Conferenza tenuta il 28 luglio 1987 a Curitiba Jacques-Alain Miller Domande e risposte Grazie per la vostra presenza questa mattina nonostante l'ora e la stanchezza, perché se non foste qui, non ci sarei nemmeno io, né riuscirei a riposare. Ma è la presenza dell'Altro che fa parlare, e per questo la posizione di chi insegna è paragonabile non a quella dell’analista, ma a quella dell'analizzante,. Possiamo anche cancellare quest'ultima parola e pensare alla prossima, come diceva Godino. Vedrò alcuni di quelli che sono qui a Buenos Aires l'anno prossimo in un seminario, che chiameremo brasiliano, in preparazione al tema Etica della psicoanalisi e sue incidenze cliniche. Ricordo di aver scritto qualcosa sull'argomento, anche se non ci avevo pensato prima. Lo rileggerò per ricordare quello che ho detto, perché ora non ce l'ho in mente. Ho potuto comunicare, fino a questo punto, solo una parte di ciò che volevo dire, solo una parte del percorso. Riassumerò alcuni punti, anche a rischio di renderli più difficili. Prima di tutto, voglio rispondere ad alcune domande postemi ieri, pubblicamente o privatamente. Qualcuno di Bahia, qui presente, mi ha chiesto quale sia il principio di metodo per leggere Lacan. Credo di poter ripetere quel che ho cercato di rispondere: per leggere o interpretare Lacan, per elaborare qualcosa, si deve prendere come principio il fatto che una citazione, di per sé, non dice molto. Mi sembra ridicolo quel che spesso succede a Parigi, le lotte di citazioni: "Lacan ha detto ….", "Lacan ha affermato…”. Si può lottare solo per le definizioni. In tal senso mi sembra che, come principio di metodo nella lettura di Lacan, la domanda da porsi sia: cosa intende dire Lacan in quel momento? Perché Lacan, come tutti, non può dire quello che vuole, con la differenza che lui lo sa. Occorre allora interpretare e collocare le citazioni nel contesto, non in funzione di uno studio storico-cronologico dell’opera di Lacan, ma per individuare e tentare di spiegare, o addirittura di costruire quel che vuol dire il testo. Il secondo principio del metodo, dal mio punto di vista, sarebbe quello di non pensare che esista una sola lettura di un tale passaggio o di una tale frase di Lacan, ma che essi possono assumere nuovi significati con il passare del tempo. Lacan dice esplicitamente che i suoi matemi permettono mille e più letture diverse. Questo vale anche per le frasi inserite in un linguaggio più o meno comune. Lo schema RSI del seminario XX A partire da questo posso rispondere a Luiz Henrique Vidigal, di Belo Horizonte, alla domanda, un po' erudita per il pubblico generico, sullo schema di Lacan. È uno schema piuttosto complicato da memorizzare, ma solo quando se ne vuole cogliere la forma totale. Lo schema contiene un triangolo, ovviamente con tre lati, che cattura l'immaginazione del lettore, Si trova nel capitolo ottavo del Seminario XX. Non credo tuttavia che i tre lati siano equivalenti. Così l'ho letto uno o due anni fa in un corso. Credo che l'essenziale dello schema si basi sul lato che va dal simbolico al reale. Mi sembra questa la novità, la ragione della costruzione di questo schema creato da Lacan in questo Seminario e mai più ripreso. Ero in sala con altre cinquecento persone in quel momento. È stato un tentativo unico di dire qualcosa. Non è lo stesso con gli schemi e i grafi negli Scritti. L’aspetto più importante di questo schema, come ho detto, è il lato che va dal simbolico al reale, ed è qualcosa di assolutamente nuovo nell'insegnamento di Lacan degli anni 1972-1973. Lo schema mostra che su questo lato c'è l'oggetto a, una parvenza. Nel capitolo c'è una frase che dice: "Il simbolico dirigendosi verso il reale, ci dimostra la vera natura dell’oggetto a”[1] “non potendo sostenersi nell'approccio al reale.”[2] Questo richiama l'attenzione perché è qualcosa che Lacan non aveva mai detto prima. Chi lo ha letto sa che, inizialmente, quel che lui chiamava oggetto a era immaginario. Più tardi, nel 1966 – fu una sorpresa per il suo pubblico di allora, lo ricordo bene – Lacan disse: "Voi credete che l'oggetto a sia immaginario, ora venite a sapere che è reale". Era il suo modo di costruire il sapere. Così, per alcuni anni, abbiamo ripreso la questione, chiedendoci perché cambiare lo statuto dell'oggetto a. Nel 1972, essendo più discreto e chiaramente non volendo confondere chi lo ascoltava, Lacan dice – senza essere ascoltato – che l'essenziale è che l'oggetto a non si sostiene quando affrontiamo il reale. È una nuova costruzione, che differenzia l'oggetto a da qualcosa che troviamo in questo schema: il godimento. Non riprenderò l'analisi dello schema che ho fatto nel mio corso, ma dirò solo che questa novità è la conseguenza del fatto che Lacan ha scritto l'oggetto a nei suoi quattro discorsi per accentuarne la logicizzazione. Lacan ha accentuato la logicizzazione dell’oggetto a al punto che nello stesso anno ha ne ha elaborato uno statuto. A Parigi c’è stata una sorpresa generale quando Lacan ha affermato che l'oggetto a ha una consistenza logica. Ci sono quindi due filoni nel suo insegnamento: in uno, l'impossibile è il reale, nell'altro, l'impossibile è dalla parte del simbolico. A partire da questo momento Lacan distingue un reale al di là della logica, iniziando a lavorare con i nodi, con i quali l'oggetto a non ha più la stessa funzione che in precedenza. La novità sta proprio in questo punto. Lacan diceva che l'oggetto non ha l'affinità con il luogo della parvenza, perché quel che ha affinità con il luogo della parvenza è il significante padrone. Mettere, nel discorso analitico, l'oggetto a al posto della parvenza va contro la sua natura, va contro lo statuto reale dell’oggetto a. Ma nel seminario Ancora, nell’ottavo capitolo, dice esattamente il contrario, sottolineando che il discorso analitico mette l'oggetto a al posto giusto, perché in realtà l’oggetto a è una parvenza. Bisogna dire che l'insegnamento di Lacan non è affatto dogmatico, che deve essere letto come una ricerca continua e logica, e che quando si trovano difficoltà bisogna cambiare i riferimenti per produrre effetti di senso. Nessuno può mettersi tranquillo pensando di aver capito cos’è l'oggetto a. Non saprei come rispondere alla domanda: che cos'è l'oggetto a? Bisogna costruire una risposta, bisogna costruire e dare le proprie coordinate. Si presuppone tuttavia che l'oggetto a non rimanga nel cielo delle idee, non siamo platonici. Ben presto, quindi, Lacan completa il grafo – questa è la mia ricostruzione – colloca l'immaginario e dà un senso agli altri lati. Potremmo commentarli in dettaglio, se ci fosse tempo. La cosa più importante Lacan la dice nell’ottavo capitolo: “Questi tre termini, quelli che inscrivo con a, S(A/) e Ф li propongo in fin dei conti da un’angolatura peggiorativa.”[3] Frase piuttosto curiosa, perché è sempre sembrato che, nel corso degli anni, Lacan avesse sempre preso a cuore questi piccoli matemi. Biancaneve e i sette nani ispira Lacan e i suoi piccoli matemi. Ma in quel momento Lacan dice che ne sta parlando in modo peggiorativo. Questa è una parola usata per dire che quel che lo interessa attualmente è la nuova categoria del godimento, e che questi termini non gli sembrano più appropriati per quel che stava cercando di dire. In questo momento, inizia lo straordinario lavoro con i nodi, di cui ho cominciato a parlare quest'anno a Parigi, senza però disegnarli. L’ho fatto solo per capire cosa ha spinto Lacan a elaborarli. Bene, non è una risposta completa, che implicherebbe riprendere ogni termine. L’interpretazione dell’analista Direi una parola per rispondere alla domanda di Godino sulla differenza tra l'apofantico e il modale, e in che modo questo si collega con l'interpretazione analitica. Lacan riprende la distinzione classica tra apofantico e modale. Credo ieri di aver detto le cose in modo molto semplice, ho detto che classicamente, sul versante apofantico ci sono solo due valori: il vero e il falso che, in un certo senso, annullano il soggetto. Sul versante della modalità, invece, una proposizione può modificarsi in modo quasi infinito. Per esempio: "Due più due fa quattro, forse”, o: “Due più due faceva quattro ieri, ma oggi due più due fa cinque” C’è in questo qualcosa di borgesiano o di carrolliano. Cose del genere si trovano in Alice nel paese delle meraviglie, e derivano dal fatto di prendere proposizioni valide sul piano apofantico, e di modularle. L’apofantico, diversamente dal modale, non sembra così complicato da matematizzare, ma il modale sì. Lacan ha matematizzato le modalità del necessario, del contingente, del possibile e così via, a cui Aristotele aveva già pensato e di cui aveva già parlato – non dico scritto perché non abbiamo scritti di Aristotele, abbiamo solo gli appunti delle sue lezioni al Liceo. In epoca contemporanea c’è stato un certo sviluppo della logica matematica modale, ma ci sono anche logici convinti che non rivesta nessun interesse matematizzare le modalità. Lacan riprende questa distinzione classica, per dire che ci sono due versanti del detto: quello dell'interpretazione, il detto dell'analista, che appartiene al piano apofantico, e quello dell'analizzante, che appartiene al piano modale. Il detto dell'analista è l'interpretazione, quello dell'analizzante è la domanda. Che cosa significa? Non si tratta solo di dire se un'interpretazione è vera o falsa, anche se quando si discute l’argomento nella letteratura psicoanalitica questo problema viene sempre sollevato. Quel che nella letteratura analitica si vuole sapere è se l’interpretazione è vera o falsa. Considerare un'interpretazione brillante è visto come una prospettiva un po’ troppo estetica per l'esperienza analitica. Per i detti del paziente non abbiamo solo questi due parametri, ma tutto quel che ho definito come tono del soggetto, tutte le inflessioni che fanno sentire la presenza del soggetto. Prendiamo la differenza tra il detto e la scatola vuota. La questione che ieri non abbiamo considerato è: come deve essere costruito il detto dell'analista per ottenere un effetto sul detto dell'analizzante? La tesi di Lacan è che deve essere costruito in modo completamente diverso, e in modo conforme al dispositivo analitico. Nel detto dell'analizzante s’inscrivono tutte le modalizzazioni: la negazione, la negazione della negazione, il forse, il è possibile. Si tratta insomma di dire una cosa per farne capire un'altra. Nell’interpretazione invece questo posto deve rimanere vuoto. L'analista non parla come soggetto, Lacan dice che l’analista è l’oggetto, è l’oggetto a, vale a dire che nell’analisi l’analista, dal posto in cui funziona, non ha inconscio. Contrariamente a quanto afferma la tesi della controtraslazione, l’analista non funziona come soggetto dell'inconscio. L'analista deve sapere quel che dice – compito impossibile – tuttavia questa è la sua responsabilità: è la responsabilità di un compito impossibile. Non si può sapere quel che si dice, ma si deve sapere e tenere conto che quando si parla, non si sa cosa si dice. La prima conseguenza da trarne è la prudenza, che però non basta. Lacan diceva che, quanto a insegnare la prudenza, l'IPA lo faceva a meraviglia: non immischiarsi con le cose difficili dell'analisi, riposarsi un po', darsi tempo, e così via. La prudenza è una virtù aristotelica, con tutte le carte in regola., L'analista tuttavia deve cercare di parlare non come soggetto, ma in modo che, a partire dal suo detto l'analizzante possa inscriversi nella casella vuota come un soggetto. In altre parole, il luogo del soggetto per l’analista deve rimanere vuoto perché possa inscrivervisi la modalità del soggetto analizzante. L'analista deve praticare una certa neutralizzazione della sua modalità soggettiva. Nell'apofantico non c’è modalità soggettiva: due più due fa quattro, punto e basta. In questo modo, non si tratta di una matematica comunicabile, ma di permettere che una nuova modalità soggettiva dell'analizzante si inscriva in questo luogo. Si pone proprio qui la questione del desiderio dell'analista. Che cos'è il desiderio in termini lacaniani? Sotto la domanda c'è sempre un desiderio che corre. È la stessa struttura che troviamo formulata qui: Sotto un significante corre, scivola un significato. Si pone allora la domanda: l'interpretazione è un altro tipo di detto diverso dalla domanda? Cosa succede in questo posto? Che effetto ha sul desiderio? Lacan dice che il desiderio dell'analista deve costituire una x per il paziente, deve cioè offrirsi all’interpretazione per il paziente. La vera interpretazione analitica è un significante enigmatico, che si offre all’interpretazione del paziente. Per riprendere la questione della fissazione, il significante dell’interpretazione si fissa in modo tale da rendere possibile al paziente un cambiamento di modalità soggettiva. L'interpretazione neutralizza la modalità del detto dell'analista, fa sì che il suo desiderio raggiunga il versante etico, non risponde alla domanda per ottenere così un effetto sul desiderio. C’è però anche un versante tecnico. L'interpretazione è anche una tecnica d’enunciazione. Qui il modello classico deve essere corretto. Quando Lacan dice apofantico, pensa al senso più raffinato dell'apofantico, pensa all'oracolo dell'antica Grecia, le cui frasi erano sempre enigmatiche, erano giochi di parole. Gli oracoli raccontati da Erodoto consistono in frasi così enigmatiche da non essere facilmente comprensibili per la persona a cui sono rivolte, che di conseguenza non può sfuggire al proprio destino. Sono frasi che devono essere interpretate. Lasciando la scatola vuota per scriverci una x, dopo che l'analista ha parlato si apre lo spazio del quesito: "Ma cosa ha voluto dire?". Questo è un esempio del malinteso costitutivo. Per questo motivo non diamo spiegazioni. Qualsiasi spiegazione potrebbe portare solo a una nuova domanda: “E questo cosa vuol dire?" Non si finirebbe mai, e si potrebbe continuare a parlare così fino alla fine. L'interpretazione apre la domanda: "Cosa vuole dire? Cosa vuole?” mettendo in gioco la questione del desiderio: "Cosa desidera dire?" C'è un esempio molto chiaro che ho sentito in queste giornate: è il caso riportato da Beneti. Una donna isterica, di cinquant’anni, alla quale, a un dato momento Beneti, che è il suo analista, dice: “La smetta di parlare! Basta!” Questa persona, che potrebbe parlare per ore e ore – le sedute non sembrano essere particolarmente brevi – trova qualcosa che non aveva mai trovato prima. La paziente poi dice un sacco di cose per spiegare a se stessa cosa è successo. Beneti ha fatto bene a richiamarla il giorno stesso, senza farla aspettare. La frase più importante che, a mio parere, la paziente ha detto è stata: “Stavo pensando: perché Beneti mi ha fatto questo?" Considero la frase: ”La smetta di parlare!” come il significante dell'interpretazione. Non si tratta di dire: "Suo padre questo…sua madre quello…” La frase: “La smetta di parlare!” apre la domanda: "Cosa vuole Beneti da me?" Si tratta della questione del desiderio dell'analista perché la paziente, non considerare minimamente ciò che fa con la propria parola, e questo configura un momento di cambiamento nell’analisi. Nel caso di Beneti c’è anche un certo pathos, c’è la stanchezza di dover ascoltare questa paziente parlare ininterrottamente. È l'angoscia di Beneti che gli fa dire: “Basta parlare!” È una descrizione molto interessante, molto onesta. Credo però che l'analista possa risparmiarsi l’angoscia. Sarebbe stato meglio riconsiderando il caso, che a un certo punto la seduta fosse interrotta. C'è una brillante riscoperta del valore della pratica lacaniana: il taglio è al tempo stesso l'offerta di ritornare. Penso che l'analista può essere visto, fino a un certo punto, come un tecnico dell'enunciazione ed è meglio che non provi angoscia nell’esperienza. C’è un’altra questione che vorrei discutere. Non è una domanda ma una nota di Ana Lúcia de Paiva. Considero solo la parte che mi sembra più semplice. Ana Lúcia osserva che, secondo lei, la rettifica soggettiva non le sembra un momento cronologico dell'esperienza, ma un momento quasi logico. Per esempio, nei casi d’isteria quando il soggetto mostra una certa indifferenza, la famosa indifferenza isterica, è necessario rettificare molte volte la posizione del soggetto, perché il soggetto ritorna sempre alla sua indifferenza. Dal punto di vista clinico questo è vero. Non dobbiamo però abusare della parola rettifica. Sono pienamente d'accordo con quanto ha osservato, ma la parola rettifica, riferita al momento iniziale, ha un'aria piuttosto pedagogica. Quel che alcuni hanno considerato come un indottrinamento dei pazienti da parte di Freud è in realtà una rettifica. Questo ne attenua il carattere pedagogico. Se però in analisi facciamo rettifiche, con questa parola potremmo creare il malinteso che stiamo sempre rettificando. Se la rettifica soggettiva si rende necessaria, è forse perché si tratta ancora di colloqui preliminari che, a volte, con un soggetto isterico possono diventare indefiniti. Se ci fosse tempo si potrebbe riferire un caso nel dettaglio, facendo emergere questioni appassionanti. Ho visto soggetti isterici che nell'esperienza analitica vogliono occupare il posto vuoto, cioè non vogliono dimostrare alcuna modalità soggettiva. Una delle loro caratteristiche può essere quella di rimanere muti. Che cosa succede quando il paziente rimane muto? Non dobbiamo semplicemente pensare che si tratti di un soggetto incapace di analisi da mandar via, come si fa nell’IPA. Può essere l'effetto del dispositivo analitico sull’isterica, quando assume la posizione di padrone adottando il silenzio che dovrebbe essere dell'analista, e di conseguenza costringendolo a dire qualcosa, facendolo lavorare. Questa situazione può arrivare al punto di chiedersi se sia il caso di inginocchiarsi ai piedi del paziente per ottenere una parola. Possiamo pensare che non c'è nulla da fare, e in questo caso : “Fuori!", oppure – questi sono casi avvincenti – se abbiamo la buona volontà e la forza di reggere, possiamo tenerlo. La cosa straordinaria è che a volte succede qualcosa, e magari tre anni dopo possiamo scoprire che qualcosa si è mosso, anche se l'isterica rimane incredula. È una questione clinica particolare, e cosa fare dipende da ogni caso, nel momento in cui il problema si verifica. Per tre anni ho visto una paziente che non ha detto quasi nulla; sarebbe stato piuttosto pericoloso non accettarla, perché l'analisi aveva un valore per lei, un valore da rispettare. È un po' strano, ma a volte bisogna rispettare questi tempi. Ho già parlato dei tempi dell'ossessivo, separati l'uno dall'altro. Per un soggetto isterico il sì e il no simultanei possono tradursi o incarnarsi nel silenzio, come possono invece presentarsi in un parlare ininterrotto e incoerente. L’eventuale silenzio del soggetto isterico incarna perfettamente la retroazione dell'enunciazione, per cui ogni enunciato appare tra virgolette: "È lei a dirlo". Ci sarebbe molto da dire su questo, soprattutto sull'aspetto citazionale del discorso, poiché sappiamo che tutti i discorsi lo sono. Nel momento in cui sorge qualcosa nel detto, possiamo assumere un punto di vista su di esso, come un metalinguaggio all'interno del linguaggio stesso. Posso dire una frase e poi aggiungere: "È una bugia", oppure: "Non ci credo.” È un processo di citazione, semplice da capire, ma molto importante. In esso risiedono tutta la sottigliezza e la delicatezza della modalità soggettiva: si tratta di dire qualcosa, ma non completamente. Come Chimène dice al suo amato Rodrigue in Le Cid, un'opera teatrale di Pierre Corneille del XVII secolo: "Non ti odio", perché per qualche motivo, non può dire "Ti amo". Questa frase è infatti una dichiarazione d'amore, di passione.[1] Sapete come fanno i nordamericani quando devono fare una citazione? È così difficile per loro gestire la delicatezza della modalità soggettiva che quando citano – tranne Stuart Schneider, che è stato in analisi da Lacan – fanno un gesto di apertura e chiusura delle virgolette con le dita in aria. Il loro rapporto con il linguaggio è così utilitaristico e pragmatico che, quando introducono la modalizzazione soggettiva, riescono a farlo solo inscenandolo in queso modo. La logica del soggetto e la drammatizzazione della mancanza d’essere Risponderò ora all’ultima domanda, e lo farò tornando alla mia presentazione di ieri, che per me è stata illuminante. L’essenziale nel soggetto lacaniano è che c'è una sorta di incrocio tra il vuoto – che si può spiegare a partire dalle considerazioni logico-linguistiche dell’enunciazione – e la drammatizzazione esistenzialista della mancanza d'essere. A volte Lacan per parlare del soggetto adotta uno stile scientifico, altre volte uno stile drammatico-esistenzialista. Per ragioni pratiche elencherò alcuni punti. Il primo punto è la considerazione che sul soggetto introduce in Lacan quella che qualche anno fa ho chiamato la clinica delle domande. Non si tratta solo della posizione del soggetto come vuoto, né di una domanda sul desiderio, ma del fatto che il soggetto del desiderio è esso stesso una domanda. Ci sono molti testi di Lacan dove la clinica psicoanalitica delle nevrosi è considerata come una clinica delle domande, delle diverse domande con cui il soggetto si situa, ma anche delle domande di cui il soggetto consiste. Ogni sostanza è una domanda. Questa idea deve essere articolata con un’altra, che Lacan ha sviluppato negli anni Settanta, in cui il soggetto appare da un lato come una domanda, e dall'altro come la risposta del reale. Ciò che ha attirato la mia attenzione è stata una frase di Lacan: in analisi, il soggetto vale come risposta al reale.[2] Quattro anni prima, questa frase mi sarebbe sembrata incomprensibile, perché pensavo sempre alla clinica delle domande. Per capire di cosa si trattava ho preparato e tenuto un corso di un anno, spiegando a me stesso e ai partecipanti cosa poteva significare il soggetto come risposta del reale. Quel che ne è risultato è che il desiderio è una domanda, il desiderio è una domanda sul desiderio, è la vera domanda, il “Che vuoi?” lacaniano. In opposizione, il godimento è la risposta. Dobbiamo dare tutto il suo valore al titolo di Lacan La dialettica del desiderio,[3] perché in effetti il desiderio ha una dialettica, si trasforma, considera l’Altro, al punto da poter dire che il desiderio è il desiderio dell’Altro, che come sapete è una formula dell’isteria. Il godimento, invece, non ha dialettica, costituisce un’inerzia. Se il desiderio è dell'Altro, il godimento è dell'Uno. È questo, infatti, il senso della teoria pulsionale di Freud: nella pulsione l'Altro non viene considerato. Il problema è che, fondamentalmente, non c'è godimento dell’Altro. Per questo, a partire dal Seminario XX, Lacan si pone il problema del godimento dell'Altro. Come si può mettere in relazione il godimento dell'Uno con il desiderio dell'Altro? È quel che appare in analisi; non si tratta semplicemente di dare qualcosa del proprio sintomo all'analista, come se il discorso dell'Altro potesse catturare il godimento dell’Uno, il godimento sintomatico dell’Uno. La clinica delle domande è già implicita nel matema Lacan ha cercato di differenziare le nevrosi isteriche e quelle ossessive in base al tipo di domanda che il soggetto pone, in base all'S a cui la domanda è rivolta. Nell'isteria, S è il significante fallico, e la domanda isterica è la domanda sul sesso: "Sono donna? Sono uomo? Sono una vera donna? Sono un uomo mancato?”. Quella dell'ossessivo invece è relativa al nulla – poiché il soggetto è vuoto. È la domanda sul passaggio dal nulla a qualcosa, e anche quella sull'esistenza stessa del nulla.
È il tentativo fatto da Lacan degli anni Cinquanta – tentativo che conserva ancora oggi il suo valore – di differenziare le due nevrosi a partire dalla nozione di domanda. Il soggetto isterico si rivolge al significante fallico perché non c'è altro, non c'è un significante della donna. Questa era la tesi di Freud: nell’inconscio non esiste un significante della donna, deve essere inventato. Il godimento maschile quindi – cerchiamo di essere semplici senza essere grossolani – ha il suo significante, mentre il godimento femminile non ce l’ha. Anche la donna ha a che fare con il godimento fallico, ma non tutto il suo godimento è in questa dimensione. Sapere dove la donna gode è sempre stata una questione presente nella letteratura analitica: Hélène Deutsch, Anna Freud e altre hanno cercato di localizzare qui o là questo significante, come se tale topologia fosse possibile. Negli Stati Uniti ci sono non so quante ricerche sulla localizzazione del godimento femminile. Di fatto esiste una parte del godimento femminile che non può essere fissata o localizzata con il significante, che non può rivelarsi. Se la traduciamo in questo modo, l’affermazione di Lacan diventa molto semplice. Non significa che la donna nasconda il proprio godimento, è che non sa come dirlo. L’altro gode Ciò significa che c’è in gioco un Altro godimento, che dà un senso diverso a $, al soggetto diviso dal godimento stesso. Per questo Lacan ha potuto dire che l’uomo, quando gode di una donna, la divide, e mi piace molto la frase con cui prosegue: "rendendola partner della sua solitudine.”[1] Questo vuol dire che c'è un luogo dove nessun uomo può servire per una donna, un luogo dove lei è sola con il proprio godimento. Motivo per cui possiamo dire che una donna non è mai tutta per un uomo, malgrado l'impegno che si mette per farlo credere. Una donna è non-tutta per un uomo, sfugge sempre, e per questo, storicamente, gli uomini hanno fatto tanti sforzi per tamponare quest'Altro godimento. La questione di come educare le ragazze ha sempre assillato gli uomini: "Come educare le donne?" Recentemente le porte del sapere sono state aperte anche a loro, il che ha implicato per loro qualche difficoltà. Accettare di avere un sapere è per le donne un cambiamento di posizione soggettiva importante. Dobbiamo domandarci se ciò sia dovuto a una secolare repressione sociale, o se il rapporto delle donne con il sapere non presenti una certa difficoltà. In un certo senso il sapere interessa alle donne solo per il suo versante di verità, in termini di: "Cosa vuol dire?", senza che abbiano alcun interesse ad accumularlo, a contarne sempre di più. Per una donna, una piccola verità sul desiderio vale molto di più di intere librerie. È possibile cercare di tamponare questo Altro godimento, come abbiamo visto nel caso del marito che credeva che la moglie fosse tutta per lui, e la moglie stessa sosteneva questa sua convinzione. Una donna inganna sempre un uomo, anche se gli è fedele lo inganna con il suo stesso aiuto. È il motivo per cui nei casi di isteria troviamo sempre la funzione, evidenziata clinicamente da Lacan, dell'altra donna. C'è sempre un'altra donna che detiene il segreto della femminilità, il che, alla fin fine, non dice nulla della particolarità del caso, perché non si tratta solo del fatto che una donna prende un'altra donna come riferimento. Può darsi che una donna si metta lei stessa nella posizione dell'altra donna, è un caso in cui mi sono imbattuto più di una volta. C’è per esempio il caso di una certa donna eminente, direttrice di un dipartimento universitario, molto attiva nella vita, che poteva avere relazioni solo con uomini sposati. Era necessario per lei sapere che l'uomo avesse una mogie, una donna di tutti i giorni, la donna di routine, per sentirsi sicura di essere nella posizione della donna desiderata, una plus-donna. Ho trovato questo fantasma essenziale anche nel caso di una donna supposta frigida – ogni volta che si parla di frigidità, ci sono infinite modulazioni. Durante il rapporto sessuale questa donna si costringeva a pensare che fosse presente un'altra donna. Non si trattava di essere tre insieme, perché lei stessa, per godere, aveva il fantasma di essere l'altra donna rispetto a quella che era nell'atto sessuale. Il suo fantasma può essere formulato così: "Una donna è presa da un uomo". In questo esempio, si può notare che l'uomo è un mezzo perché lei possa dividersi in se stessa. In questo senso Lacan può dire che la donna è l'Altro assoluto, un Altro per se stessa. Un altro esempio si riferisce al caso di una donna il cui fantasma consisteva nel pensare che gli uomini con cui aveva una relazione, durante nell'atto sessuale erano posseduti da un altro uomo, e questo altro uomo faceva ciò che lei non poteva fare. In altre parole, in questa variante l'altra donna era incarnata dal proprio uomo in una condizione femminilizzata. Si osserva spesso, in una donna, il bisogno di relazionarsi con un uomo che porti qualche tratto di femminilità. In altri termini, la funzione dell'altra donna è una chiave che permette molteplici inflessioni e variazioni. Lacan ha detto, riguardo al luogo della donna, che nella nevrosi ossessiva la donna viene assunta come funzione della morte. In che modo possiamo rinnovare questa clinica? Si capisce in che senso la morte può occupare il posto dell'Altro, nella misura in cui è anche un Altro assoluto. Posso citare una frase che ho trovato, tra l'altro, nel lavoro di Jorge Forbes: "La morte è ciò che eccede le dimensioni della vita, è un eccesso.” Questo aiuta a capire bene in che senso la morte possa occupare il posto dell’Altro: la morte è sempre un'altra morte. Nell'isteria al soggetto interessa ciò che sfugge al conteggio, al numero, alla routine, al rituale. Nella nevrosi ossessiva, dal lato maschile – a prescindere da tutte le varianti che ci possono essere – il conteggio svolge un ruolo decisivo. Nell'isteria non si tratta di dominare il significante della numerazione, il numero. L’isterica mostra che non si tratta di contare le cose, mettendo ciascuna al proprio posto, ma della cosina che non è al suo posto. A volte il soggetto propone se stesso così, come non al proprio posto, con uno spostamento che può essere grande o piccolo, ma comunque fuori dal posto adeguato. Per il soggetto ossessivo, al contrario, non c’è nulla di più prezioso del significante del numero, del conteggio, del mettere le cose a posto. Essenzialmente si tratta di mettere al loro posto la donna e l'uomo. Le pratiche religiose aiutano in questo senso, come nel caso dell'Uomo dei topi, per il quale il topo e il denaro erano i significanti con cui contava il godimento. In questa opposizione tra isteria e ossessione si vede che l’isteria trova il proprio godimento quando c’è qualcosa di molto diverso, quando sta cercando un’Altra cosa, mentre l'ossessivo ha bisogno solo di se stesso. Nella nevrosi ossessiva, il benessere e il godimento di sé stanno uno accanto all’altro, e il conteggio del godimento fa un effetto di noia. In un'analisi, possiamo scegliere di lavorare sul lato ossessivo o su quello isterico. L’IPA ha scelto di ossessionare il desiderio, ossia di lavorare a partire dalla ritualizzazione. La pratica lacaniana è l’opposto: isterizza il soggetto. Ci sono tuttavia soggetti che non hanno bisogno di essere isterizzati, ma di lavorare a partire dal legame con l'Altro. Non bisogna lasciare il soggetto languire in un cantuccio, alla ricerca del significante importante per la sua vita. In questo modo si esaurisce, sia stanca il soggetto. Fa parte della pratica lacaniana credere nell'Altro, anche se l’Altro non esiste. Lo si vede nell'analisi dell'isteria, dove si tratta di ottenere una risposta dall'Altro, verificando che gli manca qualcosa. Questa è la chiave essenziale per comprendere come sia possibile che proprio ciò che è più desiderato possa essere al tempo stesso distrutto. Lo vediamo quando, spinto dall'interesse, il soggetto cerca l'Altro per scoprire quel che gli manca. Se l'Altro dimostra questa mancanza, va bene, ma se si presenta come completo, il soggetto isterico lo tratta con rabbia, cercando di aprire in lui un buco, per curarlo poi da questa ferita, la stessa causata dall’Altro isterico. A volte è necessario ferire l’Altro, preso come padrone, per poi poterlo curare. Grazie alla disposizione isterica il mondo ha conosciuto grandi imprese, per esempio tutto quel che riguarda l'assistenza sociale, come la cura dei diseredati, e questo è suscitato dal fascino per la disgrazia, per la mancanza nell’Altro. La preclusione generalizzata Per concludere, darò due brevi indicazioni su due punti. Il primo riguarda il concetto che ho sviluppato di preclusione generalizzata. Ho cioè preso la preclusione del Nome del Padre come un caso particolare di preclusione tra gli altri e dimostrato che in Lacan c’è anche, necessariamente, una preclusione del godimento. Se ci fosse il tempo di spiegare questo sviluppo, questo potrebbe essere una risposta ad Antonio Carlos Caires Araújo. Quando Lacan differenzia l'Altro godimento, quello che non ha significante, dicendo che la donna non esiste, possiamo capire che c'è una preclusione del significante della donna. In un certo senso l'intera specie umana è pazza, perché non ha la formula significante del rapporto sessuale. Negli anni Settanta Lacan ha scritto: "Tutti sono pazzi", al che molti hanno detto: "Lacan è invecchiato". Per me invece questa frase ha il suo senso: si tratta nella preclusione del significante della donna, riguarda la formula freudiana della preclusione, rinnovata da Lacan, che può essere generalizzata: ciò che non è inscritto nel simbolico riappare nel reale. Questo avviene andando dal simbolico al reale, una formula su cui ho lavorato quest’anno. Poiché nel pubblico ci sono persone davvero serie, che leggono Lacan, posso rimandarvi al suo articolo Risposta al commento di Jean Hyppolite,[2] in cui compare questa relazione: simbolico–––––––––––> reale e, in coincidenza, allucinazione –––––––––> acting out Cosa dice Lacan a proposito dell'acting out? Utilizza il termine retranchement ritaglio, espunzione,[3] applicandolo in quel momento alla preclusione, per designare il rifiuto o l’espunzione di una relazione anale primaria. Si tratta della preclusione di un godimento anale, e non della preclusione del significante del Nome-del-Padre. Una volta che ce ne siamo resi conto, possiamo rileggere il primo capitolo, così importante e poco letto, della Questione preliminare, relativo al caso della donna psicotica che sentiva la parola “Troia!" La chiave di questo passaggio, di cui ho parlato a lungo a Parigi, è la funzione della vicina di casa. Questa vicina incarna il godimento che viene a perturbare la paziente, e svolge quindi la funzione della cattiva vicina – nel senso in cui dell'amor cortese si parla della donna come del buon vicino, declinando il termine al maschile. In questo esempio c’è la cattiva vicina, e nel momento in cui il soggetto psicotico deve delimitare il godimento, la catena significante si spezza. È quel che abbiamo visto precedentemente: in ogni catena significante ci sono molteplici voci, con un passaggio dell’enunciazione dall’una all’altra: quando parlo ora, non sono lo stesso che parlava prima, anche se non essendo psicotico, essendo un po' più sciocco di uno psicotico, posso credere di essere sempre lo stesso. Lo psicotico ha un comportamento diverso per quanto riguarda la catena significante e la distribuzione dell'attribuzione soggettiva: quando nella catena compare il significante di quel che non può essere detto, la catena viene interrotta con una replica, e lo psicotico pensa di sentirlo dire da un altro reale. Nella nostra distribuzione dell'enunciazione c'è continuità, giacché pensiamo di essere sempre gli stessi quando parliamo. Per lo psicotico invece, la stessa struttura distributiva dell'enunciazione passa al reale, come se il detto venisse da fuori. Questa è l’analisi che Lacan fa nel primo capitolo della Questione preliminare, la cui logica mi aveva sorpreso. Per me, la novità del Congresso Internazionale di Buenos Aires sarebbe non solo tornare alla preclusione del Nome del Padre, ma lavorare su questo primo capitolo, soprattutto sulla fine di pagina 531 [Ecrits p. 535][4] e sulla conclusione del capitolo. L’ultima cosa che non posso non ricordare è che questa stessa formula è stata presa da Lacan come definizione del sintomo, e che è diversa da quella che ho usato in Sintomo e fantasma. Si tratta di una definizione del sintomo come modalità di godere dell'inconscio, nella misura in cui determina il soggetto. Questo è il punto a cui sono giunto dell'ultima parte del mio corso a Parigi quest’anno. Non è una conclusione, ma una pausa. Sono felice di lasciare le cose in questa sospensione, ma avendovi dato allo stesso tempo diverse indicazioni. E sono sicuro che alcuni, forse molti, potranno partecipare a questo lavoro, occupando il posto che è stato aperto. DIBATTITO Célio Garcia: Credo che questa mattina abbiamo potuto chiarire quel che è stato annunciato ieri in termini di modalizzazione. Quindi anche quel riquadro, la scatola dove si collocano le modalizzazioni del soggetto presenta la logica quando si tratta del soggetto dell'inconscio. Ricordo che nella quarta di copertina degli Scritti si dice che quando si parla di inconscio si tratta di logica pura, du logique pur, cosa che mi ha sempre colpito. Abbiamo visto qui un grande sforzo da parte di Jorge Forbes e del Prof. Newton da Costa per avvicinare l'inconscio alla logica. Chiedo se la logica modale sarebbe indicata per i due primi fattori: la valutazione clinica, e la localizzazione del soggetto, e se trattandosi di introduzione all'inconscio, la logica più adatta non sia quella modale, ma quella paraconsistente. J.-A.M.: Grazie per le sue parole. Come lei stesso dice, è necessario distinguere le due logiche. Mi sembra che le logiche paraconsistenti modifichino l’aspetto apofantico, perché riconoscono altri valori oltre al vero e al falso. Modificando l’apofantico possono quindi essere considerate come logiche modalizzate. Le logiche cosiddette modali tuttavia sono quelle che si occupano del necessario, del possibile, del contingente, senza intaccare la base apofantica. Riconoscono cioè il piano apofantico e vi aggiungono nuovi valori su un altro piano, mantenendo la base apofantica. Newton da Costa, logico di San Paolo, è la figura di riferimento mondiale per la logica paraconsistente. È difficile dare in breve un riferimento per la logica modale, e bisogna leggere molto per approfondirla: il trattato di Hughes-Cresswell[5] è il manuale più agevole sulla logica modale, non ho tuttavia trovato un modo per utilizzarlo in psicoanalisi. Lacan ha parlato delle modalità classiche, le ha utilizzate per parlare della funzione fallica, della necessità, della contingenza, e così via, con variazioni molto interessanti. Ha presentato il necessario come ciò che non cessa di scriversi. Sarebbe comunque troppo lungo sviluppare questo tema. Sarebbe interessante chiedere al nostro amico Newton da Costa cosa pensa del rapporto tra logica paraconsistente e logica modale. Luiz Henrique Vidigal: La differenza tra la preclusione del significante del Nome del Padre e preclusione del significante del godimento può essere utilizzata per una distinzione strutturale della psicosi e della perversione? In che misura la preclusione del significante del godimento può portare all'acting out e quella del Nome del Padre al delirio e alla psicosi? J.-A.M.: Ho parlato brevemente di questa questione, e sarebbe stato necessario approfondire, perché, da questo punto di vista, si apre un nuovo modo di parlare dell'esperienza, che è in Lacan, ma che non è stato osservato. Il punto di partenza di Lacan, per noi classico, pone l'Altro: l’eloquio, la parola orale, con l'assioma che c’è sempre un destinatario. La funzione della parola implica cioè l'Altro come assioma. L’Altro è dato, e a partire da questo cominciano le questioni. Negli ultimi anni del suo insegnamento però, Lacan ha problematizzato l'Altro, ne ha cambiando l’assiomatica. Quello che prima sembrava il reale è diventato il godimento, e questo implica che il godimento appartiene al reale. Se il godimento è del reale, è fondamentalmente dell’Uno. Ma se è fondamentalmente dell'Uno, che cos'è l'Altro? Come il godimento si lega all'Altro? Quel che a lungo Lacan ha considerato come un assioma: c'è l’Altro, si rovescia a un certo punto in: c'è il godimento, e se c’è godimento questo è proprio del corpo, nella misura in cui non si gode nel corpo dell’Altro, ma nel proprio. Se quindi c’è il godimento, che cos'è l'Altro? Come può il godimento accondiscendere a entrare in relazione con l'Altro? Per questo Lacan, durante tutto il suo insegnamento, ha sempre parlato di discorso dell'Altro, tenendo fermo che ogni discorso è discorso è dell'Altro. Nei suoi ultimi seminari però Lacan rifletteva su queste cose considerando che, in realtà, ogni discorso è un monologo. Ricordo quando ho sentito da lui questa frase. Ho pensato: "È cambiato qualcosa, perché abbiamo imparato che la parola sempre costituisce l'Altro". Questo è il cambiamento degli ultimi anni, anche se non credo sia stato sviluppato, perché la gente era affascinata dai nodi. La cosa più importante da capire è perché Lacan è arrivato ai nodi, che sono stati il modo per rovesciare completamente la sua assiomatica. Ciò non significa che si debba cancellare quel che c'era prima, ma Lacan ha mostrato che ci sono nuovi assiomi, che l'esistenza dell'Altro non va da sé. C’è un fondamentale autismo del godimento. Metterlo in relazione con l'Altro è un problema clinico essenziale. Non si tratta solo di dire: "il soggetto deve cedere qualcosa del proprio godimento, deve accettare di perderne una parte.” Al di là di questo c’è una tensione, un'antinomia tra il campo dell'Uno e il campo dell'Altro. Questo ci fa capire perché Lacan, negli ultimi anni, ripeteva: "C'è l’Uno”, con grande sorpresa di tutti coloro che, per vent’anni, lo hanno sentito dire: "C'è l'Altro". Il punto era mettere in risalto la solitudine del godimento, la solitudine pulsionale del godimento e la sua articolazione con l'amore, cosa, in certo qual modo, rimane ancora misteriosa. Antonio Beneti: La mia domanda riguarda la possibilità di un trattamento psicoanalitico della tossicomania. Lei ha detto che il trattamento psicoanalitico sarebbe impossibile per il vero perverso. Nel seminario Il desiderio e la sua interpretazione, Lacan parla della tossicomania come di una struttura borderline tra psicosi e perversione e, alla Giornate dell’Ercole freudienne del 1975, ha parlato della droga come di ciò che separa il bambino dal proprio pene, e da qui capiamo il successo della droga. J.-A.M.: In Francia, in effetti, si sta lavorando su questi temi. La sua seconda frase indica che il godimento del tossicomane non è un godimento fallico, che produce un Altro godimento artificiale, quel che una volta si chiamava paradisi artificiali. In questo modo uno psicotico, per il quale c’è preclusione della funzione fallica, può mantenersi con la droga, anche se sappiamo che ci sono alcolisti e tossicomani nevrotici. Non ricordo, al momento, che Lacan abbia detto che si tratta di una struttura borderline. La parola struttura in questo caso non va presa nel suo senso proprio, né consideriamo che la tossicomania sia una struttura clinica, come la nevrosi e la psicosi. Penso che sia una categoria in cui troviamo sia nevrotici sia psicotici. Non credo quindi che si debba introdurre nella clinica la categoria di borderline. Devo però riconoscere che non ho molta esperienza con i tossicomani. Nei primi mesi del 1988 organizzeremo a Parigi una Giornata sulle tossicomanie, dove potrò imparare da chi lavora con i tossicomani. José Alvim Ferreira Cândido: Ha posto la questione del godimento dell'Uno e del desiderio dell'Altro. Nel Seminario XX Lacan parla di un godimento particolare, quello dell'idiota nella masturbazione. Se ogni godimento è autistico, qual è la differenza tra il godimento dell'Uno e quello dell’Altro? J.-A.M.: Ho detto esattamente questo: bisogna problematizzare il modo in cui il godimento pulsionale, freudiano – che è sempre godimento dell’Uno a partire da un oggetto – entra in relazione con l'Altro. In sostanza, il godimento pulsionale ha un rapporto di causa ed effetto con l’oggetto, con ciò che Lacan chiamava oggetto. Come questo entra in relazione con l’Altro, poiché non si tratta di una persona, ma di un Altro che può incarnarsi in una persona? La cosa più semplice è pensare che l'oggetto sia dentro l'Altro. Questa è la formula della traslazione che Lacan ha dato riferendosi a Socrate e ad Alcibiade, dove Alcibiade paragona Socrate a un sileno. Si ha così la preziosa formula dell’agalma. Lacan ha lavorato molto sulla relazione dell'oggetto a con l'Altro, che non è semplicemente in termini di contenitore e contenuto, e che, per ragioni cliniche e logiche ben precise, si complica fino all’extimité. L'oggetto a non è dentro l’Altro, ma è il suo extime, quel che è nel più intimo essendo al tempo stesso esterno. Ma a un certo punto bisogna fare una scelta, e dire quale delle due è quella vera. Nell'insegnamento di Lacan, l'Altro esiste sempre meno, e l'oggetto sempre di più, finché il termine oggetto stesso, in quanto legato all'Altro, non sembra più adeguato. In quel momento comincia a parlare di godimento in quanto tale, e passa dalla logica alla topologia dei nodi. Questo è il riassunto di un cammino molto lungo che, in un certo senso, è il monologo di Lacan, che però tiene conto della clinica psicoanalitica nel modo più preciso. Traduzione di Micol Martinez
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