Conferenza tenuta presso l'Istituto di Psicologia dell'Università di San Paolo il 19 ottobre 1981 di Jacques-Alain Miller Devo scusarmi di non riuscire a parlarvi in portoghese. Quando parlate lentamente riesco a capirvi, tuttavia non mi sento in grado di parlarlo, il che mi mette a disagio. Ringrazio per l'invito l'Istituto di Psicologia dell'Università di San Paolo, in particolare la sua direttrice, la professoressa María José Aguirre, nonché ringrazio per la sua presenza il vicerettore, professor Arrigo Angelini. Il Dipartimento di Psicoanalisi dell'Università di Parigi VIII è a maggior ragione sensibile a questo invito poiché ancora oggi, a dieci anni dalla sua creazione, continua ad essere unico nel suo genere e nella sua denominazione. Non lo dico per vantarmi, sarei piuttosto propenso a deplorare la mancanza di analoghe iniziative in altre università francesi e di altri paesi. Per quanto ne so, quello di Parigi VIII è l'unico Dipartimento di Psicoanalisi al mondo, ed è necessario che io mi interroghi su questo fatto. Il Dipartimento di Psicoanalisi, unico in Francia, è una formazione dell'inconscio, un lapsus, un atto mancato, ancora oggi trattato come un caso, un residuo, una conseguenza degli eventi del maggio 1968, poiché la sua creazione è stata successiva. La sua natura deve dunque far riflettere su cosa poteva aspettarsi il governo del tempo da tale precipitazione. L'università è fatta per accogliere i saperi, e bisogna notare che non li accoglie tutti. Fa posto solo a determinate modalità di trasmissione, alle modalità di sapere che le interessano, che le si addicono. Ospita solo i saperi consentiti dal padrone, poiché è lui a sostenere le relazioni universitarie. Solo alcune discipline continuano come universitarie, discipline selezionate passando attraverso i limiti che l’università manifesta nel raccogliere, nell’ordinare e nel trasmettere il sapere, nonché vagliate dalla gerarchia di coloro che sanno, o che credono di sapere.
Non conviene tuttavia equiparare il discorso universitario al discorso scientifico, poiché sono assolutamente diversi. L’universitario, per esempio, si accorda bene con la fisica di Aristotele. La filosofia, come posizione soggettiva fondamentale, non ha atteso l’università per esistere. È stata l’università che a un certo momento se l’è andata a prendere. Torniamo alle origini storiche dell’università: essa nasce, per iniziativa del potere politico, nel Medioevo, nel XII secolo. Le matematiche hanno progredito e si sono sviluppate restando a lungo fuori dall’università. Se ammettiamo che il soggetto cartesiano è lo stesso di quello della scienza, dobbiamo riconoscere che emerge solo svuotato di ogni sapere. Cartesio lo ha compreso con la sua prima meditazione: un'operazione di svuotamento di sapere. In un momento successivo furono accolte la fisica e la matematica, ma non senza resistenza, poiché ciò che le università diffondevano era il sapere aristotelico, una vecchia tradizione di oscurantismo. Un dipartimento di fisica non ha assolutamente vocazione a formare fisici, ma professori di fisica che si diranno fisici. Si tratta ora di capire se la psicoanalisi esistente costituisce un sapere adatto per essere accettato dall’università. Questa domanda certo non si porrebbe se la psicoanalisi fosse caduta in disuso, se nessuno più la praticasse, se nessuno si prestasse al suo artificio, se nessun soggetto si inscrivesse nella sua struttura. Se così fosse sarebbe allora il momento di ritrovarci felicemente all’università, poiché saremmo nel posto giusto per trattare la psicoanalisi come un fatto sociale, come un fenomeno di opinione. Ci sarebbero poi una storia della psicoanalisi, una sociologia, una pura liturgia, un'archeologia. Ciò che turba la calma dell'università francese, ciò che la mette a disagio, è l'esistenza della psicoanalisi e degli psicoanalizzanti, è l’esistenza di una pratica sociale che si fonda su questo sapere e che conserva qualcosa di selvaggio, di non regolamentato, di non direttamente invischiato col potere. L'università, per ragioni di struttura, è compiacente con il sapere disabitato dal desiderio. Il sapere abitato dal desiderio ha provocato qualche inconveniente ad Abelardo. Fichte, festeggiato dagli studenti dell'Università di Jena, e Michelet, del College de France, hanno rappresentato momenti gloriosi durante i quali l'insegnamento universitario non ha preso il desiderio come fa normalmente, ma al contrario lo ha risvegliato. Sono eccezioni, sono i casi perduti dell'università, la vocazione universitaria è infatti di toccare il desiderio. Pensiamo, per esempio, all'accoglienza ricevuta dalla Critica della ragion pratica di Kant, pensiamo alla scossa che ha causato ai suoi lettori, all'entusiasmo che ha sollevato, e confrontiamolo con il modo in cui viene accolta oggi quest’opera. Credo che, qui come in Francia, sia semplicemente un libro che fa parte dei programmi. Va già bene che sia almeno così, un libro su cui lavorare. Vedete bene la differenza rispetto al tempo in cui c'era di mezzo il desiderio. La psicoanalisi mostra ancora una certa pertinacia, e questo è il motivo per cui non mi lamento che il dipartimento di psicoanalisi di Parigi VIII resti ancora l’unico. Spero, in fondo, che l'inclusione della psicoanalisi all'università venga ritardata il più possibile. Va detto, in ogni caso, che c'è antipatia tra il discorso universitario e quello psicoanalitico, e ci sono anche modi di sentire contrari. Ci sono sensibilità diverse, che non condividono lo stesso pathos, bisogna ammetterlo, ma proprio l'attrito tra i due discorsi può essere fecondo. Il pathos comunque non esaurisce questione. All'università si insegna in nome di un sapere che non è necessariamente scienza, ma che è legato da una coerenza e da relazioni che implicano una certa stabilità. C'è un requisito minimo del discorso universitario: è il professore che parla, lo studente si limita a imitarlo quando parla, e il professore è supposto sapere quel che dice. Nella psicoanalisi l'esperienza si fonda sull'imperativo inverso, ovvero il soggetto che parla è sciolto dall'imperativo di sapere ciò che dice: è anzi invitato a escludersi dal sapere. La regola fondamentale di Freud invita a dire tutto quello che passa per la testa, in modo da non sapere cosa si sta dicendo. È la cosa interessante nell'esperienza analitica, ma dall’inizio imprevedibile. Ciò che passa per la testa delle persone, secondo i filosofi dell’epoca, sono sciocchezze imprevedibili. Potremmo pensare che i matematici abbiano cominciato a sognare per costruire le loro teorie. Ora, curiosamente, ciò che dice questo discorso sciolto dall'imperativo del sapere è calamitato da una serie di punti fondamentali. È incredibile, per esempio, quanto tempo le persone passino parlando della loro famiglia. Potremmo lamentarcene, ma è un fatto d’esperienza. La psicoanalisi implica una conversione del soggetto, lo costringe a situarsi diversamente rispetto al sapere. Il soggetto viene a essere come il soggetto di Cartesio: svuotato, evanescente, un soggetto, per così dire, anti-universitario. Invitato dal dr. Forbes ho tenuto cinque conferenze durante il fine settimana, cinque conferenze in quarantotto ore. In una di esse ricordo di aver detto che il malinteso è molto importante, perché è manifestazione dell'inconscio, che è tutto fatto di malintesi. Il sapere universitario immagina di poter risiedere nella dimensione del ben-inteso. Impossibile. È possibile solo in un caso come quello della matematica e di tutti i saperi che possono essere matematizzati e formalizzati. Quella della formalizzazione è un'esigenza che si impone anche alla teoria psicoanalitica, causando qualche difficoltà. In questo, in relazione al sapere universitario, mi sento un esperto, nonostante il fatto che il discorso psicoanalitico soffra in questo rapporto con la scienza. Il soggetto, nell'esperienza psicoanalitica, immagina di essere alla ricerca della verità, al di qua o al di là del sapere. Non la trova, ma la verità trova lui: questo incontro si chiama lapsus, battuta di spirito, atto mancato: è il momento in cui il soggetto si vede superato dalla parola. Ecco il motivo per cui un soggetto si trova in uno stato di divisione e non nella condizione di poter controllare, come nel discorso universitario. Questo soggetto comincia a percepire la verità come qualcosa di transitorio, di fugace, di enigmatico. La verità si trova anche nell'interpretazione, per la quale non c’è bisogno di un dizionario, il soggetto stesso lo accantona. Qualcosa, spontaneamente, fa uscire una formazione dell’inconscio, quindi non produce sapere, piuttosto lo equivoca perché, da questo punto di vista, ciò che risulta è contrario alle sue esigenze. Nel discorso analitico agisce ciò che nel discorso universitario è tenuto sotto controllo. È molto semplice opporre la verità al sapere, la verità nel suo stato nascente al sapere in cui viene a depositarsi. Platone parlava già, nel Menone, di ciò che non si può insegnare. Platone ha tentato di conservare la verità di Socrate, ha scritto libri dove sono riportati i suoi dialoghi. Possiamo opporre l’uno all’altro, si è già tentato di farlo. Platone snatura Socrate, perché lo stabilizza come sapere. Io faccio libri dei seminari di Lacan, e già si comincia a oppormi a lui, ma lui non è Socrate, e io non sono Platone. Siamo sempre sorpresi quando torniamo al punto in cui emerge il sapere. Mi dispiace che il dottor Angelini se ne sia andato perché vorrei fargli la seguente domanda: si fa posto a Fechner all'Istituto di Psicologia? (qualcuno del pubblico risponde di sì). E si fa posto al Fechner visionario o a quello pazzo? Abbiamo pubblicato un articolo sul Fechner visionario che ha fatto rizzare i capelli all'Istituto di Psicologia. Vi consiglierei di provare a leggerlo perché vi permetterebbe di familiarizzarvi con l'antinomia verità-sapere. Fechner non era l'unico pazzo, ma era pazzo. Era anche un cantante. Lo sappiamo perché un certo Dogel, della Harvard University Press, ha pubblicato la sua biografia l'anno scorso. Che fosse pazzo non toglie nulla al suo sapere, anche se l'ha inventato partendo dalla verità del desiderio. Nella psicoanalisi c'è un'opposizione tra la verità nel suo stato nascente, e il sapere costituito. Intorno a Freud – il suo gruppo, come lo chiamava – c'erano persone dubbie, marginali, lontane dal sapere conformista. Gli analisti tuttavia immaginavano di dover essere persone rispettabili, e si affrettarono a formare un'organizzazione internazionale per stabilire quello che chiamavano lo standard. Se c'è qualcosa che si oppone alla psicoanalisi nel suo stato nascente è proprio l'idea di rispettare lo standard. È un’idea assolutamente contraria all'esperienza analitica, che mette invece in discussione lo standard, libera il soggetto e lo indirizza verso il significante. Prendiamo un esempio storico: non dobbiamo dimenticare che Newton dedicò molto più tempo all'alchimia che alla fisica. Tentava di impadronirsi di segreti oziosi mentre faceva fisica. È stato anche pubblicato un articolo, Newton l'alchimista, [John Maynard Keynes, Newton l’alchimista, Adelphi, Milano 1972] scritto da un economista, che è riuscito a creare una archivio acquistando su una bancarella i manoscritti di Newton. È parte costitutiva del sapere scientifico il fatto di staccarsi dall’aderenza alla verità emergente. La psicoanalisi non può invece rompere la propria aderenza con la verità, poiché questa costituisce la sua stessa esperienza, verità che affiorano come lampi, illuminazioni che non suppongono alcuna adeguatezza della cosa alla mente. Ciò che forma il sapere della psicoanalisi è il depositarsi di verità transitorie, la sedimentazione degli effetti di verità nel corso dell’esperienza. Il sapere analitico viene da lì. L'opera di Freud contiene molte cose non articolate, non è affatto sistematica. Altri hanno in seguito cercato di sistematizzarla: Otto Fenichel, Heinz Hartmann. In questo modo però, dell'esperienza analitica non rimane nulla. Essendo particolare, il sapere in psicoanalisi presenta dei problemi: qualcosa che per qualcuno è una trovata non lo sarà per un altro, perché il desiderio è individuale. Ciò che ciascuno desidera riguarda solo lui. In questo senso siamo tutti feticisti. Per ognuno c'è un oggetto che è la condizione del suo desiderio e che rende autentica l'esperienza analitica, costringendo l'analista a ripartire sempre da zero. Il discorso analitico tocca i soggetti uno per uno, non come il discorso dell’università, che nel suo dispositivo si rivolge a una massa, a chiunque, indipendentemente dal numero. La psicoanalisi non è assolutamente così. La trasmissione essenziale passa dall'uno all’altro seguendo una logica completamente diversa. L’analista non è un professore, anche se ovviamente per gli analisti c'è la tendenza a diventare professori, nonostante l'interpretazione analitica non sia una dottrina. Gli analisti sono visti come professori che seguono un allievo alla volta. Non è corretto però dire così, poiché l'analista è scelto liberamente, come già inscritto nell’inconscio dell’analizzante, fuori dalla gerarchia, e non ha un diploma da presentare. Inoltre è necessario pagarlo, ed è costoso. Questo è contrario di quel che succede all’università, in quanto l’università è sovvenzionata. La materia prima del sapere ce la si aspetta poi dall’analizzante, e questa è la ragione per cui il sapere non glie lo si può insegnare. A partire da novembre, nella Sezione Clinica del Dipartimento di Psicoanalisi, affronteremo il tema della clinica del Super-io. Il Dipartimento di Psicoanalisi è stato fondato da Lacan nel 1976, e lavoriamo lì con alcuni ospedali psichiatrici con i quali abbiamo accordi per prendere come studenti o partecipanti un certo numero di giovani psichiatri e psicologi. Siamo partiti con venticinque persone e ora ne abbiamo trecento, un successo, questo, in termini numerici, che rafforza la nostra posizione universitaria, permettendoci di portare avanti la ricerca. Il termine Super-io manca nel titolo dell'opera di Freud che introduce il concetto: L'Io e l'Es, dove la vera innovazione, accolta come tale dai suoi contemporanei, era proprio il Super-io. È sempre importante tornare al momento iniziale, a maggior ragione se si ha a che fare con un concetto eliso, cancellato dalla psicologia dell’Io. Così è avvenuto infatti nella rilettura di Freud fatta dai nord-americani importati dal centro-Europa, che hanno cercato di piegare la psicoanalisi all’American way of life. Il Super-Io è sembrato loro alla fine come una categoria in più, e nella psicologia dell’Io la sua supposta funzione – che sarebbe quella di vietare, quella di dire no, quella di difesa – è quindi stata trasferita all’Io. Se l’Io, nella sua ambizione di autonomia, si definisce proprio per la difesa, il Super-io diventa superfluo. Hartmann e il suo socio Loewenstein – che fu l’analista di Lacan – vissero in Francia per diversi anni prima della seconda guerra mondiale, e pubblicarono nel 1962 un articolo intitolato Note sul Super-io, [in: H. Hartmann, E. Kris, R. M. Loewenstein, Scritti di psicologia psicoanalitica, Boringhieri, Torino, 1978] come aggiunta alla teoria che stavano sviluppando da prima della guerra, nonostante non avessero ancora avuto modo di dire perché l'avevano incluso nell'Io. Gli psicoanalisti ripetono all'infinito la formula di Freud sul Super-io come erede del complesso di Edipo [Freud, L’Io e l’Es, in Opere, vol IX Boringhieri, Torino 1977, p. 501]. Questa citazione ha generato un grosso problema in psicoanalisi di fronte alla scoperta di Melanie Klein che il Super-io è estremamente precoce [M. Klein, La psicoanalisi dei bambini, G. Martinelli editore, Firenze 1970]. Gli psicoanalisti hanno reso compatibili la formula di Freud e la scoperta di Melanie Klein. Ernest Jones, per esempio, da un lato ha rispettato l'impegno a cui sentiva legato con Freud, e dall'altro ha accettato Melanie Klein. A nostro avviso è necessario sapere come Freud intendeva mantenere la sua scoperta, l'invenzione del Super-io, che per Lacan fu di grande importanza, essendo stata anche la via attraverso cui è entrato nella psicoanalisi. Lacan, da psichiatra classico e con una buona formazione, è stato compagno di Henry Ey, grande maestro nella psichiatria francese fino alla sua morte. Lacan ha scritto una tesi sulla personalità paranoica [Lacan, Della psicosi paranoica nei suoi rapporti con la personalità, Einaudi, Torino 1980], non so se sia stata tradotta in portoghese. Se così non fosse, peccato, perché segna il momento in cui Lacan si è rivolto alla psicoanalisi proprio a partire dal Super-io, che gli ha permesso di concettualizzare il caso clinico presentato. Ma quale sarebbe in fondo l'intuizione essenziale di Lacan, se possiamo usare qui il termine intuizione? Sarebbe l'inconscio strutturato come un linguaggio? Non direi, visto che questa tesi l'ha formulata in seguito, quando aveva più di cinquant’anni. Credo che la sua intuizione fondamentale sia la divisione del soggetto, l’idea che il soggetto si rivolga contro se stesso. Questo lo oppone a buona parte di quel che si è fatto in filosofia, e che è stato integralmente conservato dagli psicologi, animati dal preconcetto che il soggetto voglia il proprio bene, che voglia continuare a vivere, che tutto si adegui a questa mira, e che se così non fosse occorrerebbe mandarlo in terapia. Supponiamo che il soggetto obbedisca alla legge come rifiuto della pulsione di morte. Sappiamo che gli psicoanalisti non accolsero la pulsione di morte nel pensiero di Freud, considerando che fosse una speculazione, che si trattasse di una contraddizione. Detto questo, se la pulsione fosse un istinto non sarebbe possibile comprendere cosa significa pulsione di morte, formula per cui il soggetto si divide rivolgendosi contro se stesso, mettendo in discussione la positività del bene. Con la pulsione di morte si introduce un'etica diversa da quella del bene, mostrando come il soggetto si aggrappi a un bene che non coincide in alcun modo con il proprio benessere. È quello che Freud chiamava masochismo primordiale, incomprensibile agli psicoanalisti se sono psicologi. È stato necessario che Lacan desse un senso ad alcuni concetti freudiani introducendo l’idea di un bene che sta al di là del benessere, un bene che può nuocere, ovvero quel che Lacan ha chiamato godimento, che non dà necessariamente piacere e che implica un’etica. Kant capì a suo modo il problema nella Critica della ragion pratica. Intuì che il bene in quanto tale era contrario al benessere, ma non gli diede il nome di godimento, come sarebbe stato necessario. Il Super-io è all'origine della coscienza morale. Ma la coscienza morale non dice ciò che crede Kant. Il Super-io formula l'imperativo della verità, che ci fa sentire poco bene. Non è un divieto, però obbliga. Lacan formula così l'imperativo del Super-io: godi! Questo dovere è terribile nel Super-io: viene sentito attraverso il senso di colpa inconscio e il bisogno di punizione. Sono aspetti limitati. La domanda è: che cosa viene soddisfatto nel soggetto attraverso il sintomo? Perché il soggetto aderisce al sintomo? Quale godimento si trova nel sintomo? Senza questo godimento, il sintomo svanirebbe. Freud aveva invece constatato che c'è una resistenza del sintomo. Il soggetto è implicato nel sintomo, non vuole essere curato e, malgrado la sofferenza causata dal sintomo, ottiene soddisfazione. La psicoanalisi valorizza la legge, quella del padre per esempio. Nella sequenza del complesso di Edipo c'è una certa normalizzazione del desiderio, e si immagina dipenda dalla funzione del Super-io. Freud tuttavia attribuisce un altro valore al Super-io, mettendolo in rapporto con la pulsione. Il Super-io non soltanto sbarra la via alle richieste, ma ogni rinuncia al soddisfacimento pulsionale ne rafforza la severità, lo rende insaziabile. Freud lo dice ne Il disagio della civiltà con un un paradosso: come si spiega infatti la sua voracità se il Super-io è il divieto del godimento? Lacan risolve questo apparente paradosso dicendo che il Super-io impone il godimento. Elimina così così il paradosso freudiano. Il Super-io va contro il desiderio, ma perché il desiderio stesso va contro il godimento, è una difesa contro di esso. Il godimento non è desiderabile. È una delle verità, accumulatesi con l'esperienza analitica, che ci sembrano sconosciute perché sono rimaste nascoste in un baule. Negli anni Venti i contemporanei di Freud – Franz Alexander, Theodor Reik, Wilhelm Reich – si erano appassionati al Super-io, e si erano resi conto che non si trattava di un'istanza sociale di normalizzazione, ma piuttosto del contrario, di una legge dell'inconscio che non normalizza e che introduce invece il soggetto a una dimensione dove il godimento è folle, sciolto, senza significante, senza misura. Occorre rispettare questa dimensione e distinguerla da quella del Nome del Padre, che fu il successo di Lacan, molto ben accolto. Oggi è necessario che la Sezione Clinica ripristini la funzione del Super-io, che ha costituito un fatto singolare nella storia della psicoanalisi. Gli analisti mettono costantemente in discussione il Super-io nelle donne. Già Freud aveva capito che da quella parte c'era qualcosa nella coscienza morale che andava in modo diverso. Nel momento in cui Freud è stato infedele a se stesso, ha smesso di comprendere il carattere illimitato delle donne, le infrazioni che possono commettere contro la coscienza morale. È anche il problema dei filosofi di questo secolo. Da questo punto di vista non c'è mai stata certezza dell'umanità delle donne. Ma il problema del Super-io femminile è quello del godimento, e Lacan ha dato conto dei paradossi incontrati da Freud. Si è sempre saputo che le donne violano il mandato della parola come lo concepiscono gli uomini. Per questo gli uomini non hanno mai smesso di riflettere. Qual'è la verità? Il Super-io dell'uomo è la donna. Ecco perché è così difficile trovare un Super-io adatto a lui. È molto più faticoso liberarsi dell'imperativo proveniente dalla donna che da quello presentato dalla coscienza morale. Dibattito P: Vorrei che ci dicesse qualcosa sull'affermazione di Lacan nel testo Una questione preliminare, in cui parla degli indicatori sociali del fallimento del Nome del Padre. J.-A.M.: L'invenzione del Nome del Padre, il grande successo di Lacan, gli è servita fondamentalmente nella teoria della psicosi, dal momento che è partito da questa struttura. Ciò che ha chiamato preclusione del Nome del Padre è ciò che ha tradotto dal tedesco Verwerfung, un termine di Freud, non qualcosa di osservabile. È come un principio dedotto dall'esame dei casi di psicosi, in particolare del caso princeps studiato da Freud. È un principio transfenomenico, che non può essere identificato come una semplice istituzione. È vero che ci sono elementi sociali che possono, per qualche tempo, coprire questo buco simbolico. Ci sono tuttavia altri elementi che possono, al contrario, renderlo evidente, come nel caso del presidente Schreber, che fino a cinquant'anni è stato un modello di comportamento sociale, e solo quando stava per assumere la degna posizione di presidente della Corte d’Appello di Dresda, si è trovato un'idea per la testa che non era consona al suo ruolo sociale. Un bel giorno infatti ha cominciato a dirsi che sarebbe stato bello essere una donna che subisce il coito. Il presidente della Corte d’Appello potrebbe anche spingersi fino a sognare una cosa del genere, ma per lui era diventata una cosa reale, non la considerava un'allucinazione, non un sogno, ma quello che Dio voleva da lui, e Dio lo otteneva. Quando il suo delirio si stabilizzò abbastanza da poter scrivere un libro, si convinse che il suo corpo si fosse femminilizzato. Dov'è il sociale in tutto questo? Il fattore scatenante della sua psicosi è stata la promozione a una posizione di rilievo. In una certa misura si può dire che la malattia sia sociale. Potrebbe esserlo anche la cura. Traduzione di Micol Martinez
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