Intervista di Marta Berenguer Studi sulla psicosi non è necessariamente un libro solo per gli psicoanalisti, anche se ovviamente occorre avere un minimo di interesse o di curiosità sulla psicosi per leggerlo. Questa curiosità, forse forzata, perché qualche grano di follia abita nei labirinti della mia costellazione familiare, mi ha indotto a traversare questo libro dalla prima all'ultima pagina. E vi ho scoperto molte cose, come il fatto che la follia interessava già ai classici, per esempio a Cicerone, e che i pazzi – anche se molti insistono a classificarli come malati mentali, e si appropriano della genetica e dello scientismo per cercare di penetrarne l’enigma – sono anche responsabili di ciò che accade. Quest’opera di José María Álvarez, psicoanalista lacaniano, riscritta, ampliata e ristampata da Xoroi Edicions, è sicuramente consigliata per coloro che sono interessati alla follia. Può essere messa sul comodino di chiunque si trovi in posizione di ascolto, tra i libri di maggior interesse sulla psicosi. In un capitolo degli Studi sulla psicosi menzioni un sentimento che ti ha accompagnato per tutta l’infanzia, quando si parlava del manicomio di Santa Isabel in Leon: "Ricordo ancora chiaramente che sentendo la parola "manicomio” o “follia” mi sentivo sopraffatto da un’insieme lacerante di paura e di curiosità". Anni dopo, forse anche senza saperlo, sei diventato analista. Hai vinto la curiosità?
Sì, la curiosità ha vinto e sopravvive. Penso sia necessaria per il nostro lavoro. Il nostro lavoro è molto difficile, più di quanto sembri. Soprattutto per coloro che si occupano di malati. Quando si lavora in ospedale, o quando nello studio privato si ricevono anche persone irritate, disturbate, pazze o gravemente malate, poi il lavoro ha le sue complicazioni. Se non fosse per l'entusiasmo sarebbe difficile da sopportare. Devi avere desiderio, stare in buona compagnia, ed essere ben orientato. Quando ero giovane avevo un grande entusiasmo, e l’ho ancora, insegnare ai giovani vi contribuisce. Forse con il tempo un po’ di entusiasmo si perde, ma si guadagna nel saperci fare, cosa opportuna, perché agli inizi si è più impetuosi e si commettono alcuni errori. Nel corso degli anni s’impara a trattenersi, e s’impara, come gli atleti altamente competitivi, a sprecare meno energie e a non fare troppi sforzi, se non è il caso. Lo stesso succede a noi. In realtà i miei studi hanno seguito un percorso molto tecnico: matematica, statistica, neurofisiologia, niente che abbia a che fare con la clinica o con la condizione umana, praticamente nulla. Anche se la mia formazione di base è scientifica, tali studi in realtà mi sembravano fantascienza quando pretendevano di estrapolare la soggettività. Ho studiato in una facoltà sperimentale e ho imparato molto sulla metodologia della scienza e sui progetti scientifici, ma sulle persone ho imparato molto poco. Siamo molto più complicati degli animali di laboratorio, anche perché agli animali il male lo facciamo noi, mentre nella specie umana siamo noi stessi a darci il veleno di qualcosa che quanto più ci fa godere tanto peggio ci sentiamo, qualcosa che non ci lascia intatti. Questo tipo di veleno non viene considerato in nessun altra prospettiva psicologica. Per il cognitivismo la prospettiva sulla persona, sull'uomo, sul soggetto, è molto piatta. È una prospettiva dove la mente è una sorta di computer nel quale è necessario inserire le informazioni appropriate perché tutto funzioni. Con i pazienti questo non funziona per niente. E se prendiamo schemi ancora più semplici, come il comportamentismo, vediamo che la sua utilità si limita all’addestramento degli animali. Quando però passiamo all’ambito umano, purtroppo, serve molto poco. Mi avvicinai alla psicoanalisi più come malato che come curioso, anche se ero attratto dal desiderio di sapere qualcosa della complessità umana. Fu una fortuna capitarci, perché dietro quella porta ho scoperto un vasto continente. Mi piaceva studiare, e passando per quella porta mi sono avvicinato alla filosofia, alla letteratura, alla linguistica, alla storia della clinica e alla psicopatologia classica, oltre che alla matematica, e mi è servito tutto. Penso che se mi fossi dedicato alla pseudoscienza o alla fantascienza della psicologia o della neuropsicologia, mi sarei straordinariamente annoiato, perché tutto si riduce a far girare le solite figure. Non c'è molto da studiare lì, e ancor meno da pensare. Sono conoscenze che si imparano, non c'è nessun segreto. Per la formazione come psicoterapeuta o psicoanalista invece, devi essere pronto a dedicare tutta la vita. Un amico recentemente andato in pensione dopo aver fatto per quarant’anni lo psichiatra, mi ha detto che per formare uno psichiatra a dispensare pillole è la stessa fatica che addestrare una scimmia per due mesi, dopo di che sarebbe anche lei capace di far ricette. Se invece vuoi essere in grado di parlare con un paziente, se vuoi poter fare un colloquio con lui come si deve, tacendo quando devi tacere, e dicendo quel che devi dire, le cose allora sono più complicate, e devi essere pronto a trascorrere molti anni a studiare e a far pratica. La mia visione della psicoanalisi è fondamentalmente clinica. Ero un bravo studente nella teoria, mi interessava davvero studiare, conoscere i dettagli delle teorie. Man mano che gli anni passano seleziono di più le letture più e non spreco tempo su questioni astruse, che mi danno poco per quel che riguarda il lavoro quotidiano. Mi sono orientato sempre più verso la clinica nella sua forma più pura, e quel che m’interessate è tirar fuori dagli impicci i pazienti quanto prima. Una parte della formazione dell'analista deve essere, a mio avviso, essenzialmente clinica. Al tempo stesso è necessario passare per l'analisi personale, e acquisire alcune forme di sapere. Nel mio caso, con il passare degli anni, e mi sorprende se guardo indietro, sono andato sempre più spostandomi verso lo studio della filosofia. Da un po’ di anni mi interesso molto alla filosofia antica, in particolare alle scuole ellenistiche, soprattutto Epicuro, e anche gli Stoici. Vi trovo una riflessione costante sull'etica. E, nonostante i secoli che ci separano, i loro pensieri sembrano vicini al nostro mondo e utili per il mio lavoro. Ho fatto man mano così. La parola “follia” suona un po’ come anacronistica, non è più in uso tra gli specialisti, ma sembra essere come emarginata nel nostro vocabolario. Nel tuo libro sostieni il corretto uso di questa parola. Cos’è la follia per la psicoanalisi? Penso sia più patetico e doloroso, e anche più offensivo, parlare di malattia mentale piuttosto che di follia. Per quale motivo? Perché quando qualcuno dice di una persona che è malata di mente, sta dicendo, con questo termine medico, qualcosa di così estremo che questa persona viene presa in modo diverso da quel che è. E credo questo sia terribile. Qualcuno che ha una malattia mentale, schizofrenia o paranoia, per esempio, si suppone abbia un problema cerebrale o un problema genetico. Ebbene, questa è solo una credenza. In realtà non c'è nulla di concreto riguardo alla causa organica della schizofrenia o della depressione. Da due secoli attribuiamo all’organismo malato i disagi dell’animo, e per momento continuiamo a muoverci nel regno della speculazione. Se mai veramente si scoprisse una qualsiasi causa organica per una di queste malattie, cesserebbero di essere malattie psichiatriche e passerebbero al campo della medicina, del medico di famiglia, con la conseguenza che la specialità vedrebbe ridotto il proprio spazio man mano che venissero raggiunti i suoi obiettivi. Ma andrebbe bene, tutti ne sarebbero felici. Ci sono molte persone confuse su questi problemi, anche alcuni specialisti. Si dice, per esempio, che tizio sente delle voci, quindi ha delle allucinazioni. Spesso un’allucinazione verbale – vale a dire l’allucinazione psicotica per eccellenza – viene confusa con altri fenomeni apparentemente simili, ma molto diversi nella loro essenza, come miraggi o allucinosi. In questo scenario di oscurità, mi sembra più ragionevole e più rispettoso parlare di follia piuttosto che di malattia mentale. La gente in realtà pensa che la follia sia una sorta di malattia o di maledizione che cade addosso a qualcuno. Il delirio della follia è una difesa, un tentativo del soggetto di ritrovare il proprio equilibrio. Quando qualcuno produce allucinazioni, delira o fa cose strane, in realtà si sta facendo uso di alcuni tipi di protezione che creano una terribile dipendenza. Il delirio crea molta dipendenza, perché chi delira sa bene che c'è qualcosa di molto peggio. Dal delirio il soggetto non vuole sganciarsi, non vuole far cadere la convinzione che è l’unico salvagente a cui aggrapparsi in mezzo all’oceano, anche se sa che aggrappato a esso resterà solo in mezzo al mare. Devi sapere che prima del delirio c’è una angoscia terribile, ci sono un vuoto e una perplessità oceanica che sono molto peggio. Che cosa è la follia? È un’esperienza completamente solitaria e intensa, che non deve essere idealizzata. La follia coinvolge un certo tipo di esperienze molto concrete, come la convinzione o la certezza. Possiamo avere opinioni, credenze, parliamo, possiamo essere d'accordo o in disaccordo, ma la solidità, la densità della follia si manifesta in quella che viene chiamata la convinzione o la certezza. Nietzsche, che ha finito i suoi giorni in modo piuttosto irregolare, lo diceva con una precisione sorprendente: “Non è il dubbio a fa impazzire gli uomini, ma la certezza”. A parte la certezza, un folle è colui per il quale tutto ruota intorno a lui, è qualcuno che sente che le cose sono riferite a lui, è il solitario per eccellenza, perché quel che dice non si lega con il resto, il suo discorso è chiuso stesso. Nei manicomi, per farti un esempio, i neologismi inventati dai folli non servono a creare un gergo diverso, al contrario, ognuno ha i suoi neologismi, le sue parole. Credo che la solitudine, l'intensità della follia, la certezza, il pregiudizio, l'autoriferimento siano modi per affrontare un tipo di esperienza drammatica che non serve idealizzare, ma nemmeno segregare. È difficile parlare di follia. A volte se ne parla come se si trattasse di una perdita di realtà, ed è una sciocchezza perché ci sono pazzi che dicono cose più reali di quanto possa dire chiunque di noi. Forse il delirio o l’allucinazione sono le risposte del soggetto che più associamo alla psicosi ma in realtà, come spieghi nel libro, sono prodotti secondari che il soggetto costruisce. Prima c’è una sorta di “vuoto di significato” e poi si passa al delirio. Che cosa può innescare una psicosi? Entriamo in un livello più teorico e speculativo. Certamente nessuno è andato più in là in questo campo e in modo più fondato che non Lacan, uomo particolarmente dotato per la questione della psicosi. Costruisce una teoria, che non spiegherò ora, ma voglio citare un suo riferimento molto brillante dal suo testo “Una questione preliminare a ogni possibile trattamento della psicosi”, dove parla di congiunture drammatiche. Quel che innesca la psicosi è, per così dire, un brutto incontro che ha un’incidenza su un difetto simbolico. Qualcosa non funziona bene, o non si è costituito con sufficiente forza, in modo tale che in una determinata congiuntura complessa viene a mancare, o non funziona, si sposta, perde l’equilibrio. Lacan lo collega naturalmente alla funzione del padre, al significante del Nome del Padre, lo riferisce cioè a quel che corrisponderebbe alla normalizzazione del soggetto, intendendo che il soggetto rispetto alla legge, si costituisce come desiderante, insomma, cose del genere. Il soggetto può sostenersi con il ricorso ad alcune parole ricorrenti, come dei tic, ma a un certo punto e in un certo tipo di situazioni drammatiche – una rottura sentimentale, la perdita del lavoro, affrontare qualcuno in seguito ad un contrasto – alcuni le traversano semplicemente con un lutto, con angoscia, con turbamento, ma altri si spezzano. A partire da qui inizia una dimensione d'esperienza diversa: il soggetto non è quello di prima. In un primo momento il soggetto sprofonda nella perplessità, vale a dire in una mancanza di significato per cui si perdono completamente i referenti con i quali ci si è sostenuti fino a quel momento – i piccoli trucchi che tutti abbiamo e che sono necessari – tutto ad un tratto il mondo è andato a pezzi. Si perde la protezione del linguaggio e improvvisamente il linguaggio diventa minaccioso, è il mondo che ti parla, che ti si rivolge e che ti interpella. È interessante vedere quale risalto abbiano avuto le allucinazioni verbali nel XIX secolo, non solo nella storia della clinica mentale, ma nella nostra concezione del soggetto. Non si potrebbe oggi pensare l'esistenza di scrittori come William Faulkner, Virginia Woolf, James Joyce, o anche Luis Martín-Santos – per menzionare qualcuno di più vicino – se non fosse stato per un cambiamento di soggettività moderna. Ciò non ha nulla a che fare con l'uomo del XVII secolo, con l'uomo del Rinascimento, e ancor meno con l’uomo dell’antichità. Qual è il cambiamento fondamentale? Che improvvisamente, con la nascita della scienza e la scomparsa di Dio, si produce nel soggetto un diverso tipo di solitudine, che si trasforma in un'esperienza molto angosciante. Il filosofo Blaise Pascal lo esprime in modo toccante questo terrore: “Mi sgomenta il silenzio eterno degli spazi infiniti". Che cosa vuol dire? Che tutto d’un tratto Dio non c’è più, e l'uomo non può più disporre di una spiegazione che valga per tutto, che improvvisamente siamo soli, e questo tipo di solitudine, a mio parere, influisce sulle esperienze del soggetto e sul rapporto che ha con se stesso. Il linguaggio che appare nel corso della storia come strumento per capire, per scrivere, per descrivere la realtà, assume improvvisamente un tono minaccioso. I folli sono i primi ad accorgersene, anticipano, vanno avanti e fanno nuove esperienze, soprattutto allucinazioni verbali. Il linguaggio, l'Altro, iniziare a parlare da solo. Questo ha un impatto diretto sulla storia della filosofia del XIX secolo . Wittgenstein lo dice a modo suo quando afferma che non si può conoscere il mondo se non si conosce la lingua, che attraverso il linguaggio rappresentiamo e costruiamo il mondo. Heidegger, che non ha nulla a che fare con Wittgenstein, dice anche qualcosa di simile: "La lingua parla”. Lo stesso vale per Joyce nel campo della letteratura, e soprattutto poi per Lacan. I protagonisti dell’Ulisse e del Finnegans Wake già non sono più personaggi a cui le cose accadono, è la lingua il protagonista del processo. La nostra esperienza è nuova ed è piuttosto sinistra. Sembra che usiamo il linguaggio, quando noi stessi invece siamo usati da lui. Forse prima di procedere dovremmo fermarci e considerare una domanda fondamentale: Cosa si intende per linguaggio? È una facoltà con la quale possiamo comunicare, e quindi se ne può disporre a volontà come di uno strumento per capire ed essere capiti, o è piuttosto un mezzo che ci precede, ci abita e ci determina? Chiaramente il linguaggio è uno strumento per conoscere, per rappresentare il mondo, per capirlo – o per non capirlo – è uno strumento che ci serve per avere un legame. Il linguaggio è ciò che ci dà l’identità, che ci plasma in base a quel che ci ha preceduto. A seconda del linguaggio che ci hanno inoculato siamo in un modo o nell'altro. C'è però un altro tipo di linguaggio, un linguaggio più interiore nel quale improvvisamente ci sentiamo parlati. Il linguaggio ci fa ammalare e ci serve e anche per curarci. Da questo punto di vista, il linguaggio è un mezzo terapeutico perché, tra l'altro, parlando la gente prova sollievo. Con Freud le parole assumono un angolatura patogena, vale a dire, c'è qualcosa del linguaggio che il soggetto non solo fa ammalare il soggetto, ma dà anche forma ai sintomi. I sintomi hanno la forma di linguaggio . Noi, i nevrotici, o i ”normali”, crediamo di essere noi a usare il linguaggio, è quel che pensiamo. La conformazione mentale o psichica di un soggetto obbedisce ad alcuni meccanismi di difesa, che si sono depositati come strati, e questo ha permesso che il periodo più primitivo di lalangue, del caos sonoro, della soggettività, sia andato armandosi di un certo tipo di legge, con alcune rappresentazioni dell’io in cui il soggetto giunge a pensare che quel che pensa sia lui a pensarlo. Il linguaggio non è tanto un fine quanto un mezzo nel quale siamo, e con esso dobbiamo avere a che fare. Nel caso della follia, quando un soggetto impazzisce, questo va completamente a pezzi, e quel che vediamo soprattutto all’inizio, sono i disturbi del linguaggio. Se il linguaggio va a pezzi, in realtà va a pezzi tutto: il rapporto con lo spazio, con il tempo, con gli altri e con il proprio corpo. La nostra professione è una professione di parole, e quando questo arazzo del mondo, che sono le parole, va a pezzi i soggetti, in mancanza di una rete di protezione, inevitabilmente vanno in frantumi. Nella tua conferenza “La follia per principianti” ci presenti alcune testimonianze di alcuni folli famosi: il premio Nobel John Forbes Nash, i filosofi Friedrich Nietzsche e Jean-Jacques Rousseau. Cosa possono insegnarci questi "maestri di follia"? Come per tutte le cose, ci sono folli più brillanti e meno brillanti, folli che sono brave persone e folli che sono malvagi fino all’impossibile. Un tempo si è molto discusso sul fatto che i folli fossero più creativi. Ci psicotici che più capaci di dare una testimonianza speciale dalle loro esperienze , come nel caso di Rousseau , Nietzsche o Nash. I folli normalmente non dicono sciocchezze, e non mentiscono. Magari gli schizofrenici potessero mentire! Quando parli con loro a volte ti dicono verità che sono come pugni. Per questo la follia esercita una terribile attrazione. Molti folli dicono che è meglio essere pazzi che volgari o mediocri. Questo genere di cose, se li si lascia parlare, le dicono quasi tutti. Dopo averli ascoltati si inizia ad avere una prospettiva completamente diversa sulla follia. Che ci piaccia o no, nelle università e negli ospedali ci hanno insegnato che la pazzia è una malattia, una malattia chiamata schizofrenia o psicosi maniaco-depressiva. La malattia è associata alla disgrazia, alla perdita di facoltà. Ma, quando li si lascia parlare, i folli dicono qualcosa di completamente diverso. Ti dicono che è vero che la follia è un fallimento, ma c'è qualcosa di trainante, che tira in modo così terribile che non vogliono lasciare la presa. Alcuni nascondono sotto il tappeto certe questioni deliranti per essere lasciati in pace, ma la follia è di una densità terribile. Spesso ci aggrappiamo a ciò che abbiamo conquistato a metà e non lo vogliamo lasciare. Questi tipi di problemi li possiamo capire a partire dal fatto che a un certo punto Freud ha detto sulla follia cose che nessuno aveva mai detto. Freud dice che il delirio, che alcuni erroneamente credono essere la malattia, è un tentativo di soluzione, di ritrovare l’equilibrio. D’un tratto la prospettiva sulla psicosi, sulla follia, cambia completamente. Tanto che a partire da da questa frase si distinguono due campi completamente inconciliabili: da una parte stanno coloro che concordano sul fatto che il sintomo ha una funzione, cioè che il delirio non è la malattia, ma il tentativo di ritrovare l’equilibrio, e dall'altra coloro che non ritengono affatto sia così, e quindi trattano il delirio come una manifestazione di malattia che, come prima opzione, è necessario ridurre al silenzio. Ma perché ci sono più tentativi di suicidio e aumento le depressioni quando i folli smettono di delirare? Perché i folli si deprimono quando perdono il delirio? Perché vengono privati dello strumento che avevano per sopravvivere. È vero che sono pazzi, ma riescono ad andare aventi nel mondo. E questo si vede molto chiaramente. Si fa un gran parlare di depressioni post-psicotiche. Non sono depressioni post-psicotiche! Il soggetto privato del suo strumento delirante resta improvvisamente indifeso, non protetto, sgomento, come diceva Pascal, alla vista di un infinito senza nome. Nel libro citi anche il caso del drammaturgo Ernst Wagner, paranoico che ha assassinato la propria famiglia, come lui stesso ha dichiarato al giudice. Una testimonianza che contrasta con il caso del filosofo Louis Althusser, che, in qualche modo, dopo essere stato dichiarato non imputabile per l'assassinio della moglie Hélène essendo folle, scrive un libro di memorie che sembra rivendicare la responsabilità di tale atto. Dove è la responsabilità dei pazienti psicotici? Fernando Colina e io siamo stati entusiasti sostenitori della responsabilità. L’abbiamo difesa dal punto di vista teorico e dal punto di vista clinico. Ciò porta a volte alcuni problemi. A quanto ricordo, solo una volta ho avuto un conflitto per qualcosa che avevo detto, e fu perché alcune associazioni di malati di mente mi presero di petto minacciandomi di querela. Non sopportano, e hanno molti motivi per non sopportarlo, che la gente dica che i malati sono pazzi e che i pazzi sono responsabili. Lo prendono molto male perché il concetto di malattia mentale giustifica che questa non abbia a che fare con la famiglia, né con la persona. Secondo loro si tratterebbe di un difetto genetico, di un eccesso o di una carenza di dopamina, di un'alterazione dell'amigdala. Considerano cioè che la follia non abbia nulla a che fare con la persona, e tanto meno con la famiglia. Sicuramente questo dà sollievo alle persone coinvolte. In effetti queste associazioni danno una forte adesione a questo tipo di discorso. Ebbene, bisogna rispettarle. In realtà però la prospettiva psicoanalitica – e anche altri clinici che senza essere psicoanalisti sono vicini – invita a schierarsi a favore di quel grano di ragione, di responsabilità e di decisione irrinunciabile per qualsiasi soggetto. Si tratta di una questione ideologica. Ovviamente è una questione che non può essere dimostrata da una scansione del cervello, per esempio, ma preferisco pensare così che credere in un totale determinismo della materia o dell’organismo. A cosa giova il il fatto di pensarla così? Mi permette di lavorare con i soggetti folli, di chiedere loro conto e di impegnarli a trovare una soluzione al loro dramma, a trovare la strada migliore. Il caso Wagner insegna qualcosa di importante, sul quale a volte si fa confusione: una cosa è la patologia, e un’altra cosa, molto diversa, è l’etica. Detto altrimenti, la psicopatologia non è la stessa cosa del carattere morale. Si può essere pazze ed essere brave persone, e si può essere pazzi ed essere delle canaglie. Ci sono persone che in un dato momento, quando sono completamente in preda alla follia, ti chiamano per chiedere un ricovero d’urgenza. Questo qualche modo dimostra che esiste un punto dove è sempre possibile una decisione. È vero che in alcuni momenti di follia il soggetto tende a perdere i riferimenti, per esempio quando si verificano allucinazioni imperative, o quando la trama persecutoria si chiude su se stessa. In questi e in altri casi la responsabilità del soggetto si riduce notevolmente. Ma detto questo, a mio avviso, nella maggior parte degli stati di follia considero che il soggetto sia responsabile e quindi ha in sé la grandezza che gli dà quella responsabilità, cioè la capacità di correggersi e di guarire. Penso quindi che si debba essere in grado di distinguere tra patologia mentale – schizofrenia e paranoia – e malvagità. Sono cose che non hanno nulla a che vedere l’una con l’altra. A partire dal ventesimo secolo, in particolare con Lombroso e i degerazionisti, la clinica psichiatrica ha cercato di spiegare tutto ciò che è strano come una malattia: l'omosessualità, la pazzia, la malvagità. Si è preteso di spiegare che essere cattivi è una malattia del cervello dovuta all’amigdala. Se fosse così dovremmo essere coerenti, e trovando un malvagio tra mezza dozzina di passanti, dovremmo fare un rapporto e dargli una pensione, perché è malato. Sembra che socialmente, e lo vediamo spesso attraverso i media, prima di eventi simili, come, per esempio, omicidi multipli – mi viene in mente il caso del norvegese che vestito da poliziotto ha ucciso sessantotto persone – i primi sospetti sulle cause di omicidio riguardano la follia. Sembra che spesso gli atti più efferati siano giustificati proprio attraverso questa? Giusto. È la tendenza dei media, che riecheggiano e rafforzano il discorso dominante. Tuttavia non leggiamo spesso sulla stampa che il Tal dei Tali fa sparire la cassa una grande azienda, lascia tutti senza il becco di un quattrino e va a vivere a Honolulu spassandosela come un pascià, perché, naturalmente, non è poi così sorprendente, perché tale Tal dei Tali è in trattamento psichiatrico ed è schizofrenico. Quel che è patologico, la malattia, come riconosceva Jaspers, ha sempre una connotazione "nociva, indesiderabile, inferiore". Tuttavia, nel campo mentale le cose sono più complesse, anche perché molti cosiddetti malati si considerano sani, persino felici. Questo fatto ha attirato molto l’attenzione. Kurt Schneider riflette su questo aspetto all'inizio della sua monografia “Le personalità psicopatiche”. Non leggiamo spesso sui giornali neppure che al dottor Tale han dato il premio Nobel perché, ovviamente, era paranoico-schizofrenico, e che questo è un vantaggio quando si tratta di matematica. È vero che non leggiamo cose del genere? Tuttavia anche se non le leggiamo, sono sicure. Quando però qualcuno fa qualcosa di insolito, allora sì è schizofrenico, o è in trattamento psicologico o psichiatrico. Ma se tutti sono in trattamento psichiatrico! Non dimentichiamo che per i membri della famiglia è rassicurante pensare che la malattia dei figli o la follia non ha nulla a che fare con loro, cioè che non ha nulla a che fare con i genitori perché è un problema biologico o genetico. La stessa logica è trasferita anche alla società. È rassicurante pensare che qualsiasi disturbo o anomalia ha una spiegazione scientifica. E così gli anormali, come sottolinea Foucault, sono messi in serie: omosessuali, pazzi, criminali, ecc . In sostanza, mettendo tutto sulle spalle dell’altro, mettendo la follia, la malvagità, l'omosessualità o la violenza negli altri, siamo sollevati: " o non lo faccio, è l'altro". Non occorre essere freudiani per pensare che il più si cerca di segregare, tanto più ci si riconosce iim quel che si rifiuta. Quanto più uno disprezza i pazzi, tanto più si riconosce come pazzo. Questo è dovuto a un certo tipo di modelli di pensiero conformi a un meccanismo di difesa che induce tranquillità sociale, anche se al prezzo di un inganno o di una cecità che finiscono per produrre un disagio ancora maggiore. Come ho detto, oggi si pretende di diagnosticare tutto, e la malvagità è attribuita a una malattia soggiacente. Possiamo riconoscere questa tendenza anche tra alcuni psicoanalisti, dove si nota una tendenza alla patologizzazione, attraverso la psicosi latente lao psicosi normalizzata. Bene, può essere così oppure no. Penso che siano argomenti dove c’è di che confondersi. La gente può essere cattiva, può scegliere in modo sbagliato, può lasciarsi trascinare da qualcosa di pulsionale senza mettere il minimo freno o senza neppure porsi il problema. Per Wagner, per esempio, è importante notare che quando uccide è perché non ha ben legato il delirio. Non uccide perché è un pazzo delirante, ma proprio perché non delira, perché non era riuscito a sviluppare un delirio pacificante. Quando è stato internato nel manicomio di Winnental e ha cominciato a delirare, si è trasformato in un uomo molto più tranquillo. Quindi collegare senza nessuna mediazione il crimine con il delirio è tendenzioso. Il caso Wagner, come lo intendo io, dimostra proprio il contrario: ha ucciso perché gli mancava il sostegno del delirio. Tanto che scrivendo le sue opere drammatiche e la sua autobiografia era riuscito a differire il passaggio all'atto. Ma quando ha finito l'autobiografia, ha ucciso i propri figli e la moglie, e alcuni dei suoi vecchi vicini. Non si è mai pentito di aver ucciso i propri figli. I paranoici spesso giustificano un crimine come un atto necessario. La struttura della paranoia può portare a questo. Wagner in effetti aveva dovuto togliere di mezzo i propri figli per cancellare la maledizione della degenerazione che credeva di portare dentro di sé: si considerava un degenerato affetto dalla perversione di accoppiarsi con animali (e sicuramente lo era). E perché i suoi figli non fossero degenerati, li uccise, e ha ucciso anche la moglie, ma questa solo per pietà, come ha detto più tardi. A volte sostieni che più esserci un confine tra salute mentale e follia, è come se si trattasse di una linea retta, un litorale, qualcosa che va e che viene. Dov’è, se davvero esiste, il confine tra salute mentale e follia? La metafora del litorale è stata usata da Jacques- Alain Miller, e sembra decisamente appropriata per la questione di cui parliamo. Ti darò la mia opinione oggi come oggi. All'inizio della nostra formazione i riferimenti a categorie o strutture o malattie, cioè a opposizioni, aiutano molto. Oggi il nostro pensiero è così rigido. Forse lo era meno nel mondo antico. Forse per un greco del tempo di Platone era più facile pensare insieme cose che oggi supponiamo in contrapposizione, per esempio, l'uno e il molteplice, e cose del genere. Noi però abbiamo bisogno di categorie, abbiamo bisogno dell'opposizione: questo è nero, questo è bianco, questo è pazzo, questo è sano. Così inizialmente ci formiamo sempre con categorie, malattie, disturbi, strutture, ecc. Ci dà sicurezza aggrapparci a tali tassonomie o classificazioni per meglio affrontare il lavoro di tutti i giorni. Man mano che gli anni passano, di solito abbiamo meno bisogno di classificazioni. Sono tutte invenzioni, alcune con poco fondamento. Tutte le classificazioni sono artificiali. Tutte. Le nostre e quelle degli altri. Anche se ne abbiamo bisogno per puntellare qualche tipo di sapere, questo non significa che esistano come fatti di natura. Quando pensiamo alla follia lo facciamo in due modi: c’è una follia o ce ne sono molte. C’è un continuum o c’è discontinuità. Lacan all’inizio era completamente discontinuista. Man mano che ha maturato la sua esperienza, nel corso degli anni, lui stesso ha dimenticato questi problemi. In particolare nel Seminario XXIII, con tutta la proposta dei nodi borromei, credo non pensi più in maniera categorica. A Freud è accaduta la stessa cosa. A Kraepelin pure. E a molti altri che all’inizio sono sono discontinuisti, alla fine sono continuisti, elastici. Credo che man mano che acquisiamo esperienza e maturiamo, abbiamo meno bisogno di categorie. Inizialmente la nostra formazione passa attraverso l'apprendimento delle categorie per, in un certo qual modo, dimenticarle in un momento successivo. Abbiamo due modi di pensare la follia. Da un lato la follia si separa dalla salute mentale, e c'è una linea che le divide, il che è assodato. Ma si può anche pensare in un altro modo: tutti abbiamo qualcosa di folle o di delirante. Se si pensa così, ben presto ci si rende conto che i folli del manicomio sono abbastanza diversi dai folli lucidi o normalizzati, che non vedranno mai uno specialista. Quindi, se crediamo che ci sia una continuità prima o poi torniamo a ritrovarci nella discontinuità. Se crediamo nella discontinuità non ci vorrà molto per giungere a considerare che in qualche modo il folle e il sano sono uniti, che qualcosa li lega, che la condizione umana mette insieme i folli e i sani di mente, e ci ritroviamo nella prospettiva continuista. Si tratta quindi di un movimento a pendolo. Collina e io abbiamo scritto alcuni articoli sul tema, facendo capire che dobbiamo applicare al tempo stesso i due modelli – continuo e discontinuo – perché in realtà sono modelli, non fatti naturali. A volte cadiamo nell’ingenuità di pensare che ci sono davvero disturbi mentali definiti dai loro sintomi o dai loro segni, dalla loro evoluzione, o dalla loro cessazione, ecc . In realtà sono costruzioni, artifici. Ma abbiamo bisogno di questi artifici per il nostro lavoro quotidiano. Sarebbe come una mappa. La mappa non è il territorio, ma è necessaria una mappa per orientarsi. Proprio così. Lo prendo come lo dici: la mappa non è il territorio (ride). La struttura psicotica non deve sempre avere un esordio, e ancor meno tradursi in un delirio. Sei d'accordo con questa affermazione? Pensiamo di sì. La clinica ha fatto enormi progressi. Clérambault o Neisser sono stati clinici brillanti perché hanno studiato i folli nel momento in cui la follia si stava manifestando. Hanno individuato una serie di segni. Per quanto riguarda la paranoia, per esempio, han visto quel che chiamano “delirio di riferimento". C’era una serie di segni o di fenomeni elementari che davano conto di cosa c’era in una struttura soggiacente, in modo che se si produceva una crisi, tali segni prodromici, o fenomeni elementari, diventavano ingombrante, chiassosi, come succede quando un’orchestra sinfonica, prima di cominciare l’esecuzione, passa alcuni minuti ad accordare gli strumenti. Per continuare con la stessa metafora, sarebbe qualcosa come il suono debole dei violini. Improvvisamente, quando comincia la sinfonia, suonano tutti gli strumenti, anche quei violini che avevamo già sentito prima suonare una parte della partitura, di modo che ci risulta nota, e ci facciamo un po’ un’idea dei suoi movimenti e dei suoi sviluppi. Bisogna essere cauti con questa questione dei segni o dei fenomeni elementari, perché possono diventare pericolosi se ci avventuriamo a diagnosticare in modo disordinato. La garanzia di una corretta diagnosi, infatti, ce la dà solo la crisi. Per questo bisogna stare molto attenti. Così come dobbiamo stare molto attenti anche con tutto il guazzabuglio che esiste attualmente con la psicosi ordinaria, perché una soluzione sta diventando un problema. Perché ? Io lavoro con pazienti che sono veramente folli, e credo che quanto più riduciamo il perimetro della psicosi o della follia tanto meglio è. Non si dovrebbe diagnosticare tutti, e meno ancora come psicosi. Questo penso. Oltre a essere incerte, le diagnosi psichiatriche hanno un’incidenza troppo gravosa sul futuro della persona, al punto a volte da segnarne il destino. Se si etichetta un soggetto con la diagnosi di paranoia, di malinconia o di schizofrenia, se la trascina per tutta la vita ed è come una pietra pesante. Anche se la diagnosi ci servono come orientamento e non possiamo rinunciarvi, è necessario maneggiarle con cura e, a mio parere, non dobbiamo ampliare troppo il campo della psicosi. Questa dipende da una nostra decisione. Chi sono quelli che diagnosticano più frequentemente una psicosi ordinarie? Di solito sono coloro che hanno meno contatti con gli psicotici. Chi sono quelli che diagnosticano meno psicosi ordinarie? Coloro che sono in contatto quotidiano con i folli veri. Preferisco essere troppo prudente che temerario. È meglio lasciare un caso senza diagnosi, anche nel proprio intimo, che non mettergli l’etichetta o lo stampino di psicosi ordinaria. So che quel che sto dicendo a molti miei colleghi non piace, oggi però penso che le cose stiano così. Forse stiamo facendo finta di risolvere un problema – che deriva proprio dal modello dalle strutture – creando un nuovo problema. Dobbiamo un’altra volta ripensare quel che facciamo con questa zona grigia situata tra psicosi e nevrosi, la zona in cui venivano situati i mezzi pazzi, le folies raisonnantes, la follia lucida, la schizofrenia latente, i semplici malinconici e moltissimi altri. Una zona in cui molti oggi situano i disturbi limite di personalità, i borderline, ecc. Nel 2009 la BBC ha mandato in onda un reality show dal titolo pazzo How mad are you? in cui diversi noti psichiatri si sono sfidati a "diagnosticare" una decina di alcuni partecipanti considerati – alcuni sì altri no – malati di mente. Il risultato dell'esperimento è completamente grottesco e rivela i pregiudizi sia del pubblico sia degli psichiatri presenti in qualità di giuria del programma. Le diagnosi sono discutibili? La questione delle diagnosi riporta una difficoltà intrinseca alla nostra disciplina, alla psicoanalisi e anche alla psicologia clinica e alla psichiatria. Il terreno sul quale ci muoviamo appartiene alla fantascienza, e a volte è quasi una bubbola. Con la pubblicazione di On being sane in insane places, il professore di psicologia americano David Rosenhan ha messo sottosopra le tassonomie psichiatriche e ha dato un bello schiaffo all'arroganza psichiatrica. Nel suo esperimento, lui e alcuni suoi colleghi si sono fatti ricoverare in diversi ospedali psichiatrici sostenendo di sentire delle voci. Se non ricordo male, tutti hanno avuto una diagnosi di schizofrenia. Da quel momento hanno cominciato a non dire nulla di quello che accadeva loro. Sono stati dati loro dei farmaci, che naturalmente non prendevano, e dopo un certo tempo sono stati dimessi. Il risultato di questo esperimento Rosenhan è stato messo per iscritto e pubblicato come articolo. L'amore di sé, la vanità, il narcisismo della psichiatria ne sono rimasti completamente scossi. Come è possibile che venisse diagnosticata una cosa grave come una schizofrenia a persone che semplicemente fingevano, e per di più che tutto questo venisse pubblicato in una rivista prestigiosa come Nature? Non è difficile farsi passare per pazzo, sembra. Né è difficile farsi appioppare una diagnosi di schizofrenia solo mostrando di sentire voci e ripetendo le parole "vuoto", "buco" e "colpo". Dobbiamo però anche tener conto che molti pazzi vogliono passare inosservati, per cui si comportano e agiscono come tutti gli altri. Per questo preferisco parlare di follia normalizzata, un termine che mi piace più di psicosi ordinaria, che in castigliano suona male. Questo tipo di soggetti, infatti, tende a mostrarsi fin troppo normale, si presenta come l’ipernormalità per eccellenza. Così, insisto, conviene essere molto prudenti con le diagnosi – a maggior ragione se dobbiamo scriverle nelle relazioni – dal momento che alcuni sembrano schizofrenici e non lo sono, e altri che sono pazzi appaiono ipernormali. Per esaminare tutto questo con buon fiuto bisogna avere una formazione clinica rilevante, e soprattutto convincersi che le diagnosi sono cose artificiali, e ciò che conta, soprattutto, è essere in grado di parlare con le persone e ascoltare quel che hanno da dire. Torniamo a Studi sulla psicosi. Uno dei passaggi piacevoli del libro è il capitolo in cui si parla di James Joyce e di Lucia, sua figlia. A quali conclusioni giungi dopo aver analizzato, quasi come fossi un chirurgo letterario, il rapporto tra loro? Joyce è principalmente un artista, è uno scrittore di prim'ordine. Tutto quel che si può dire di Joyce dal punto di vista psicologico e psicopatologico è secondario e irrilevante rispetto al fatto che Joyce è l'autore di un'opera come l’Ulisse. Se fosse pazzo o no è secondario rispetto alla dimensione della sua creazione. Ora, detto questo, è necessario notare che la creazione e la follia nel lavoro e nella persona di Joyce sono tra loro articolate. Perché la comunità “psi” inizialmente si è interessata a Joyce? Perché Joyce aveva una figlia, Lucia, che era matta come un cavallo. Joyce spendeva gran parte del denaro che guadagnava in consulenze mediche per Lucia. Uno dei medici consultati era stato Jung, discepolo di Freud e di Bleuler, che ha coniato il termine schizofrenia. Jung, grazie alla sua esperienza e alla sua formazione, ne sapeva abbastanza di follia, e la sua conoscenza della clinica psichiatrica era straordinaria. Si è rovinato – è un peccato – quando ha cominciato a fare il profeta, ma come psichiatra era brillante. Jung ha incontrato Lucia e Joyce, e si è reso conto chiaramente che la follia di Lucia era legata a suo padre. È stato Jung a proporre la bella metafora connessa al romanzo Finnegans Wake, che dice: "Dove Lucia va a fondo, Joyce galleggia”. Jung e Lacan sono d'accordo su molte questioni riguardo a Joyce, per esempio, sul fatto che qualcosa della "psicosi latente" di Joyce si trasferisce alla figlia, e sul fatto che grazie al genio creativo Joyce si salva dalla schizofrenia, ma la stessa cosa non riesce alla figlia. Queste questioni sono state sviluppate da Lacan, elegantemente e con squisita delicatezza, nel Seminario XXIII, dove suggerisce che qualcosa del sintomo di Joyce si prolunga in Lucia. Qual era il sintomo di Joyce secondo Lacan? Le parole imposte. Joyce aveva un rapporto speciale con la lingua. Il linguaggio era troppo vivo per lui, era troppo reale, il simbolico era per lui troppo reale. Troppo vivo significa che era minaccioso, e che quindi doveva fare un grande sforzo per rendere innocuo il linguaggio. Questo sforzo è esattamente ciò che gli ha permesso di scrivere. A Joyce piaceva il suono, non il significato delle parole. Joyce era probabilmente molto più folle di quanto pensiamo, e aveva più crisi o più momenti di squilibrio. Me ne sono convinto dopo aver letto gran parte della letteratura che è stata pubblicato su di lui, in particolare le ultime biografie di Shloss e di Maddox. La sua storia della sua vita attraversa momenti critici, durante i quali sicuramente il consumo abituale di alcol serviva come balsamo, così come la relazione che aveva con la moglie o con il fratello Stanislaus, che gli diedero una significativa stabilità. Conoscendolo un po’ più da vicino s’intuisce che gli servono troppe stampelle per muoversi nel mondo. Ma tuttavia, lui è un artista, un creatore, qualcuno che è riuscito a fare qualcosa con il proprio sintomo, qualcosa di creativo e di stabilizzante. Sua figlia, invece, no. Era completamente pazza, tanto che è stata diagnosticata per lo più come schizofrenica, a volte ebefrenica, e altre come catatonica. Con queste diagnosi, restano pochi dubbi. Lucia era molto pazza, e Joyce era un po’ pazzo. Quel che cerco di mostrare nel capitolo del libro è che queste due follie sono strettamente correlate. La diagnosi che Joyce fa di sua figlia è: ”chiaroveggente ", per questo l’ha chiamata Lucia, vale a dire: “colei che porta la luce". Quanto più Joyce perde la vista e restando sempre più cieco, tanto più attribuisce la chiaroveggenza a sua figlia. Quindi potremmo dire che Joyce vede attraverso gli occhi della figlia. Lacan segue un’altra pista, quella della telepatia. Lacan dice che Lucia era "telepatica". Per Joyce però, sua figlia era chiaroveggente. Cerco di seguire quella pista, e mi è sembrato di poter delineare il delirio di osservazione di Lucia. Seguendo la pista della chiaroveggenza me le cose per me tornano. Vedremo se tra cinque anni dico la stessa cosa o se ho cambiato idea. Nel libro affermi: "È attraverso la psicosi che ho potuto capire i concetti fondamentali della psicoanalisi”. Gli Studi sulla psicosi è un libro sulla psicosi o sulla psicoanalisi? Entrambe le cose. Non possono essere separate. Chiunque sia interessato alla psicosi o alla follia non può trascurare di usare lo strumento interpretativo della psicoanalisi. Perché su questo terreno la psicoanalisi è molto avanti. Tanto che chiunque voglia sapere qualcosa su questo argomento inevitabilmente finirà per leggere Freud e in particolare Lacan. Per quanto riguarda la conoscenza della psicosi Lacan introduce un'innovazione che non ha precedenti. Inizia con una tesi sulla paranoia sul caso Aimée, ma l'idea che si va facendo sulla soggettività è che il soggetto viene parlato dall'Altro, che è proprio quel che succede a molti folli. Per dirla in modo molto semplice, Lacan crea una teoria della soggettività illuminata dalla prospettiva della follia. Non è fatta a partire dalla nevrosi, come ha fatto Freud, ma dalla follia, dalla psicosi. Tutto quel che ha potuto scrivere, le sue intuizioni che ha avuto, le osservazioni sulle allucinazioni, è di gran lunga superiore a tutto quel che era stato detto sull'argomento. Lacan in questo senso si è formato nelle migliori scuole psichiatria, conosceva in dettaglio la grande clinica classica. Noi abbiamo avuto la sfortuna, nella nostra formazione, che questa grande clinica è andata persa, e abbiamo quindi dovuto recuperarla, tornare a studiarla, acquisire familiarità con quel che persone che avrebbero ormai centocinquant’anni studiavano durante gli anni della loro formazione clinica. Tutto quel che è andato perso dobbiamo recuperarlo con il nostro lavoro e con le nostre pubblicazioni, perché sia possibile di nuovo leggere di prima mano quegli autori che hanno vissuto vicino ai folli. Lacan li conosceva a memoria. È quindi incontestabile che la psicoanalisi e la psicosi vadano di pari passo. Lo stesso vale per il mio libro, dove la psicoanalisi e psicosi non possono essere separate.
4 Comments
mori giuseppe
26/2/2014 02:41:50 am
Una bella prospettiva per delineare la follia.
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marco focchi
26/2/2014 02:47:15 am
Che la follia sia un prolungamento della vita mi sembra una bellissima definizione. La faccio mia!
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Adelia Natali
9/9/2015 11:01:31 am
in Italia da chi viene edito questo testo di Alvarez?
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marco focchi
9/9/2015 11:09:04 am
In Italia purtroppo di questo testo di Alvarez non è ancora prevista la pubbicazione.
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