di Elisabeth Roudinesco Nata il 26 novembre 1940, Sibylle Lacan, seconda figlia dal primo matrimonio di Jacques Lacan con Marie Louise Blondin (1906-1983), è morta nella sua casa di Parigi la notte tra il 7 e l’8 novembre 2013. Traduttrice dallo spagnolo, l’inglese e il russo, aveva pubblicato nel 1994 Un padre (Gallimard), libro tradotto in quindici lingue, dove ha raccontato con emozione, con talento e con tenerezza, il complesso rapporto che la legava a suo padre: "Quando sono nata, mio padre non c'era già più. Potrei anche dire che, quando sono stata concepita, mio padre non viveva già più con mia madre. All'origine della mia nascita c’è un incontro tra marito e moglie in campagna, quando tutto era già finito. Sono il frutto della disperazione. Alcuni potrebbero dire del desiderio, ma io non penso sia così." Essere la figlia della disperazione non ha impedito a Sibylle di amare appassionatamente per tutta la vita. Tutti coloro che l’hanno conosciuta, nel quartiere di Montparnasse che tanto amava – tra il Select, per il tè, e la Closerie des Lilas per le serate – ricorderà a lungo la generosa intransigenza che ha condiviso con quello che è sempre stato il suo compagno: Christian Valas. A lui ha consegnato questa lettera datata 7 gennaio 2013: "Se mi uccido, voglio che le circostanze della mia morte non siano in nessun modo nascoste (stampa, amici, ecc.) Questa richiesta deve essere considerata parte delle mie ultime volontà". Il suo modo di parlare lento – con la voce di suo padre e l’atteggiamento del volto che evocava sua madre – mostrava come ogni parola assumesse per lei il significato di un imperativo categorico. Sibylle Lacan voleva sempre sapere tutto, capire tutto, spiegare tutto e per lei, la lingua, il linguaggio e la parola prevalevano su ogni altra forma di espressione. Conosceva perfettamente la comunità psicoanalitica. Per due volte ha fatto un’esperienza d’analisi sul divano di due allievi di suo padre, ed era abitata da un lavoro della memoria che non tollerava nessun compromesso. Per lei e con lei, dire il vero, riesumare la verità era un obbligo quasi ontologico. Di se stessa le piaceva solo una fotografia della sua infanzia, quella che ha sempre scelto e che le ricordava come fosse la figlia di suo padre, e anche di sua madre, e che avrebbe voluto tenerli uniti per l'eternità. Per questo, nel suo secondo libro, Points de suspension (Gallimard, 2000), dedicato a sua madre e composto come un puzzle, ha parlato solo della sua infanzia, delle persone che amava, dei luoghi, degli oggetti. In breve, dei frammenti di una vita ricostruita con felicità. Come ha sottolineato Jean Ristat, questo libro mostra una scrittura divenuta uno strumento contro una morte vendicativa. Dopo aver riconquistato se stessa, Sibylle guardava il mondo con amore: "Sono cresciuta all'ombra dei gladioli" diceva, e s’impregnava del tempo ritrovato, al di là di una vita spezzata. Fonte: Le monde 09. 11. 2013
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