Pubblichiamo questo articolo come sintomo di un’epoca. La depersonalizzazione è un fenomeno molto studiato dalla psicoanalisi, e nelle riviste di settore si trovano decine di articoli sull’argomento. Era però ben conosciuto già dagli psicologi e dagli psichiatri prepsicanalitici del XIX secolo. Janet per esempio in base alla sua teoria ne diede una spiegazione che al tempo era stata considerata una svolta concettuale nello studio di questo particolare problema. Ora, stando all’articolo qui di seguito riportato (il cui titolo originale è: “Disturbo di depersonalizzazione: la condizione medica di cui non avete mai sentito parlare e che colpisce milioni di persone”) pare che nessuno psichiatra oggi sappia di cosa si tratta, e che per informarsi gli specialisti debbano cercare su Google. Purtroppo si capiscono le ragioni di questa devastante perdita di conoscenza: nella misura in cui il dogmatismo scientista è diventato il pensiero unico della nostra epoca, le esperienze del passato svaniscono, il patrimonio di sapere accumulato si scioglie, e lo sguardo si rivolge in modo esclusivo alla farmacologia e alle patologie definite in base ad essa. E gli unici interventi d’affiancamento presi in considerazione, come questo articolo dichiara apertamente, sono quelli provenienti dalle forme di terapia mimetiche della scienza, le terapie cioè che imitano i procedimenti scientifici, pur senza averne i mezzi, per applicarli al campo della soggettività. Parliamo delle terapie cognitivo-comportamentali. L’impoverimento culturale portato dal dominio del pensiero scientista è allarmante, e tutte le discipline relative al campo della soggettività rischiano di esserne travolte. Questo mostra l’urgenza di ritrovare il filo smarrito di forme di pensiero il cui rigore non è debitore del metodo scientifico, e la cui epistemologia non è trattabile in termini positivisti. Una persona su cinquanta ne è una vittima, e vive con la sensazione di essere un robot – ma anche i medici devono cercare su Google. Ora una malata è impegnata ad aiutare milioni di persone a uscire dal loro tormento.
di Howard Swains Venerdì 4 Settembre 2015 Jane Charlton non era in sé quando si alzò un giorno dell’Aprile del 2002, ma era qualcosa di molto più spaventoso di qualsiasi altra mattina in cui le capitava di sentirsi stordita – e rimase in quello stato per i successivi tre anni. “Era come la sensazione, fondamentalmente, di non essere a posto nel proprio corpo", dice Charlton, cercando di descrivere quel che è rimasto per lo più indescrivibile: i sintomi del disturbo da depersonalizzazione, la condizione che le ha risucchiato una gran parte della sua vita. "Era una costante, continua esperienza di irrealtà", dice. "Era la sensazione che stare così, al tempo stesso dovrebbe essere come non esistere. Era la sensazione era di aver completamente abbandonato me stessa, cercando costantemente di afferrarsi alla realtà, e di recuperare quello che avevo un paio di giorni prima. Ieri avevo una vita, e ora non ho nulla”. Il disturbo di depersonalizzazione, o DPD, è tra le condizioni psichiatriche più comuni nel mondo, anche se tra le meno riconosciute. Secondo studi svolti in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, il DPD potrebbe interessare fino al 2% della popolazione – pari a circa un milione e trecentomila persone nel Regno Unito, e sei milioni e quattrocentomila negli Stati Uniti. Le persone affette da disturbo di depersonalizzazione descrivono un senso di completo distacco, una vita vissuta come un automa o con il pilota automatico, caratterizzata da una mancanza di emozioni, buone o cattive che siano. (Si potrebbe pensare alla serie TV di fantascienza “Humans” trasmessa da Channel 4 in Gran Bretagna dal 14 giugno 2015, che mostra un'intelligenza in trappola, senza potere, nel corpo di un robot). Le persone si sentono come se stessero osservando la loro vita attraverso una lastra di vetro o una fitta nebbia, o come se appariressero in un film. I loro corpi e le loro esseri sono separati; gli arti non fanno più parte di loro. ”L’immagine migliore che mi viene in mente è di essere come un omino seduto nel retro della mia testa, con i controlli. Da lì puoi vedere l'interno del tuo cranio e guardi fuori dalle orbite," Charlton dice. "Quando per la prima volta ne ho parlato con mio padre, le parole che ho usato sono state: 'Sono diventata pazza. Finalmente è successo, sono diventata pazza.” Se gli studi sono accurati, le persone che hanno il DPD (o il disturbo strettamente collegato di derealizzazione), sono in numero più o meno equivalente a quelle diagnosticate come schizofreniche o come affette da disturbo ossessivo-compulsivo. Quasi tutti coloro che soffrono di DPD, descrivono tuttavia anni spaventosi, di isolata frustrazione, senza una diagnosi. Passano infatti attraverso innumerevoli visite da medici e psichiatri che scrollano le spalle non sapendo che fare, poiché non hanno mai sentito parlare di questa condizione. Charlton, trentadue anni, ha intenzione di porre fine a questo smarrimento. Spera di estendere la conoscenza del DPD, per offrire alle persone una via d'uscita dal loro tormento con l'accesso allo stesso trattamento che alla fine l'ha salvata. “È un po’ diverso dalla maggior parte degli altri disturbi, per i quali la gente sostiene che non ci sono i trattamenti appropriati o i medici giusti in grado di aiutarci. Noi invece li abbiamo. Ci serve solo un po’ di consapevolezza", dice. Una clinica di cure specialistiche per il DPD è stata aperta presso il Maudsley Hospital di Londra nel 1999 ed è stata frequentata da più di cinquecento pazienti nei primi sei anni di attività. Il personale della clinica ritiene tuttavia che questo numero rappresenti solo una piccola parte delle persone con questo disturbo, la cui diagnosi spesso deriva più dall’inserimento di particolari termini di ricerca in Google, che non da visite presso medici. “Spesso il punto di svolta per sentirsi meglio è avere una diagnosi", spiega Charlton. "Se siamo in grado di fare qualcosa di così semplice per portare avanti questa diagnosi nei prossimi anni, non so perché non l’abbiamo già fatto.” Il primo scritto che attribuisce l’etichetta di "depersonalizzazione" a un opprimente senso clinico di separazione, risale alla fine del XIX secolo, da quando cioè i suoi sintomi sono stati in seguito spesso presentati come un ulteriore contributo per riconoscere meglio determinate condizioni, come i disturbi d'ansia e la depressione., Il DPD può presentarsi tuttavia anche di per sé, e viene generalmente interpretato dicendo che il cervello ha innescato un meccanismo naturale di difesa contro gli stati estremi di ansia; una volta raggiunto un limite arbitrariamente definito, il cervello subirebbe un completo arresto emotivo, che annulla tutte le sensazioni di piacere e di dolore, l'amore così come l’odio. Molti sperimentano una qualche forma di depersonalizzazione temporanea nel corso della loro vita, solitamente in momenti di estrema stanchezza o di stress elevato, come ad esempio in un incidente d'auto, quando entrambe le opzioni di difesa consolidate, la lotta o la fuga, vengono meno. Anche un certo numero di droghe può provocare episodi simili. Il DPD tuttavia non ha sempre inneschi così evidenti, né riesce ad attenuare le sollecitazioni, lasciando la persona bloccata in un deserto emotivo. Charlton era una studentessa di diciotto anni, con un elevato rendimento quando, a metà del primo anno di università, ha cominciato a manifestarsi la depersonalizzazione. Era a una festa con il suo fidanzato in Francia, e aveva cercato di drogarsi mangiando uno yogurt mescolato con cannabis, ma i suoi sintomi – che potrebbero suonare familiari a chiunque abbia fumato un po’ di cannabis di troppo – risultarono più pesanti del normale, e durarono molto più a lungo di quanto potesse avere senso dal punto di vista biologico. Non è raro un inizio di DPD causato dal consumo di droghe, e sono noti casi di utilizzatori abituali che improvvisamente risultano incapaci di uscire da un picco o da una caduta. (Charlton aveva provato la cannabis solo una volta prima di allora). Ma tra le altre principali cause di DPD si possono includere un singolo evento traumatico o periodi sostenuti di abuso fisico o emotivo. Altri riferiscono l'esperienza del disturbo senza mai comprenderne pienamente la causa. Rachel (non è il suo vero nome), laureata all’accademia d’arte, di ventitré anni, dice che la sua depersonalizzazione si è verificata quando aveva diciotto anni, mentre era seduta nel retro del giardino, in una pausa mentre stava studiando per il diploma. Pur essendo stata incline all'ansia da bambina, la comparsa del DPD è stata subito grave e l’ha lasciata come uno zombie. “Ho davvero, davvero pensato di essere morta, tutto era completamente inutile," dice. «E se non sono morta, tuttavia niente mi interessa abbastanza da applicarmi adeguatamente a qualsiasi cosa.” Rachel è figlia di un medico di famiglia, che sebbene fosse totalmente comprensivo e si fosse dato da fare in di aiuto per la sua condizione, inizialmente, come chiunque altro, non aveva nessuna conoscenza del DPD. Aver trovato alla fine su internet alcune informazioni riguardo al DPD, ha portato a un punto di svolta la lotta di sua figlia, la quale ha potuto apprendere la via che l'ha portata al Maudsley. “Per la mente è un modo intelligente di rapportarsi con l’ansia, ma ti fotte completamente", dice Rachel. “Tanti ne soffrono, ma non c’è letteralmente nessuna informazione. Mio padre ha trovato un articolo su un piccolo sito web e senza di esso sarei stata fregata. “ Qualunque sia la causa scatenante del DPD, chi ne soffre riferisce sintomi molto simili. Parla di barriere tra la coscienza e la vita reale, di senso di vuoto, di futilità e di estraniamento. Due libri del giornalista americano Jeffrey Abugel, dai titoli “Feeling Unreal”, e “Stranger to myself” riportano le esperienze di persone affette da DPD. Charlton ha tirato fuori l'immagine dell’omino seduto nel retro del cranio, ma è rimasta stupita quando online ha trovato uno schizzo raffigurante esattamente la stessa figura. La ricerca di immagini su Google per il DPD è elevata. Il DPD è diverso dalla psicosi o dalla schizofrenia per il fatto che chi ne soffre non è mai convinto che si tratti di una realtà alternativa, che gli oggetti o le persone siano diventate qualcosa o qualcuno che di fatto non sono. Il DPD invece, presenta un mondo di metafore e similitudini: le persone spesso riportano esperienze di "sentirsi come" o "come se" qualcosa di insolito si fosse verificato. Le persone con il DPD inoltre spesso non appaiono affatto star male o diverse anche agli occhi dei loro conoscenti più stretti; nonostante sentano una totale mancanza di empatia, gli amici e famigliari non notano alcun cambiamento sostanziale. La persona con il DPD spesso è in grado di vivere la vita quotidiana come sonnambuli, e riesce anche a mantenere rapporti stretti con gli altri, ma è privato dei picchi emotivi e degli alti e bassi della normale esistenza umana. Rafforza soltanto le sensazioni di distacco. Questa uniformità di esperienze tra le persone affette da DPD, ha permesso agli specialisti di giungere alla conclusione che senza dubbio si tratta di una condizione reale e concreta, ma ha consentito anche di creare una lista di controllo per le persone che riferiscono i sintomi, facilitando quindi sia la diagnosi sia il trattamento. Sebbene la ricerca sulle cause del DPD sia ancora in una fase relativamente precoce, gli studi di immaginografia cerebrale e le indagini sulle fluttuazioni della conduttanza cutanea e la frequenza cardiaca offrono alcuni suggerimenti. Gli psicologi hanno scoperto quel che sembra essere una sconnessione tra la parte del cervello che regola le emozioni e quella che determina il pensiero razionale. Quando studiati, i soggetti possono dire di sentirsi ansiosi o spaventati da sollecitazioni di cui è noto causino reazioni da stress, ma le loro reazioni a livello corporeo rimangono invariate. "In qualche modo l’incongruenza tra il modo in cui si sentono mentalmente e il modo in cui si sentono fisicamente, si aggiunge alla sensazione di essere tagliati fuori ed estraniati dal mondo", dice Anthony David, professore di neuropsichiatria cognitiva presso il Maudsley, e direttore e fondatore della clinica del DPD. Anche la depersonalizzazione causata da droghe può offrire alcuni indizi. “La biochimica potrebbe ovviamente essere altrettanto importante, un cambiamento nei neurotrasmettitori nel cervello potrebbe portare a questo stato", dice David. Diversi farmaci utilizzati per trattare i disturbi d'ansia e l'epilessia sono stati favorevoli in alcuni casi di DPD, ma nessuno è ancora riconosciuto come efficace in tutti i casi. David ha delineato la ricerca contemporanea che utilizza la stimolazione magnetica transcranica, in grado di regolare gli effetti nelle varie sezioni del cervello e che potrebbe, nel tempo, rivelarsi una possibile opzione terapeutica per le persone affette da DPD. Attualmente, il trattamento più efficace è una leggera variante della terapia cognitivo-comportamentale, che si concentra sulla rottura dei circoli viziosi in cui i pazienti sono rimasti intrappolati. Chi soffre di DPD rimane nelle proprie particolari sensazioni, che spesso possono esasperarlo, e portarlo a ritrarsi dalle interazioni sociali, aumentando ulteriormente il senso di separazione. Con il persistere dei sintomi, i malati si sentono ulteriormente demoralizzati e temono che non vi sia soluzione, e questo li porta alla disperazione. “È difficile funzionare, e a volte la gente rinuncia", spiega Elaine Hunter, psicologo di punta della clinica di Maudsley. "[Ma] abbiamo le tecniche per affrontare il contenuto dei pensieri. Siamo in grado di affrontare i processi, cercando di interromperli. Siamo in grado di prevenire.” Molti pazienti cercano condizioni nelle quali sanno che i loro sintomi saranno meno estremi: spesso si riparano da luci forti e ripetono solo gesti di routine; le abitudini di un recluso. Sia Rachel che Charlton mi hanno detto quanto siano noiosi i loro lunghi episodi di solitudine. Charlton potrebbe trovare l’energia solo per giocare a Yahtzee contro se stessa per ore, e ultimamente, durante il processo di guarigione, ha rinviato gli studi universitari per lavorare in una libreria, dove ha apprezzato la monotonia dell’azione di timbrare libri e di disporli sugli scaffali. Nonostante abbia portato a termine la sua laurea, Rachel racconta che la sua depersonalizzazione per lei significa ancora non potersi impegnare completamente, e risente del tempo che la malattia le è costato. "So che sono intelligente e capace di fare diverse cose, ma sono consapevole di avere speso gran parte degli ultimi cinque anni non fare nulla, soltanto pensando al mio stato. Ho perso così tanto tempo", dice. Sebbene la maggior parte delle persone con DPD tendano a manifestare il disturbo nella tarda adolescenza o entro i venti anni, per molti altri la malattia è durata per decenni, portandoli ad abbandonare i tentativi di essere creduti e capiti, e di conseguenza anche di essere curati. Allen Killick, settantadue anni, ha iniziato a soffrire di DPD nel 1954 e ricorda ancora vividamente l’insorgenza della malattia. "Stavo giocando a calcio a scuola” ha scritto Killick in una e-mail. "Per non so quale ragione mi osservai le mani e la mia mente disse: 'Non sono tue.' A quel punto iniziai a urlare e a correre in tutte le direzioni assolutamente terrorizzato.” Quando Killick aveva solo pochi mesi di vita, la sua casa fu distrutta da un razzo V2 e il bambino fu salvato da sotto le macerie dopo essere stato dato per disperso per ben due giorni. Successivamente, durante l’infanzia, Killick ha subito abusi fisici e psicologici estremi da parte di entrambi i genitori e i nonni, e questo (secondo il parere oggi degli psicologi) ha dato origine al disturbo che ha ancora un ruolo determinante nella sua vita. Nel corso degli anni Killick è stato ricoverato più volte in strutture specializzate e curato con farmaci inefficaci, che hanno inibito tutte le altre funzioni. A metà degli anni ’70, dice di aver trascorso due anni come eremita virtuale, confinato nella camera da letto. Si è comunque sposato, ha avuto figli, e ha svolto vari mestieri, seguendo i consigli di psichiatri, psicologi e leggendo libri di auto-aiuto per sfruttare al meglio i periodi che intercorrevano tra gli episodi di DPD. Ho avuto momenti in cui mi sono sentito meglio, ma nemmeno in quelli mi sentivo completamente me stesso", dice. “Credo che una delle cose più difficili per le persone che soffrono di DPD, sia cercare di fingere di essere normali quando ci si deve rapportare con la gente, quando in realtà l’unica cosa che si vorrebbe fare sarebbe scappare. Cerco di soffrire in silenzio, e cerco di non spiegarlo a nessuno, perché nessuno, a parte le persone affette dalla mia stessa malattia, è in grado di comprendere di cosa sto parlando.” La campagna di sensibilizzazione di Charlton è mirata proprio ad aiutare le persone affette da DPD a superare il senso di isolamento. Ha scritto a un deputato, all'Istituto di Psichiatria e al Dipartimento di Salute mentale, sperando di raggiungere almeno con una email tutti i medici di famiglia del paese per illustrare il tipo di disturbo. Recentemente ha visitato la sede del Centro per malattie mentali Rethink, per abituare i consulenti a riconoscere i sintomi di DPD. Il personale del Maudsley riferisce che, con un aiuto, si può ridurre l’influenza della depersonalizzazione anche nei casi più estremi. La soluzione non sempre è rapida, ma si spera di essere anche in grado di formare i medici di tutto il paese mettendoli in grado di fornire ai pazienti l’impostazione per mettersi sulla strada giusta. Killick ha scritto: "Negli ultimi sessantuno anni ho avuto la sensazione permanente di non esistere. Niente che facessi o pensassi sembrava poterla cambiare. Voglio soltanto essere me stesso, qualunque cosa io sia. Lo desidero con tutte le forze.” Fonte: The Guardian, 4 settembre 2015 Traduzione di Francesca Ferrarini
6 Comments
giuseppe mori
5/10/2015 12:01:08 pm
"L’impoverimento culturale portato dal dominio del pensiero scientista è allarmante, e tutte le discipline relative al campo della soggettività rischiano di esserne travolte. Questo mostra l’urgenza di ritrovare il filo smarrito di forme di pensiero il cui rigore non è debitore del metodo scientifico, e la cui epistemologia non è trattabile in termini positivisti."
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marco focchi
5/10/2015 01:39:46 pm
L'aricolo presenta le possibiità terapeutiche della depersonalizzazione solo dal punto di vista farmacologico e dal punto di vista delle terapie cognitivo-comportamentali, che fanno parte entrambi dell'orizzonte scientista e positivista. Ignora invece gli studi della psicologia classica e della psicoanlisi, che si sono occupate del fenomeno da una angolo visuale diverso.
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Andrea
4/8/2017 12:40:23 am
Ciao. Mi chiamo Andrea, ho 47 anni e all'età di 20 ho fatto conoscenza della depersonalizzazione. In quel periodo non sapevo cosa fosse, anzi, a dire il vero l'ho imparato solo ieri... Una persona me ne ha parlato e così ho fatto ricerche in rete. Ho navigato su diversi siti e finalmente ho trovato le giuste descrizioni che rappresentano la mia percezione della realtà. Da quel 31 dicembre 1989, data dell'insorgere del disturbo percettivo, non ho mai avuto cambiamenti: la depersonalizzazione è costante (non cala e non aumenta). Ero in giro con amici e ho avvertito la distorta percezione della realtà, quasi come se l'effetto della canna che mi ero fumato la notte prima non fosse ancora passato. A dire il vero, non era proprio l'effetto che conoscevo, ma il senso di dissociazione assomigliava vagamente alla condizione dissociativa che mi generava l'hashish. Dopo un giorno mi si è scatenata una febbre altissima, che mi è durata diversi giorni. Sono quindi guarito, ma la depersonalizzazione era invariata. Sono quindi 27 anni che convivo con questo male. All'inizio ero letteralmente devastato, l'energia era quasi azzerata e non c'era un momento della giornata in cui non mi sentissi spossato. Mi sciacquavo spesso la faccia in un penoso tentativo di riprendermi, ma senza risultati. Guardavo le mie mani, il mio corpo, e sembravano non appartenermi. Un Super Io costante osservava me stesso che parlava, interagiva, ascoltava... Dopo un paio di mesi mi si sono seccate le mucose del naso e ho avuto difficoltà respiratorie. Le radiografie non rivelavano nulla, ma anni dopo ho fatto una TAC e ho scoperto che i 4 seni paranasali erano totalmente occlusi da mucosa ipertrofica. Sono convinto che sia stata una conseguenza dell'insorgere del disturbo di depersonalizzazione, anche se non ne ho la prova. Sono stato operato tre volte, nel tentativo di liberarmi del problema nasale, ma non è servito a nulla. I seni paranasali sono stati ripuliti, ma il senso di occlusione e di estraneità non è per niente cambiato. Ho fatto pure diversi test audiometrici, in quanto sentivo (e sento) i suoni ovattati, eppure i test rivelano che sento bene ogni frequenza sonora. In seguito anche l'intestino ha dato segni di malfunzionamento, con la forte produzione di aria e frequente diarrea (apparentemente senza che i diversi cibi ingeriti ne siano responsabili).
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Rosario
30/12/2017 08:39:00 pm
Ciao andrea vorrei confrontarmi con te puoi darmi il tuo numero via email perche ho provato a mandarti una email ma nn va
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Fabio
10/4/2020 03:53:25 pm
Buonasera mi chiamo Fabio Germano e anche io soffro non solo di derealizzazione ma anche Depersonalizzazione con annessi sintomi tipo con mi riconsoco e tutto strano e come se il corpo fosse comandato da un altro ecc ecc ho fatto vari percorsi da psichiatri anche 3 giorni innpaichiatria ma nulla se qualcuno può aiutarmi ve ne sarei grato grazie
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Marco
31/7/2023 08:05:44 pm
Ciao, ho 19 anni e da più di un'anno ho i sintomi di depersonalizzazione e derealizzazione. Non mi sono venuti subito però, alcuni mesi prima avevo riscontrato i sintomi del burnout (non diagnosticato), quindi avere la mente strapiena di pensieri, svogliatezza, ansia ecc. in seguito a problemi personali e familiari (ciò preceduto da problemi alimentari con la carenza di molte sostanze importanti, tra cui anche acqua, e una fuga da casa) (Sono anche vegano da 3 anni ma fino all'arrivo dei disturbi alimentari stavo benissimo)
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