se, da quando l’ho conosciuto, avessi avuto il tempo di lavorarci. Non mi è stato tuttavia possibile a causa del ritmo di vita che ho tenuto in seguito, posso però comunque tracciarne le linee fondamentali. Spero di lavorarci a breve, perché nell’istituzione erano d’accordo a farmi avere le sue memorie, la sua autobiografia completa. È un caso interessante perché si tratta di un uomo che a sessantasei anni ha un crollo improvviso. È un evento relativamente tardivo, a Schreber accadde a cinquantuno anni, ma N. aveva quindici anni di più. Nell’ottobre del 1980 si cominciò a notare una modificazione nel suo comportamento: da uomo attivo si era trasformato in un uomo che passa tutto il tempo a letto, attanagliato da idee di persecuzione e di rovina. Vale la pena notare che questo periodo è stato definito di “vita vegetativa”, ma non è propio giusto chiamarlo così. Questa fase termina il 2 di agosto quando N. cambia improvvisamente modo di comportarsi: inizia a uscire di giorno, torna alle undici di sera, racconta cose divertenti, barzellette. Spiega alla famiglia di essere rinato, e comincia a vivere a un ritmo frenetico, trascorrendo lunghe ore lontano da casa. Inizia a riorganizzare i documenti aziendali (relativi al suo lavoro), perché teme controlli fiscali. Crede che i controlli fiscali siano ancora in vigore in Argentina, dove pare che siano particolarmente rigorosi – in realtà, devono esserlo anche in Brasile, perché quando ci si entra fanno riempire pile di carte. La situazione si aggrava quando comincia a pensare che in casa sua ci sono microfoni collocati dalla polizia, dall’FBI, dalla Gestapo, ed è convinto di avere documenti che possono comprometterlo. Un giorno perde l’orientamento e non sa più dov’è casa sua, né che giorno sia. Ha vertigini, nausea, sensazione che le gambe fluttuino e ha paura di perdere l’equilibrio. Rimprovera i figli di non capirlo e minaccia di andare alla polizia a raccontare i maltrattamenti subiti. Ecco allora che quest’uomo, che fino all'età di sessantasei anni stava assolutamente bene, comincia a cedere e a manifestare disturbi. Ricostruendo gli eventi con l’aiuto della cerchia stretta di persone a lui vicine, sappiamo che prima della fase vegetativa doveva aver avuto un edema polmonare, apparso per la prima volta nel giugno del 1980 in un uomo che non era mai stato malato, e che a causa di questo N. aveva dovuto passare una settimana in ospedale. Fu lì che le cose cominciarono a cambiare e che cominciò a scrivere un’autobiografia. La sequenza degli eventi già ci offre dei dati. Prendo in esame le cose più semplici perché dobbiamo dimostrare di nuovo la ragione per cui consideriamo in tal modo la questione. C’è una fase di evoluzione e c’è apparentemente una causa, una contingenza. Se però a partire da una causa contingente c’è una fase di evoluzione, la si può isolare, perché ce la dice il paziente stesso, senza essere in alcun modo forzato. Non ho potuto vedere N., ho letto il referto inviatomi da un istituto psichiatrico; c’è quindi una certa attendibilità. Il paziente stesso isola il momento in cui ha superato una soglia: lo qualifica in modo impressionante: “Ero rinato”. È una sorta di mutazione della propria identità. È una svolta, non qualcosa che si è evoluto, è un movimento, un istante isolato in cui il soggetto passa dall'altra parte. Quel momento non può essere trascurato rispetto all’evoluzione della malattia. Tutto diventa impreciso dal punto di vista mentale ed è necessario occuparsi di ciò che il nostro paziente dice quando lo si esamina, soprattutto occorre fare attenzione alla sua certezza sul fatto che un giorno qualcosa è cambiato. Si tratta di cercare la certezza del paziente – che si trova altrove – che è un elemento diagnostico della psicosi. Adottare questa idea come una regola ci evita di confondere l’isteria con la psicosi. L’oscillazione clinica è un elemento sensibile nelle presentazioni collettive o individuali di casi in Argentina. L’elemento di certezza del paziente sia dell’ingresso in un’altra fase dell’esistenza, sia del fatto che sue allucinazioni esistano nel reale, si differenzia completamente dallo stile dell’isteria. Non posso immaginare che ci sia follia quando un'isterica viene da me con la sensazione che la realtà sia modificata, perché non sa mai se è sveglia o se sta sognando, e tante idee fantasiose le stanno passando per la testa. Maggiore è la sua incertezza sul fatto di essere sveglia o di stare sognando, tanto più lontana rimane la possibilità di una vera e propria psicosi, perché questa è caratterizzata dalla certezza del paziente, e non dall'idea che il mondo gli gira intorno, che non trova il proprio posto e che prova a identificarsi con il mondo per sentirsi stabile. Questo non è nello stile della psicosi. Così, come quel momento di certezza che è possibile isolare, tipica della psicosi è quella fase di apparente "vita vegetativa”, anche se, in realtà, è vita intensa. Se la persona passa tre mesi a letto è perché riflette sulla preparazione della sua nuova nascita. Abbiamo una testimonianza specifica nelle Memorie di Schreber, che ci dice di cosa si occupava quando restava giorno dopo giorno sdraiato a letto. Questo momento statico non è per nulla comparabile con la stanchezza del nevrotico, non è depressione, ma è vita intellettualmente intensa, che lo assorbe interamente. Tornando al primo elemento, l'autobiografia, è tipico il ricorso alla scrittura per apprendere il reale che ne scaturirà. In che modo implichiamo qui il significante? Lo implichiamo perché c’è questo momento di superamento di soglia, che deve essere pensato in termini di elemento e di sua sottrazione. Ma non solo per questo, perché l'uomo si chiama N., è il suo nome proprio. Ha due fratelli con nomi davvero banali, e ne ha altri due con nomi di famosi inventori, il che mostra chi era suo padre: era un uomo legato alle grandi figure dell’umanità, e su quelle figure ideali costruiva la sua famiglia. Il primo risultato è il nome proprio N., che era un ingegnere che lavorava con gli esplosivi e che passò la vita a fare ricerche su questo. Lo psichiatra aveva segnalato che la figura più stimata della famiglia era il nonno paterno, che era un professore. Quest’ultimo trasmise al figlio, il padre di N., un grande rispetto per il sapere. Ho solo il materiale scritto, non ho visto né interrogato nessuno. Constatiamo che ci sono le tre generazioni necessarie per fare un vero psicotico: in questo caso, come per Schreber, abbiamo le tre generazioni. La psicosi è una cultura, ha bisogno di tradizione, e questo è, per altro verso, ciò che in psicoanalisi viene chiamato il Super-Io. Il Super-Io non è semplicemente identificazione con i genitori, con i divieti genitoriali, ma condensa in effetti le tradizioni esistenti. In Argentina mi hanno parlato del caso di una paziente prigioniera della tradizione materna. Da tre generazioni le donne della famiglia si sbarazzavano regolarmente degli uomini. Si tratta di un caso preso in cura di recente. L’analista dovrà lavorarci sodo perché, in questo momento, il destino della paziente è completamente determinato e prestabilito. Sposata da sedici mesi, ha un bambino e cerca un modo per sbarazzarsi del marito, e sembra che lo troverà. La psicoanalisi non fa miracoli, lo psicoanalista può a malapena cercare di collocarsi tra il fatto e la paziente, ma resta molto difficile. Questa era una digressione per parlare del destino della famiglia. Il padre di N. non era violento, stando a quanto lui stesso dice, ma non era nemmeno affettuoso. La madre aveva un buon carattere, ma a tratti soffriva di infermità mentale, ed era stata internata tre volte. Che idea ci si può fare di N.? In famiglia, a detta dei figli, era molto duro, non molto affettuoso, tranne che con la figlia maggiore, e faceva vigere una dura legge. Due o tre elementi di ciò che è stato rivelato dall'esame psichiatrico li ho qui davanti agli occhi: "Quando lo vide lo psichiatra, la sua preoccupazione maggiore era di mettere in ordine le sue carte. Questo aspetto riappare in alcuni colloqui riportati nel dossier: è importante il fatto che se le sue carte sono in disordine, per lui è necessario mettere a posto. È anche convinto che non si prendessero cura di lui con le dovute attenzioni e afferma: "Non ho problemi psichici, i miei problemi sono fuori”. Posso riferirvi anche la diagnosi approssimativa dell’ospedale: psicosi involutiva mista. Personalità premorbosa, paranoide, narcisista. Fattore scatenante: “Periodo di degenza ospedaliera, nel giugno dello scorso anno, vissuto come una situazione di dipendenza, con grande paura della morte”. Lo psichiatra pensa di poter fare una buona diagnosi a partire dallo stato attuale, cosa che non corrisponde al nostro modo di vedere la questione, poiché abbiamo un punto di vista strutturale. Non è un paziente che non possa essere dimesso, ma non può esserlo in breve tempo. Riuscivano a controllarlo con i farmaci. E gli hanno fatto persino alcune sedute di terapia familiare che consistevano nel trasportare fin lì la famiglia per far capire ai famigliari che non sarebbe più stato come prima, ma che “questo non era un buon motivo per sbarazzarsi di lui”. Questa terapia si basa su attività di contenzione. Il punto centrale per questo paziente sono le cattive condizioni o la perdita delle sue carte. Posso ancora citare due o tre cose e poi passeremo alla riflessione. N. era convinto che quello della degenza fosse il momento in cui il suo delirio era retrocesso o in cui, forse, si era almeno placato. "Avevo l'impressione che mi perseguitassero, che mi tenessero d’occhio, e che le mie attività, considerando che usiamo esplosivi ad alta potenza, potessero farmi passare come un elemento sovversivo. Lavoravo con un’autorizzazione speciale dei militari. Potevano pensare che utilizzassi gli esplosivi a scopi terroristici”. Non potremmo dire subito che è delirio. “Temevo che prendessero le mie carte, che non erano in ordine, ma traspapelados, tutte mescolate. Si dice così in portoghese, traspapelados? No? È una bella parola, non so se spagnola o argentina. Spagnola, traspapelados. È per dire che le carte sono in disordine, una sopra l’altra, è una bella espressione che non esiste in francese. Ancora una citazione: '"Una volta ho sentito un rumore molto particolare in casa, un suono forte, e mi hanno spiegato che erano rumori legati all’autoalimentazione dei sistemi di microfoni in fase di registrazione”. Era davvero convinto di essere registrato costantemente e ovunque, e questo lo faceva star male. Continuando con il tema delle carte, spiega quanto si sentisse angosciato all'idea che fossero in disordine. Il terapeuta prova a dirgli che si tratta solo di una sua sensazione, a questo il paziente risponde che no, che si tratta di fatti, di cose esterne, oggettive. È davvero un bel un caso. Niente, qui, è stato forzato per dimostrare come il correlativo di questo momento acuto di superamento di una soglia significante metta in discussione la sua identità e – come emerge dall'autobiografia – il suo stesso nome, che ha avuto un’evidente importanza nella sua vita, come nella sua attività professionale. Il momento della superamento di soglia è correlativo, sensibile allo sgretolamento di un mondo, ma segnato da che cosa? Cosa viene colpito in maniera sensibile? Quel che riguarda la parola, la sua parola, visto che è convinto di essere ascoltato attraverso microfoni e, allo stesso tempo, è coinvolta anche la scrittura. Questo si evidenzia nel ripresentarsi costante del fatto che c’è disordine nelle sue carte, negli ordini di pagamento, nei debiti, in tutto ciò che sostiene l’ordine significante del suo mondo. Non ci parla di una psicosi involutiva, ma di qualcosa che riguarda il significante e il suo disordine; possiamo aggiungere questi due registri: della parola e della scrittura. Dobbiamo interrogarci ora sulla causa. Cosa si è presentato, al momento dell’ospedalizzazione, come elemento non integrabile, come elemento che bastò a mandare a pezzi l'armatura del suo mondo? Siamo nel campo delle ipotesi, ma sono questi i termini entro i quali si deve porre la domanda: quale elemento si è presentato come non integrabile al suo universo significante? Quale elemento lo ha rimescolato, lo traspapelo? Chi ha effettuato il rimescolamento, il traspapelamiento? Qual è l'elemento rimescolatore, trapapelador? Traspapelar: non ci arriviamo per caso, questa parola esiste effettivamente nella lingua spagnola. Tendiamo a immaginare, per quanto dei testimoni vi siano, che lui abbia "una forte personalità", che è un modo elegante per dire quanto rivelato nel dossier: che in casa era un tiranno, un padre di famiglia che faceva regnare intorno a lui una legge ferrea. Tutti i suoi figli lo descrivono nello stesso modo, come un uomo duro che li opprimeva. Nella sua posizione soggettiva era un padrone, e lui stesso racconta di quanto fosse duro nel suo lavoro e duro anche con se stesso; viveva in perenne tensione. Di un padre terribile, che tutti i bambini temono e particolarmente affettuoso con la figlia, si dice: ecco una versione moderna, un po’ degradata, del padre dell’orda. Ecco qui il padrone il godimento in toto. È una ricostruzione, però rende comprensibile questo caso, giacché la prima ospedalizzazione della sua vita ha potuto produrre l’insorgenza psicotica in maniera brutale. È un padrone innalzato al rango di quel che Hegel chiama "padrone assoluto”, cioè la morte. Se ricostruiamo la sua posizione soggettiva in modo coerente possiamo comprendere l'emergere del significante padrone assoluto, la morte, che di fatto si è inserito contro l’intero fondamento della sua posizione soggettiva. Questo ha almeno un valore di ipotesi per far comprendere l’articolazione possibile tra la personalità descritta e l'estremo impatto dell’esordio psicotico, il ricovero in ospedale e lo stato in cui vive all'interno della famiglia. Le sedute di terapia familiare ci mostrano chiaramente che è passato dalla posizione di padrone a quella di schiavo, da cui rinascerà nella posizione inversa, di assistito. Non possiamo nemmeno immaginare che sia recuperabile, non si può curare un uomo di sessantasei anni, e dopo un episodio del genere sarei sorpreso se lo lasciassero lavorare con gli esplosivi. Quando vediamo un caso come questo non dobbiamo affrettarci a dire che lo cureremo, sappiamo che siamo di fronte a qualcosa di impossibile da recuperare, è un caso di scuola. Ho già fatto una lezione partendo da lui, ed è anche quanto di meglio si possa fare. Apprezzo però il lavoro svolto dagli psichiatri, visibilmente interessati a essere precisi, senza trattare il caso alla leggera. Non posso tuttavia essere d'accordo con la loro idea che si possa formulare una prognosi favorevole, né vedo come in un caso simile si possa definire una prognosi favorevole. Se vogliono semplicemente dire che il momento acuto è passato e che il suo umore si può controllare, va bene, ma non vedo come si possa recuperare la struttura in questione. Sono d'accordo con il paziente quando dice che i suoi problemi sono solo esterni perché, in effetti, il significante è fuori, siamo noi a immaginare che sia dentro le nostre teste, dove al limite cerchiamo di collocare questo reale. Consideriamo Chomsky, per esempio, indiscutibilmente un sapiente, ma un sapiente delirante. Nei suoi ultimi scritti è ossessionato dal fatto che il reale del linguaggio lo avremmo nella testa, per l’esattezza nel cervello. È tuttavia un sapiente linguista. D’altro canto lui lo spiega in maniera molto seducente. L'ho sentito recentemente a Parigi, durante uno dei suoi viaggi. È molto simpatico, ma questo non gli impedisce di essere delirante. Rende manifesto che il significante esiste al di fuori, come per N., cioè che viene dall’esterno. Esce dalla bocca però è al di fuori. Quello che ora mi esce dalla bocca per molti di voi non è importante – perché è la voce femminile della traduttrice che ascoltate, è lei che parla, che racconta il significante in questione – poiché domani chiunque potrà godersi le mie parole quanto vuole, grazie a questo piccolo congegno. Ho qui il modo in cui il significante si sostiene al di fuori del soggetto, in cui è più astuto di noi. Questo psicotico lo spiega nella sua autobiografia, che ha intitolato La mia vita, di cui conosco solo poche pagine, ma quando ho lasciato l'Argentina l’ho ordinato e mi è stato inviato il testo completo. N. si pone in relazione con il computer IBM. Se c'è qualcosa che presenta un sapere indipendente dal soggetto e che esiste nel reale, è questa figura moderna: il computer. La scienza fa qualcosa per la psicosi, le offre la garanzia che non si tratta di un sogno. La forma in cui si presente la sua autobiografia è in relazione con il modo in cui lui stesso si mette in relazione con il computer. “Ricordo la mia esistenza fino alla settima vita terrena, calcolata dai più moderni computer IBM di ottava generazione, nell'anno di grazia 1980 di Dio nostro Signore. Autore N. X., ma l'equivalente di X. non c’è perché non c’è il suo nome. Autore: N., alias Felix, e il suo soprannome di famiglia: (Gatto)”. Sarebbe quindi nella sua settima vita, mentre il computer è all'ottava generazione e questo di per sé costituisce già una differenza. È un nome molto interessante, il famoso Felix. Lui stesso commenta: “L'autore chiarisce espressamente che L., nome di battaglia sopra indicato, non è frutto di un capriccio. È stato imposto in strane circostanze durante la prima infanzia, da uno sconosciuto che non riuscì a trovare nessun antenato europeo nato nelle famose pianure della Mancia. La motivazione nota fino ad ora era l’identificazione di Felix con la razza felina, la cui origine è rintracciabile nella villa della residenza paterna, in via ecc…” Così il nome Felix impostogli sin dalla più tenera età dal destino – o da qualcuno che da lassù domina le marionette che abitiamo in questa valle di lacrime – si identificò con i giochi da bambino che faceva con le centinaia di gatti e gattini che abitavano in quella grande villa di residenza. “E i gatti disponibili fino a questa data, per quanto incompleti, alimentavano l'orribile ventre elettronico di un nuovo computer IBM. In omaggio alla memoria del mio adorato padre, Don Ramiro, a cui l'autore non deve solo la sua esistenza, lo strano nome, unico al mondo, ma anche, e questa è la cosa più importante, l'attuale professione di geofisico specializzato in petrolio, minerali e idrologia”. Questo è l'inizio dell'autobiografia del nostro personaggio, e dovrebbe essere letta tenendo accanto il testo di Schreber, che è un paradigma della psicosi. Un'espressione come: “le marionette che abitiamo in questa valle di lacrime”" non è qualcosa che si senta dire da un’isterica. È necessario sapere di cosa parla il paziente. Ci sono casi difficili, che stanno sul limite, che, tuttavia, non autorizzano a parlare di psicosi isterica, perché è una contraddizione in termini dal punto di vista strutturale. Allo stesso modo, l'evocazione del destino, o di qualcuno che dall'alto "domina questa valle di lacrime, domina le marionette che abitiamo” è anche tipica della psicosi. La valutazione che fa del sapere nel reale è molto bella: "l'orrendo ventre elettronico.” Dobbiamo chiederci da dove viene, che cosa rappresenta per lui il nome Félix, questo nome che soppianta il suo: possiamo arrivarci attraverso ciò che evoca più avanti: "la mia felice permanenza" in ospedale, dove si dice che ciò che lo ha turbato, lo ha preoccupato, era stato il fatto che non ci fosse la stanza numero 13. Il suo disagio si incentra sul significante, sull’assenza del numero 13, che suppone non usino per superstizione: qui si avverte un buco nel significante che lo disturba in particolar modo. Ma lui evoca il suo “soggiorno felice", e c'è un altro momento nella storia in cui compare la parola "felice": la "felicità" di quando era a scuola, con gli amici e, a causa di una perdita della struttura, designa il suo godimento psicotico con questo nome, Felix. È un godimento di cui Schreber parla in modo enfatico, senza i limiti che noi ci imponiamo. È un godimento che può essere intollerabile, che lega la follia e la donna, un legame noto da molto tempo, che porta alla convinzione che le donne sarebbero folli, perché i folli in qualcosa sono donne. Nei folli è sempre possibile trovare questo punto di godimento speciale ed eccessivo: Schreber ne è l'esempio paradigmatico. Lacan ne ha scritto il matema: l'effetto della pousse à la femme, la “spinta alla donna”. In francese abbiamo l’espressione pousse au crime “induzione al crimine”, il che significa che qualcuno induce un altro a commettere un crimine. Lacan ha sostituito pousse au crime con pousse à la femme, ovvero un effetto di femminilizzazione del pazzo che traduce in modo molto particolare la preclusione del Nome del Padre. Freud aveva individuato questo problema analitico e per questo diceva di non sapere cosa volesse una donna, perché gli sembrava che in lei il Super-io non fosse come nell’uomo: nella donna non ci sono limiti. È ciò che i matemi di Lacan cercavano di descrivere. Il non-tutto della donna, come dice Lacan, è la scrittura dell'assenza di limiti nella donna, non ci sono limiti, per esempio, in ciò che una donna può fare per un uomo. Ma Felix brilla come El solar, nome dell’antica residenza di famiglia, con tutto il godimento che rimane a N. Lui si era turbato per il disordine delle carte, ma ci siamo convinti che da qualche parte nella sua autobiografia, troveremo espressamente la sua identificazione con le centinaia di gatti e gattini, tantissimi gattini: quella moltitudine – oso dirlo in francese – chatoyante, una moltitudine sfolgorante. E questa è la sua risorsa. Potremmo descrivere questo caso a partire dal discorso del padrone di Lacan, poiché ipotizziamo che N. sia il padrone, e il discorso del padrone presuppone l’identificazione del soggetto con un significante padrone. Partiamo dall’idea che questo significante, che noi supponiamo debba aver sostenuto la sua esistenza, era il nome N. E perché no? Si tratta infatti del padre proprio all'epoca in cui viene varcata la soglia. Questo significante padrone, dominato dal significante assoluto che è la morte, irrompe nella sua esistenza con l’arrivo dell’edema polmonare. Il significante che a un tratto lo pianta in asso scioglie i diversi elementi di questo discorso, soprattutto il sapere, che comincia a vivere di vita propria nel reale, che cessa di essere legato al significante padrone, che si ritrova separato. Questo è l’esordio. Allora cosa resta? Da un lato solo un nome, perché da quel momento è separato dal significante padrone, il sapere si separa, il soggetto stesso si separa, ed esiste una funzione che dovremo trovare da qualche parte: dove se ne va il godimento, che scriviamo con la a minuscola? Il nome che perde in quella trasformazione, N., lo sostituisce con uno che crea attraverso il proprio godimento, il nome Felicità, e a partire da lì sarà eventualmente in grado di ricostruire un delirio stabile. Come è successo a Schreber, che si è curato con il proprio godimento, perché gli produceva godimento guardarsi allo specchio e vedervi riflessa una bella donna. Quel che è interessante in questo paziente è per prima cosa tutto ciò che vi ho detto, però sono soltanto ipotesi. Spero di tornare a Parigi per leggere tutta la sua autobiografia, e lì vedrò cosa modificare dell’ipotesi che ho assunto come punto di partenza. In secondo luogo, il paziente di sessantasei anni è in buono stato di salute e potremo verificare come si evolve, ci sono buone speranze. Ci aspettiamo molto dall’incontro di Parigi in febbraio, convocato dallo stesso Lacan durante l’ultimo incontro tenutosi a Caracas. Abbiamo molte aspettative, perché è grazie allo scambio di casi clinici che possiamo essere più utili agli altri, non solo condividendo riflessioni teoriche su Lacan. Sono stato molto contento di trovare in Argentina materiali clinici, e non intendo abbandonarli nel fondo di un baule. Vorrei porre un’ultima domanda. Perché uno non deve continuare a girare intorno alla terapia come ipnotizzato? Perché esiste un’autoterapia. Una volta passato il momento acuto, di vita vegetativa, si verifica una restituzione e si stabilisce un nuovo equilibrio. Si ricostruisce una nuova metafora, quella che Lacan chiama metafora delirante. È una metafora che delira in modo diverso dal delirio della metafora paterna. Per questo non è necessario disperarsi tanto e, in questo caso, è necessario imparare a rispettare l’impossibile. È difficile. Mi fermo qui, e risponderò alle domande che mi vorrete fare. Dibattito P.: La sua presentazione mi è molto piaciuta, per due ragioni in particolare: la prima è che il momento d’insorgenza del delirio, che la psichiatria classica chiamava irruzione delirante, appare sia in N sia in Schreber, in forma di irruzione ironica, un’enorme ironia rispetto agli ideali del padre. Sia l'uno sia l'altro hanno cercato di fare ironia sulla determinazione e sugli ideali paterni, elemento che si ripete frequentemente nell’esordio di qualsiasi psicosi. La seconda è che l’evoluzione del delirio sembra senza dubbio, essere il lavoro volto alla produzione di un luogo del soggetto. Si ha l’impressione che lo psicotico abbia bisogno di un padrone, non un padrone che lo domini, ma di un altro padrone. L'incontro con l’altro padrone – la morte – nel caso di Schreber è con l'impotenza che non gli permette di avere figli. Tutto il delirio scandisce e cerca quel padrone. Potremmo dire che lo psicotico, o almeno il paranoico, come N. e come Schreber, cerca il padrone come si cerca una donna. N. e Schreber lo trovano, ma non nella posizione di padrone, bensì di donna. Ci penso già da molto tempo: potremmo dire che il delirio è un tentativo, senza successo, di costituire un discorso? Potrebbe essere un discorso in senso lacaniano? Il discorso del padrone, dell'università o anche dell’isterica? Certamente non vogliamo associare questi discorsi alla nosologia. J.-A.M.: C’è un problema a dire che si tratta di un tentativo di costituire un discorso in senso lacaniano, giacché questo si fonda sull'assenza di rapporto sessuale. Ci sono quattro discorsi – esistono, sono istituiti – che rispondono all'assenza di rapporto sessuale. Ora, in fondo, cosa costituisce per esempio il delirio di Schreber,? Parliamo di lui perché lo conosciamo come caso clinico nel suo insieme. Il delirio di Schreber tende, al contrario, a costituire il rapporto sessuale, e anche a presentare una rapporto sessuale più importante, un matrimonio sacro. Un vero e proprio matrimonio sacro, come ne troviamo nella mitologia antica e come era praticato nelle grandi monarchie giapponesi, cinesi, e persino occidentali, dove la coppia reale rappresenta l'unione dei due principi essenziali della vita, cosa che oggi conosciamo in modo degradato. Quando il principe Carlo sposa Lady Diana, in una forma che non è più sacra, ma pubblicitaria, c’è solo un residuo di questo modo di immaginare il rapporto sessuale. Adesso, bene, Schreber diventa la donna di Dio, è la promessa sposa di Dio e nel futuro – perché lo rimanda al futuro – da questa unione nascerà una nuova razza di uomini. Il suo discorso è formulato per situare il rapporto sessuale, così da farlo esistere. Io tenderei a lascialo dove dovrebbe stare, fuori dal discorso. Ha ragione a definirlo così, paranoico, perché la schizofrenia è diversa. C'è una vecchia questione, che da diversi anni si pone nella Sezione Clinica: la richiesta di dedicare un giorno, un anno, alla schizofrenia, ma ci tiriamo sempre indietro, come per l'appunto è accaduto tre anni fa. Bisogna anche dire che Lacan ne ha parlato molto poco. Sarebbe necessario riprendere le cose dall'inizio, dalla storia dei termini, senza dimenticare che proprio la psicoanalisi è all'origine del termine schizofrenia, termine che dobbiamo a Bleuler. Basta leggere la corrispondenza tra Freud e Jung per vedere fino a che punto il concetto forgiato da Bleuler di schizofrenia – che in realtà è un problema che coinvolge il corpo – sia stato concepito in relazione a quanto insegnava Freud. In che senso però la schizofrenia è un problema che coinvolge il corpo? Lacan lo spiega dicendo che essa caratterizza, nell'essere umano, il rapporto tra organo e funzione. Abbiamo degli organi, dobbiamo trovare le loro funzioni. Da un punto di vista biologico gli organi hanno già delle funzioni, ma ci appaiono sempre alcune cosine che nell’immediato non ci sembra di dover usare, e della cui utilità avremo coscienza solo più tardi. Per un bel po’ di tempo ci è sembrato che le tonsille servissero solo per essere rimosse chirurgicamente. Oggi le rimuoviamo con minor frequenza, perché conosciamo la loro funzione specifica. Questo riguarda il punto di vista biologico. L’altro aspetto riguarda il punto di vista del significante. L'uomo si è inventato funzioni significanti per i propri organi. Anche se ci sono degli idioti come Bernardin de Saint-Pierre con le sue idee, come quella che il mare che esiste per metterci le navi e che se abbiamo un naso è perché serve ad appoggiarci gli occhiali. È tuttavia vero che ci preoccupiamo di dare un significato ai nostri organi, alle varie parti del nostro corpo, ed è per questo che se ne modifica l'uso. I lobi delle orecchie saranno stati inventati per indossare orecchini? La questione si pone. Ci sono invenzioni straordinarie, come per esempio quella della religione ebraica che riuscì a dare un significante – recidendo una parte del corpo – dell'alleanza fondamentale con la legge divina. Ci sono anche molti altri modi, a volte più segreti nel loro utilizzo, per significantizzare gli organi. Lacan, in realtà, caratterizza come schizofrenico chi ha difficoltà a trovare le funzioni dei propri organi. Il desiderio stesso incontra questa difficoltà, dovendo farli significare, dal momento che non sono implicati in una relazione istituita. Ad ogni modo, nella schizofrenia, questo non ci porta molto lontano, certamente non indica alcun modo di trattamento, almeno in forma di parola, poiché l'intera questione sta negli organi che si mettono a parlare ciascuno per conto proprio. Un forma di parola che si pone fuori dal discorso, ma non fuori dal linguaggio dello schizofrenico. Sono soddisfatto di quello che possiamo dire, noi analisti, sulla schizofrenia, ma non ancora del tutto, dato che sicuramente si tratta di una questione fondamentale. Dal nostro punto di vista, parliamo della paranoia in modo approfondito meglio di quanto facciano gli psichiatri. Gli psichiatri della schizofrenia non dicono molto. Qui resta comunque un campo aperto. P: D: Mi chiedo se la posizione dello psicotico sia duplice: al di fuori del discorso e all'interno del linguaggio. Nel suo delirio N. afferma che c'è rapporto. Tuttavia, dice: "Mio padre era pazzo, voleva che io fossi N.”. Schreber dice: "Mio padre era pazzo, voleva che io fossi una marionetta ben fatta, seguendo la sua ginnastica, i suoi esercizi, le sue imposizioni”. Voglio sottolineare la dualità in cui mi ritrovo quando dialogo con gli psicotici, che richiedono un ascolto in più modi. J.-A.M.: È necessario esaminare ogni caso per dire cosa richiede lo psicotico, questa è la difficoltà nel processo. Quando sei un chirurgo, non hai bisogno di essere riconosciuto dal paziente. Il terapeuta tuttavia, nella misura in cui si considera tale, è necessario sia costituito come tale dal paziente. Nella psicosi l'esistenza del luogo in cui può essere costituito non è evidente. Se uno di noi si presentasse davanti a Schreber, saremmo con tutta probabilità già condannati. Possiamo noi considerarci terapeuti, ma non lo saremo per il paziente. L'unica domanda che abbiamo da parte di Schreber è che si leggano le sue Memorie, per contribuire alla formazione scientifica dell’umanità. Questa è la sua domanda. Non chiede in alcun modo di essere curato. La sola domanda di N. è di tenere in ordine i suoi documenti. Questa è la sua domanda essenziale. D: Ma perché Schreber mi chiede di leggere il suo testo e di trarne delle conclusioni? J.-A.M.: Ci sono casi in cui può esserci una domanda, però è necessario sottolineare che questa domanda, costituita o meno, è già un elemento che deve essere considerato con attenzione. Il fatto di poter domandare di per sé è già molto. L'ossessivo, per esempio, è perfettamente in grado di domandare un'analisi, ma durante il percorso potrebbe non essere in grado di chiedere di più, e chiede piuttosto un altro che risponda automaticamente alla sua domanda, ma non molto di più. Se non ci sono altre domande, ci vediamo all'ultimo incontro-conversazione, alle tre del pomeriggio, dove vedrò se parlare di un caso di nevrosi ossessiva. Vorrei anche dire qualcosa sui gruppi analitici, ma vedremo come si svilupperà. Traduzione di Micol Martinez
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Agosto 2024
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