Jacques-Alain Miller Conferenza tenuta a San Paolo, il 18 ottobre 1981 Non si può dire che il desiderio dello psicotico sia semplice, grezzo. Come qualcuno ha detto questa mattina, questo desiderio lo si riconoscerebbe proprio dove, in un primo tempo, potrebbe venir separato dal desiderio grezzo. Leggendo Schreber, non possiamo assolutamente pensare a un desiderio grezzo. Semmai a un desiderio altamente sofisticato. Schreber è particolarmente legato all'immagine di se stesso come donna: è un assemblaggio che non dà l’idea di essere grezzo anzi, piuttosto complesso. Sto provando, con un lavoro piuttosto difficile, che faccio forse per me stesso, a rompere un po’ alla volta il sintagma cristallizzato dell'insegnamento di Lacan. Siccome questo insegnamento, nella sua articolazione, è difficile da comprendere, evidenziamo una sorta di presa d'insieme: la metafora paterna, il fallo come significante del desiderio, il godimento dell’Altro. Questi termini arrivano in blocco, e sono come segni di riconoscimento. Credo che sia necessario spezzare questi sintagmi, queste formule, e riscoprire la logica che li anima e che a volte dà origine a contraddizioni. Vi avevo segnalato questa mattina la duplice articolazione del desiderio: da una parte la dimensione immaginaria, in cui tutte le forme coinvolgono il narcisismo, e dall'altra quella simbolica, poiché è necessario tracciare un significante per spiegarne la permanenza. Questa duplice articolazione non impedisce che si possa poi isolare un "po’ di realtà”, caratteristica questa del desiderio dell'essere umano, a cui Lacan rimarrà fedele fino alla fine. Questo “po’ di realtà” è un’espressione surrealista di André Breton. Si tratta di un fenomeno che appare nell’immaginario e che indebolisce il desiderio, perché il desiderio risulta così ancorato più all'immagine che al corpo stesso. Il desiderio può infatti essere così intercettato con degli artifici. Per questo nella nostra cultura possono esserci cose come la moda, o come la pubblicità, che speculano sul “po’ di realtà” del desiderio, giacché bastano alcune parvenze ben posizionate per animarlo. Ciò è è possibile per via del “po’ di realtà" che il desiderio ha nell’immaginario. Nello stesso modo c’è un “po’ di realtà” nel simbolico, perché anche l'espressione "desiderio di riconoscimento" appare come un circolo, come un fenomeno di rimando infinito, che non trasmette niente di sostanziale, è qualcosa che rinvia continuamente, dove il desiderio rimanda al solo desiderio. È esattamente quel che dice la formula: "Il desiderio è il desiderio dell’Altro”.
Lacan non farà variazioni sul concetto di “po’ di realtà" del desiderio, espressione questa che permette di contrapporre desiderio e godimento. C'è un “un po’ di realtà" nel desiderio, ma lo stesso non si può dire del godimento. Lacan sottolinea chiaramente che nell'esperienza analitica lavoriamo solo con dei sostituti, con dei significanti che si sostituiscono l'uno all'altro e che si rimandano l'uno all'altro. Da qui nasce la definizione: un significante rimanda sempre a un altro significante. È una definizione circolare. Se nell'analisi, come esperienza significante, ci fosse una qualche sostanza, questa sarebbe il godimento, l'unica che il nodo del significante permette. Nel Discorso di Roma il sintomo è preso anzitutto come un'articolazione significante, così da far sembrare che una volta interpretato venga soppresso. È quel che avevamo visto con entusiasmo agli inizi della psicoanalisi. Allora l'analisi non durava come adesso: il paziente arrivava con un peso, con un sintomo enorme, e dopo qualche passeggiata in giardino con il dottor Freud ne usciva leggero come una piuma. A quel tempo, se avessimo fatto tre passeggiate con Freud avremmo potuto dire di aver fatto un’analisi. Poi, a partire da un certo momento, gli psicoanalisti si sono accorti che le cose non funzionavano più nello stesso modo. C’è stata allora una crisi che ha costretto gli psicoanalisti, finito il periodo miracoloso dell’interpretazione, a fare attenzione a qualcos’altro. Venne allora elaborata la teoria dell’aggressività, la seconda topica di Freud non venne compresa bene. Con il tempo il sintomo era diventato più resistente e si presumeva quindi che il soggetto ne traesse soddisfacimento, cioè che ricavasse un godimento dal sintomo. Ciò giustificava il fatto che il sintomo fosse così resistente e che non ce ne si liberasse così facilmente come si pensava. Il godimento è come una zavorra per questo nodo di significanti. Se ci riferiamo solo alla caratteristica evanescenza del desiderio, o al suo carattere di mancanza, non possiamo dedurre il posto prevalente del fallo nel desiderio, né percepire che l’Altro maiuscolo è la madre e che il suo desiderio è la funzione dominante. Li ritroviamo da un altro lato, poiché a dominare la questione è il fallo materno, che non esiste. A partire da qui, siamo in grado di rispettare il legame tra desiderio e mancanza. Quando Lacan è passato dalle leggi della parola a quelle del linguaggio, affidandosi alla metafora e alla metonimia al seguito di Jakobson, ha trovato una soluzione rispetto ad alcuni interrogativi. Come dice ne L'istanza della lettera, per una filosofia naturale il desiderio presenta degli enigmi, perché nella specie umana non trova la propria strada in un modo regolato dalla natura. La soluzione proposta da Lacan ne L'istanza della lettera è di collegarlo alla metonimia, considerando il desiderio freudiano semplicemente come un rimando indefinito che nel linguaggio va da un termine all’altro. Lacan ha cominciato a rendersi conto, in effetti, che nessun significato umano potrebbe essere colto senza rimandare a un altro. In altre parole: non c'è significante che non rimandi a un altro. L'esempio che uso spesso, perché su questo punto è chiaro, è quello del logico che dice: qual è la risposta quando ci viene posta una domanda sul termine A? Quando ci chiediamo cos'è A, la risposta è sempre: è una B, perché A, un termine, non può essere definito se non con un’altro termine. Questo è il valore del rimando, che costituisce la legge stessa del linguaggio. La soluzione di Lacan per il desiderio è dire che esso è semplicemente l'investitura, l'effetto di questo valore di rimando. In altre parole, il desiderio è ciò che sta tra un significante e l'altro, non si ferma mai su uno, ma viene preso nel rimando indefinito dei significanti. Il desiderio è ciò che viene veicolato sotto la catena significante, che si dispiega sopra barra. Dopo aver passato dieci anni per dare in sintesi la catena significante, Lacan l’ha condensata nella formula di un significante S1 che rimanda a un altro significante S2. Evidentemente il significante S1 può essere un tutto un insieme di significanti, può coinvolgere un intero discorso. È il modo più semplice di scrivere il valore rimando. Ne L’istanza della lettera Lacan aveva presentato il problema in altra maniera, anteponendo il termine "funzione", ma in seguito ha semplificato la scrittura nel modo che vi ho detto. Il desiderio appare come effetto dell'articolazione significante, dove uno rimanda a un altro, e appare come effetto del significato di questa catena, per cui il senso nel linguaggio diventa sempre scivoloso, sempre rimandato a un passo ulteriore. In realtà si capisce sempre après-coup, questo fa parte dell’insegnamento di Lacan: bisogna abituarsi ad acquisire fiducia nel fatto che si capirà poi, sulla via del ritorno. Occorre proseguire senza la necessità di capire quanto si è detto, fino a quando non si trovi un significante che lo chiarisca. È lo schema di Lacan: si produce un significante – indicato con s(A), significato dell’Altro – che determina un altro uso dello stesso schema che abbiamo appena visto. Il significato si produce come effetto di après-coup. Bisogna fidarsi perché sia possibile insegnarci qualcosa, anche se non bisogna fidarsi troppo. Spesso ci fidiamo a tal punto che gli insegnanti non hanno bisogno di sapere nulla. Basta che rimangano al posto giusto perché noi ci lasciamo trascinare dalla posizione che occupano. Anche quando li interroghiamo, c’è una fiducia incredibile, perché presumiamo che il posto in cui sono debba implicare altri doveri oltre a quello di rimanervi per tutto l'anno scolastico. Quando qualcuno sa troppo risulta fastidioso. Quanti entrano nelle società analitiche si rendono presto conto che la maggior parte delle persone con il sapere non se la cava molto meglio di come facciano loro, e che i più audaci sono proprio quelli che insegnano. È comunque già meglio rispetto alla formula strettamente gerarchica. C’è un'altra formula che funziona su uno sfondo d’ignoranza, almeno nell'insegnamento più liberale. Si tratta di quella dei gruppi – d’ispirazione lacaniana – nella quale c'è un margine perché qualcosa accada. Questa formula non è proprio come quella di Lacan, ma è abbastanza vicina, ed è un matema davvero elementare: pone il desiderio come desiderio sempre di qualcos'altro, poiché non esiste un significante unico che possa identificarlo. Il desiderio è spinto sempre un po' più in là. Lacan lo esprime dicendo che il desiderio è preso nella metonimia, cioè nel rimando. È stata molto popolare l'idea del desiderio lacaniano come inafferrabile, sempre tra due, che sbuca dove non ce lo si aspetta, e che non potremo mai cogliere. Anche se appare per un istante, subito scompare, e di fatto prosegue solo il suo cammino, senza incontrare limiti, almeno in apparenza. Lo schema elaborato da Lacan è il seguente: il desiderio, che è inafferrabile, sorge per effetto della domanda significante. Da qui il consiglio agli analisti, che è stato tanto frainteso: “Non rispondere alla domanda, perché il desiderio possa liberarsi. Non fissare la domanda al significante che lo propone, e lasciarlo vagare”. Il sintomo appare come una fissazione significante del desiderio, come se il movimento di rimando potesse essere fermato fissandosi a un significante. Nel sintomo il desiderio appare come prigioniero, e da qui nasce l'idea che lo si dovrebbe liberare. È qui che il fallo assume la sua funzione. Come si introduce allora qui il fallo? Non è scontato: il modo più semplice per capirlo è partire dalla metafora paterna che, proprio in quanto metafora, è un sintomo. L'ho detto a Buenos Aires e sono rimasti tutti un po' sorpresi. Lacan ha detto, in questo stesso testo: "Il sintomo ha un struttura di metafora". E in un altro testo, parlando della metafora paterna, ha articolato queste due definizioni, rendendosi conto che ciò significa che la metafora paterna è un sintomo normale. Questo appare chiaro quando dice, negli anni Settanta: “Alla fin fine il Nome-del-Padre è un sintomo". Ne è nato un trambusto generale: quanti pensavano di praticare con la garanzia del Nome-del-Padre si sono accorti di utilizzare un sintomo senza saperlo. Non c'era motivo di agitarsi: lo stesso Lacan era rimasto stupito di articolare in altro modo un termine che era sempre stato nel suo insegnamento. Cosa succede se seguiamo questa strada? Il Nome-del-Padre metaforizza il significante, l'assenza della madre è scritta a partire dal suo Desiderio, e l'effetto è semplicemente un significato che rimanda a un altro. La x trova il suo significato assoluto, che è fallico. Che cosa vuol dire? In un certo senso è ciò che si produce ogni volta che c'è una metafora: ogni metafora è metafora del fallo. Anche se, come formula, può sembrarci piuttosto audace, è quanto Lacan dice nel famoso testo degli Scritti, "Il significato del fallo”. Qual è il significato del fallo? Di fatto è uno solo, se non siamo in un rimando indefinito. Cos'è una A? È una B. Cos'è una B? È una C. Cos'è una C? È una D. O siamo nella dimensione metonimica del rimando infinito dei significati, oppure nella metafora, quando sorge un senso – come avviene nel gioco di parole o nel lapsus – si ha l'impressione che per una volta il linguaggio lì dica la verità. Proprio perché la dice a lato. Ecco il principio dell'interpretazione analitica: dire un po’ a lato, per essere dove è necessario. È ciò che Lacan chiama il midire, il dire a metà. Se si dice tutto, si sbaglia, mentre al contrario, se si sbaglia un po', si ha la possibilità di dire bene. Ogni volta che si isola un significante, lo si può interpretare partendo dal fallo. Questo è il miracolo della psicoanalisi, di cui non si deve abusare: poter interpretare a partire dal fallo. È ciò che le dà l'apparenza di pansessualismo. Tuttavia non è affatto pansessualismo, ma produzione invariabile di significato fallico. In ogni metafora, in ogni lapsus, in ogni gioco di parole, in ogni deviazione dal sentiero della metonimia, il fallo emerge come significato assoluto. Schopenhauer lo sapeva a modo suo, infatti, in una pagina ammirevole mostra che tutte le attività umane possono essere comprese a partire da ciò che chiama desiderio sessuale. Questo, di passaggio, solleva, una breve questione rispetto all'interpretazione analitica. L'interpretazione analitica funziona ma, spesso, partendo dal Nome-del-Padre, al di là di questo non si immagina nulla. Essa mira a produrre indefinitamente il significato del fallo, il che è piuttosto inquietante, perché in tal modo costituisce un sintomo e rafforza la funzione fallica. Lacan pensa la funzione fallica in relazione al godimento, ma questo non significa che il godimento vi si riduca. Qui nasce la domanda: l'interpretazione analitica deve essere pensata partendo dalla metafora o dalla metonimia? Abbiamo qui un'opposizione molto semplice. La costruzione che farò qui andrà in direzione di un’interpretazione metonimica e non metaforica. Si tratta cioè di reindirizzare il soggetto lungo le vie della metonimia, senza fissarlo sul sintomo analitico. Melanie Klein, che aderisce al Nome-del-Padre e cerca di far emergere il significato fallico con effetti regolatori, interpreta così. Lacan, invece, mette in evidenza il dire a metà della verità. Credo che esprimendosi in questo modo dica proprio che è necessario interpretare dal punto di vista della metonimia, anche se alcuni sostengono che questo prolunghi il tempo della psicoanalisi. Da questa situazione del desiderio – collegato più a un altro significante che all'Altro in quanto tale, o legato all'Altro maiuscolo solo dal tratto del rimando a un altro significante – consegue che non vediamo chiaramente cosa potrebbe voler dire il riconoscimento del desiderio. Credo che il riconoscimento del desiderio ci sarebbe quando finalmente il desiderio trovasse il proprio significante. In questo modo il punto a cui Lacan arriva ne L'istanza della lettera, lungo la linea che ha seguito, entra in conflitto con tutta la sua elaborazione iniziale. Questa pagina degli Scritti mi è saltata agli occhi come una svolta assolutamente capitale nell'opera di Lacan. E viene da chiedersi come mai non l’avessi sottolineata appena letta. A Buenos Aires l’ho vagamente evocata ma non l'ho ritrovata. Ora, però, ve la propongo: è a pagina 623 degli Scritti ed è ne "La direzione della cura”. Ve lo leggo: "Il senso del sogno preesiste alla sua lettura, come alla scienza della sua decifrazione. L'una e l'altro dimostrano che il sogno è fatto per il riconoscimento…,” – notate bene questa frase: il sogno è fatto per il riconoscimento – “ma la nostra voce non ce la fa a terminare: del desiderio. Giacché il desiderio, se Freud dice il vero dell'inconscio e se l'analisi è necessaria, si coglie solo nell’interpretazione. Ma riprendiamo. L’elaborazione del sogno è nutrita dal desiderio: ma perché la nostra voce viene meno nel terminare: di riconoscimento?, come se si spegnesse la seconda parola, poco fa la prima, che riassorbiva l'altra nella sua luce” (Ecrits, p. 623, Scritti p. 619). È un passaggio estremamente articolato, ma cosa ci dice? Non mi soffermo sul contesto preciso del paragrafo: comincio con l'ammettere che il sogno è fatto per il riconoscimento, e poi non oso dire desiderio, non posso dire di più. Lo consideriamo molto bello, molto drammatico: "La nostra voce non ce la fa a terminare: del desiderio". Per altro verso dice: l'elaborazione è nutrita dal desiderio, e non posso scrivere più oltre: il desiderio di riconoscimento. “La nostra voce viene meno nel terminare: di riconoscimento” Lacan presenta questo istante come un momento di fading della sua voce di oratore, è il momento in cui rifiuta cinque o sei anni della sua elaborazione sul desiderio. Abbandona contemporaneamente l'idea del riconoscimento del desiderio e del desiderio di riconoscimento e lo fa in modo molto convincente, senza dire che sta negando, mettendo in discussione tutta una parte della sua elaborazione precedente. Non è dormendo che ci facciamo riconoscere. Da lì si percepisce che nel 1958 – questa è la data – mette in discussione tutta la sua elaborazione del Discorso di Roma del 1953, ma anche il periodo precedente, da quando era hegeliano e ha cominciato a sostenere queste tesi nel 1936, a partire da Lo stadio dello specchio. È un passaggio essenziale del suo insegnamento, che non è mai stato isolato in quanto tale. Una volta capito questo passaggio ne consegue che è possibile confermarlo con tutto quel che si può leggere sul tema, cioè, per esempio, con quanto Lacan aveva detto prima: farlo ritrovare come desiderante è l'opposto di farlo riconoscere come soggetto. L'idea di un soggetto del desiderio quindi vacilla. Lungi dal fatto che il soggetto possa reintegrare il proprio desiderio, come implicava l'idea di riconoscimento del desiderio e del desiderio di riconoscimento. Il soggetto appare allora come irrimediabilmente separato dal proprio desiderio. Lacan ha l'idea clinica che il soggetto non potrà mai realizzare la propria identità di soggetto come desiderante. Da quel momento effettivamente mette in discussione la sua filosofia hegeliana. Lascia da parte la filosofia e solo a cominciare da lì dà senso alla ricerca di $; la barra indica il soggetto che non può più essere riconosciuto. Il problema non è più il riconoscimento dell'identità del soggetto attraverso la mediazione dell'Altro, tutto questo è andato perduto. E $ viene al posto di cosa? Dell'idea che il soggetto potrebbe raggiungere la propria equazione, ritrovare la famosa identità attraverso la via dell’Altro. Qui Lacan pone il limite strutturale a questa utopia del riconoscimento. Non si potrà più parlare della comunità umana e della sua armonia, della sua partecipazione a una vasta storia comune. Non si potrà più dire che l'esperienza analitica è solo intersoggettiva e che mira a riconciliare il soggetto con il senso della sua storia. Da questo momento c'è qualcosa che separa irrimediabilmente il desiderio dalla sua completa assunzione nella parola. È a questo punto che si costituisce il Lacan che conosciamo: il soggetto è celato nel desiderio. La conseguenza è che il soggetto non ha un desiderio che può essere riconosciuto, ma che deve essere interpretato, e questo non costituisce una riconciliazione del soggetto con il proprio desiderio. C'è uno iato tra questo desiderio e il desiderio del sogno che non può essere colmato. Il soggetto dice “io", e nessun soggetto potrà mai essere uguale a questo "io" nel suo desiderio. Lacan scrive nello stesso testo, a pagina 634 dell’edizione francese (Scritti p. 630), questa frase: “Soltanto da una parola che levasse il marchio che il soggetto riceve dalle proprie parole, potrebbe essere ricevuta quell’assoluzione che lo renderebbe al suo desiderio”. Questo si rivolge alla sua teoria precedente, poiché Lacan sognava una psicoanalisi che fosse riconciliazione, piena assunzione del desiderio, avvento di una parola piena. A partire da questa data definisce invece il desiderio come l'impossibilità della parola di restituire al soggetto il proprio desiderio, e si sposta dalla sua posizione di partenza quando formula che il desiderio è incompatibile con la parola. A pagina 641 (Scritti p. 637) non è il Lacan che dimentica: “Che, non essendo posto alcun ostacolo alla confessione del desiderio, è in questa direzione che il soggetto è diretto e perfino canalizzato. Che la resistenza a questa confessione, in ultima analisi, può attenere esclusivamente all'incompatibilità del desiderio con la parola”. Questa incompatibilità non vuol dire che il desiderio sia puramente e semplicemente ineffabile, fatto di una sostanza ineffabile. Vuol dire piuttosto che, in ultima istanza, tutto quel che si articola dipende da quel che si articola nella parola, ma che il desiderio in sé non è articolabile, perché è un effetto, un rifiuto, una derivazione della catena significante. Da qui l'espressione di Lacan "Il desiderio è articolato, e proprio per questo non è articolabile” (Ecrits p. 804, Scritti p. 807). È articolato nel senso che dipende dall'articolazione significante ma, allo stesso tempo, in sé non è articolabile. Questo non costituisce un ineffabile sostanziale, ma il muro invisibile che separa il soggetto dal proprio desiderio. Da qui in poi Lacan non ha più formulato la fine dell'analisi in termini di riconoscimento. La passe – che dà da pensare perché è la promessa di sapere cos’è un analista – l'idea della passe in Lacan, l'idea che un'esperienza analitica compiuta possa raggiungere tale momento di passaggio, regge a condizione che la fine dell'analisi non sia postulata come riconoscimento del desiderio. Questa idea presuppone che l'unica consistenza attinente al desiderio non venga dal significante, dove il soggetto può riconoscersi desiderante, ma che si articoli con il fantasma – che non ho ancora avuto il tempo di sviluppare e che non so se un giorno svilupperò, perché ci sono altre cose più urgenti. Da quel momento in poi, non si è più parlato più di riconoscimento del desiderio alla fine dell'analisi, ma di traversata del fantasma. Nel 1958 le cose sono così definite: il desiderio non trova una soluzione sul piano del significante, non c'è soluzione del desiderio attraverso il significante, la soluzione del desiderio è fantasmatica, e non passa per nessun riconoscimento, è un processo diverso. È così diverso che per Lacan l'analista non dovrebbe essere riconosciuto come tale dai suoi pari. La questione posta qui, nel 1958, è alla radice di quel che Lacan ha potuto sostenere affermando che, strutturalmente, l'analista si autorizza da sé. Non si autorizza a partire da nessun riconoscimento, come implicava l'idea precedente. Acquisire una posizione istituzionale, essere analista, dipendeva dall'essere riconosciuto da un altro analista, il proprio. È la classica posizione che per un certo tempo Lacan ha adottato, come tutti. Anche nel 1953, quando Serge Leclaire, dopo il Discorso di Roma, fece il suo intervento, Lacan rispose magnificamente: “Lei è un analista." A questo conduce il registro del riconoscimento. L'articolazione del desiderio con il fantasma presuppone introdurre una posizione dell'analista completamente diversa. C'è qui un cortocircuito che mostra come le questioni astratte abbiano un punto di applicazione immediato e assoluto, come mostra il ruolo che hanno in questa breve storia. Molti dei presenti sono passati attraverso il riconoscimento dell’Internazionale, e hanno l'idea che l'essenziale della psicoanalisi non passi attraverso un tamponamento significante. Ed è questo a render necessario il fatto che ci siano incomprensioni tra di noi: non siamo dalla stessa parte riguardo all'istanza Internazionale. Tra loro, quelli dell’Internazionale, non ci sono malintesi, si capiscono tutti benissimo, sanno cosa custodiscono. Visto che non posso spingermi in là quanto vorrei, mi fermo qui, così possiamo dialogare un po’. Dibattito Domanda: Poniamo che un paziente psicotico chiamato B. pensi di essere Roberto Carlos – famoso cantante brasiliano che usa un dispositivo ortopedico. Dichiara: “Io sono Roberto Carlos”, ma dice “Sono Roberto Carlos, senza la gamba di legno”. Durante il trattamento cambia: “Sono il paziente del dottor H., non sono più Roberto Carlos, mi sono trasformato in B.”. Questo paziente secondo me presenta un problema, riscontro molte difficoltà teoriche. La ascoltavo parlare della metafora paterna, del Nome-del-Padre e dell’identificazione primaria con il padre, secondo Freud precedente a qualunque relazione con l’oggetto. Mi piacerebbe che mi spiegasse se pensa che il sintomo sia in relazione con questa megalomania. J.-A.M.: Megalomania e sintomo rivelano una struttura del tutto diversa. Non ho capito bene il caso del tuo paziente, può dirmi di più? Ha richiesto l'analisi come se fosse Roberto Carlos? D: È un paziente ricoverato in ospedale, stava cercando un analista e mi ha detto: "Sto cercando qualcuno”. J.-A.M.: Stava cercando un analista pensandosi Roberto Carlos? O si considerava così prima della terapia? D: Prima. Ho scritto il mio nome, Hugo, sulla lavagna dove c'erano i nomi dei pazienti, con i nomi dei terapeuti scritti sopra di essi. Ho scritto il suo nome sotto il mio e gli ho detto: "Se stai cercando qualcuno, posso lavorare con te". Ha cominciato a piangere e ha iniziato la cura, ed è stato lì che mi ha detto di essere Roberto Carlos. Mi ha detto: "Sono Roberto Carlos, ma senza la gamba di legno". J.-A.M.: Lei ha scritto il suo nome come Nome-del-Padre? D: Ho scritto il mio nome, dr. Hugo, come tutti gli altri che erano scritti sulla lavagna. J.-A.M.: Lì lei ha fatto un brutale innesto del sintomo. È necessario differenziare l'identificazione primaria di Freud dalla metafora paterna, non sono affatto sullo stesso piano. La prima identificazione che Freud distingue, e che sembra misteriosa alla fine non ha nessun rapporto diretto con quella metafora, che è la metafora edipica stessa, per come la trascrive Lacan. Non ho parlato di identificazione primaria nella mia lezione – l'ha menzionata lei – ed è importante distinguere il piano su cui possiamo trovare il senso dell'identificazione primaria in Freud e quello della metafora paterna. Il soggetto non deve in alcun modo identificarsi con il Nome-del-Padre, nessuno deve, nemmeno il padre stesso. Il soggetto è supposto in questa metafora. È necessario trovare il significante da cui partire per ordinare il suo mondo, il che è abbastanza equivoco nella formula di Lacan. Questa formula, prima dell'intervento del Nome-del-Padre, mette a confronto il desiderio della madre con la x del soggetto. Cosa significa questo nella costruzione di Lacan? Vuol dire che il desiderio della madre in quanto tale, senza la legge del significante, va e viene e non è dedita esclusivamente al figlio, e questo apre in lui uno iato. La madre quindi viene chiamata perché non è sempre con lui. In questo senso, la posizione del bambino rispetto al desiderio risulta instabile. È necessario allora che questa posizione si stabilizzi, che intervenga un elemento transfenomenico per fissare il desiderio della madre permettendo al soggetto di distinguersi, di fissarsi, di disidentificarsi dal desiderio della madre. Lacan ha chiamato fallo l’elemento che permette di disidentificarsi dal desiderio della madre. Il modo in cui ha usato questo termine nella frase, ancora equivoca, presente nel suo testo sulla psicosi, permette al soggetto di inscriversi sotto il significante del fallo*. È però un'espressione equivoca perché suggerisce che il soggetto trovi la propria identità come fallo, ma non è propriamente questo che intende. Ecco perché non è una frase soddisfacente per lo stesso Lacan, ma propone questa costruzione per risolvere la questione di quella x, dell’identità del soggetto. Non è più il riconoscimento del soggetto del desiderio nel circuito che ho appena descritto: si suppone che questa costruzione stabilisca il matema dell’Edipo. L'identificazione primaria di Freud è un’altra cosa: implica, in modo molto misterioso, un rapporto primordiale con il padre, indipendentemente da tutto ciò che sono l’Edipo, lo sviluppo, e così via. Può essere interpretata in due modi. Può costituire, per esempio, la prova necessaria per interpretare Freud in termini evolutivi. In breve, questo Nome-del-Padre è sempre stato dove lo abbiamo posto, fin dall'inizio. Ma ciò non rende conto di quel che Freud aveva colto: il rapporto di incorporazione con il padre. Cos'è il padre come oggetto? È molto diverso dal padre come significante perché qui c'è un nome, quello del padre. Sarebbe importante continuare con questa discussione, ma forse ci sono altre questioni. D: La mia domanda è se il Nome-del-Padre, la madre nella funzione materna, comprenda la metafora usata da Freud dell'identificazione con il padre, come se il padre fosse inscritto nella madre, nella funzione materna non ancora significata. J.-A.M.: Ci sono altre domande o osservazioni relative a questo problema che sarà l'argomento che affronteremo domani? D: Insistendo sul tema della psicosi, vorrei chiederle quale debba essere la posizione dell'analista nella clinica dello psicotico. Voglio sapere anche cosa ne pensa del testo Conferenza a Caracas, in cui parla della posizione dell'analista e della passività. Vorrei che lei definisse la posizione che ha preso nell'articolo Tutti lacaniani. Quale sarebbe la posizione dell'analista rispetto allo psicotico? J.-A.M.: Colpisce che sia proprio quel che si trova al limite dell’analisi ad appassionare. Consideriamo ciò di cui sto parlando: il limite dell'interpretazione. È la prova che l'interpretazione nello psicotico non va da nessuna parte, non gli dice nulla. Lui la fa meglio di noi, poiché si tratta del suo sintomo, e interpretarlo vorrebbe dire disconnetterlo da essa. Lo psicotico delirante a causa dell’interpretazione, sa farla molto meglio dell'analista, e se l'analista la ricolloca, l'unica cosa che ottiene è che il delirio dello psicotico ricada su di lui. Quale posizione si propone? In linea di principio, la posizione del padrone, di dominio. Molto di quel che impariamo dalla terapia delle psicosi consiste nel portarci a dare il significante padrone. È l'inizio, il punto di partenza. Quando lo rinchiudiamo, lo togliamo dalla circolazione, sono gli psicotici stessi a volerlo fare, a mettersi al riparo del significante padrone. Il padrone moderno può assumere forme molto sofisticate, può anche dire: "Sì, siamo tutti amici". Crea un club, non usa più le frustate, ma intanto può dominare con i farmaci. Così, permette che si giochi a bridge, che si costruisca, fa lavorare lo psicotico o lo lascia stare in giardino, non cambia molto. Nell’ospedale psichiatrico cambiano i nomi ma non il lavoro: si lascia sempre che gli psicotici abbiano da fare i loro “lavoretti”. Nei vecchi ospedali psichiatrici, delle specie di fortezze, c'era una grande familiarità. Oggi si fa in forma di “amico-amico". Sapete che è così perché il padrone moderno è diventato molto sofisticato, e con sempre maggior frequenza si va avanti facendo l'elettroshock. Come nella famosa Clinica di La Borde, quella di Jean Oury e di Felix Guattari, dove in facciata tutto è condiviso con gli psicotici, e dietro le quinte si continua con l'elettroshock. Ecco il significante padrone che opera nella psicosi. Ma lo si può far funzionare in modo più sottile, come fa Melanie Klein, che cerca di portare il piccolo Dick fuori dal suo mondo selvaggio. C'è tuttavia un'altra posizione oltre a quella della forza, ed è un posizione eroica. Abbiamo l'esempio di due persone che hanno parlato di bambini psicotici in un modo del tutto nuovo. Nel lavoro sulla clinica psicoanalitica del bambino psicotico, l'opera più importante degli ultimi quindici anni, uscita l'anno scorso, è la Nascita dell’Altro, di Rosine e Robert Lefort. Lo scorso agosto sono andati a Rio de Janeiro, perché l'anno prossimo pubblicheranno il seguito. Si tratta di casi di bambini molto piccoli, che ancora non parlano, e che Rosine Lefort ha avuto in analisi – lei la considera analisi –con la supervisione di Lacan, dodici o quindici anni fa. Allora i Lefort erano entrambi nella Sezione Clinica, e ho avuto l'opportunità di conoscere il loro modo di vedere le cose. Nel libro si sviluppa una posizione, quella di Rosine Lefort, opposta a quella di Melanie Klein – che è quella del padrone – che consiste nell’offrirsi come oggetto, offrire il proprio corpo come oggetto a, avvicinandosi così alla struttura del discorso analitico di Lacan. È una posizione eroica perché i bambini sono difficili, e questo implica una sorta di posizione masochista, nel senso che la posizione analitica, come dice Lacan, ha qualche analogia con la posizione masochista che si incontra nella realtà. È la posizione di tutti coloro che si occupano di bambini psicotici, e che in questa relazione pagano con se stessi. Sono questi i due versanti essenziali nel trattamento: offrirsi come significante padrone o come oggetto. Quest'ultimo caso è analogo al discorso analitico, ma non funziona in tutte le situazioni. Rosine Lefort non lo nasconde. Difficile dire di più perché, se Lacan riteneva di non avere esperienza in materia, non mi sento in grado di inventar cose, nonostante i miei sforzi per tentare di accontentarvi. D: Dato che ha aperto uno spazio per suggerire argomenti per la prossima volta, mi piacerebbe sentirla parlare di punteggiatura, poiché qualcosa mi ha infastidito in uno degli ultimi numeri di Le Nouvel Observateur, in cui c’era un’intervista di Francoise Dolto. La Dolto ha parlato di sedute brevi e lunghe, e ha detto che gli analisti, analizzati da Lacan, non fanno uso di punteggiatura. Per quanto le sue parole non mi abbiano colpito, vorrei che dicesse qualcosa a proposito di questo aspetto, perché la cosa terribile è che in Brasile le persone forse evitano l'analista lacaniano per paura della mancanza di punteggiatura. J.-A.M.: Di fatto le sedute standard, secondo l’Internazionale, obbediscono alle leggi del mercato: la forza lavoro dell’analista è pagata in proporzione al tempo. Si teme di perdere questa protezione e che la psicoanalisi sfugga alle leggi del mercato. Ma è proprio di questo che si tratta, di sfuggirvi. Che è anche la condizione perché emerga il godimento. Il modo più semplice in cui Lacan situa il godimento è di porlo come l’opposto di tutto ciò che è utile. C'è in esso qualcosa che sembra non servire a niente. Per questo Lacan ha parlato di plus-godere, basandosi sul modello del plusvalore. Ciò che abbiamo come godimento è quel che ci rimane dopo aver fatto lo scambio: scambiamo il nostro godimento con quello del significante. Dobbiamo riuscire a trascendere l'economia di mercato, è l'obiettivo della psicoanalisi, e Lacan lo ha portato all'estremo. Non tutti possono spingersi a tanto, e lui non ha chiesto a nessuno di farlo. Ma, alla fine, bisogna vedere che cosa implica la posizione dell'analista, essendo egli stesso sottomesso a un Altro. È la morale internazionale dello psicoanalista. In fondo, l'Internazionale, l'IPA, fa esistere l'Altro dell'Altro, e quindi muove la falla del desiderio. Non è così però che la farà scomparire, con il suo preciso modo di selezionare i candidati, che preferiscono incontrarsi in modo professionale. Continuano così a far congressi più tranquilli di quelli che facciamo noi, perché noi diamo posto agli isterici. È andata così a Buenos Aires, quando abbiamo reso omaggio a Lacan: dopo aver preso la parola, con una sala completamente piena, abbiamo visto fiorire il discorso isterico. Dobbiamo farci carico delle conseguenze: è meglio convocare milleduecento persone che si contenderanno il posto come star, alcune delle quali isteriche, piuttosto che tenere seminari tra venti persone ossessive che non si aspettano niente dalla vita. È essenziale che la durata delle sedute non obbedisca a uno standard, e questo comporta dei rischi, che sono comunque minori delle conseguenze generate dallo standard. Quando dico che nell'IPA sono ossessivi, ripeto solo le loro lamentele nei confronti del tipo medio che cade nelle loro reti e che li strazia di noia. Cominciano a cercare oggetti lacaniani per distrarsi. D: Il tema qui è la psicosi. La mia pratica mi mette a contatto con gli psicotici, vorrei quindi fare alcune domande. Lacan diceva che la psicosi è la clinica degli effetti del reale, che è la condizione o registro, tra i tre – simbolico, reale e immaginario – che metterà un certo ordine nel simbolico e nell'immaginario. Perché non hai mai parlato del reale? Non l'ha affrontato in modo specifico? Quando Freud ha scritto L'uomo dei lupi, lo ha fatto per dimostrare che ogni nevrosi adulta appare come funzione di una nevrosi infantile. Mi chiedo se possa essere lo stesso con la psicosi adulta: sarebbe anch’essa preceduta da una nevrosi infantile? Cos'è che porta all'insorgenza della psicosi? Qual è il rapporto, non della psicoanalisi, ma della psicoterapia con l'uso di neurolettici o farmaci psicotropi nel trattamento della psicosi? J-A.M.: Quella da cui parte non è un'esperienza di analisi, come lei ha ben rilevato. Perché si parla tanto di psicoterapia delle psicosi? Solo perché è poco importante. Quando i neurolettici non erano disponibili e non c’era una “camicia di forza chimica”, il dialogo con lo psicotico si limitava all'osservazione clinica. A partire dal momento in cui il paziente ha potuto essere controllato con i farmaci, si è presentata la possibilità di dialogare con lui, dicendo però che questo non aveva importanza. In realtà, il blablabla – parola inventata in francese da Le Canard Enchaine – svolge il ruolo di accompagnamento del farmaco, e posso dire che l'efficacia essenziale e determinante, che determina in questo caso la trasformazione, è quell'interessante oggetto scientifico che è il farmaco, e in tal senso cercheranno di farlo sempre meglio. I biologi molecolari sperano di trovare armi ancora più precise dei farmaci, con effetti globali. Come si rapporta la psicoanalisi a questo? Viene spesso confusa con la psicoterapia, ma bisogna distinguerle. Non è dimostrato che possa rispondere a tutte le domande, perché anche la donna più bella del mondo può dare solo quello che ha, e la psicoanalisi è ben lungi dall'essere la donna più bella del mondo. Sull’esordio della psicosi, in realtà, la psicoanalisi ha portato qualche luce luce, anche se non chimica. Lacan ha elaborato formule precise per determinare l’insorgenza della psicosi nel caso Schreber. Ha parlato di irruzione nel reale nel momento in cui il soggetto si trova in una posizione di rivalità immaginaria. Ha definito un certo numero di congiunture tipiche da cui insorgono le psicosi, nel momento in cui, per esempio, vengono meno certi sostegni immaginari che permettevano di sigillare la mancanza di significante. E, allo stesso tempo, viene una chiamata dal reale per rispondere alla quale è necessario avere a disposizione il Nome-del-Padre e il significato fallico. Non posso ricostruire l'articolazione che c'è lì, la psicoanalisi può rispondere in questo modo. La psicoanalisi può mostrare allo psichiatra quanto sia importante, nella diagnosi stessa di psicosi, rendersi conto che è necessario parlare con il paziente per sapere con precisione l’inizio della sua malattia. Lacan ha cercato il punto di certezza che il soggetto ha dell'istante dell'esordio e, in generale, il momento in cui la certezza si è cristallizzata non è mai qualcosa di vago, ma è estremamente preciso. La psicoanalisi può aiutare nella diagnosi. Il dialogo del paziente con lo psichiatra è quel che si chiama psicoterapia, assistenza sociale, con la sua dignità di pratica, ma è dubbio quel che fare in questi casi. Si nota, agli occhi degli psichiatri francesi, direttori degli ospedali dove lavorano gli psicoterapeuti, un crescente interesse per la biologia, che promette di farli sparire gli psicoterapeuti. Il mio sforzo maggiore consiste nel cercare di rimettere al loro posto le numerose affermazioni di Lacan, e nel dare loro un ordine con una certa logica. La psicosi è una clinica dell'immaginario, in quanto non è dominata dall'ordine simbolico. È poi una clinica del simbolico nella misura in cui è una continua emissione della voce – in Schreber, per esempio – nel senso che per il soggetto la voce gli parla dal di fuori. Tale funzionamento ci chiarisce qualcosa del simbolico. Si può dire che tutto ciò che riguarda l'automatismo mentale ha a che fare con la clinica del simbolico. Non sono dogmatico, non ho niente in contrario a chiamarla clinica del reale, ma per cosa? Mi sforzo di dare un significato corretto all'espressione, e per risponderle sarebbe necessario che lei mi dicesse in che contesto ci ha avuto a che fare, perché nel simbolico può significare qualsiasi cosa. D: Mi interessa l'articolazione che ha proposto questa mattina, perché mi occupo di scrivere su psicoanalisi e corpo. Così, in uno dei miei testi, ho scritto che il corpo in psicoanalisi può essere inscritto nei tre registri immaginati da Lacan, nel reale, nell'immaginario e nel simbolico, tre registri non associati. Ho anche detto che il corpo, per la psicoanalisi, si presenta in un registro simbolico, le rappresentazioni in un registro immaginario, le immagini in un registro reale, dove ho collocato il rapporto del corpo con il sesso, intendendolo come attività pulsionale, il resto dell'attività pulsionale. Potrebbe specificare meglio questo problema del reale? J.A.M.: Finora ho evitato di parlare del reale. Bisogna notare che Lacan nelle sue ultime elaborazioni non colloca in alcun modo il corpo nel reale. Dice il contrario, il corpo è l'immaginario, e lo afferma con precisione. L’idea che l’immaginario sia il corpo si oppone alla nostra intuizione immediata, dovuta all'impressione che il corpo sia solido. Se prestiamo attenzione, vedremo che fin dall'inizio dell’insegnamento di Lacan il corpo è spiegato in questo modo. Nello stadio dello specchio il corpo interviene soprattutto come immagine del corpo. E quel che Lacan ha sviluppato a partire dalla teoria del narcisismo di Freud implica che tutte le formazioni immaginarie sono riducibili a immagini del proprio corpo: il soggetto porta con sé un'immagine del proprio corpo per alimentare tutti i suoi fantasmi. Il corpo, dunque, non interviene come sostanza né come ciò che ritorna allo stesso posto. Quest’ultima è una delle definizioni del reale per Lacan, che si mostra molto variabile, a seconda del registro dell’immaginario. Ecco perché è necessario distinguere, quando ci si fa questa domanda: non bisogna immaginare che, quando si tratta del corpo si tocchi qualcosa che ha sostanza, che permette di trovarsi nel concreto. Per quanto riguarda l’esperienza psicoanalitica possiamo dire che non è assolutamente così. Perché Lacan ha potuto dire: "La clinica è il reale in quanto è impossibile da sopportare”? Stabisce qui il rapporto della clinica con l’impossibile da sopportare, un’impossibile molto relativo, perché lo psicoanalista è lì per sopportarlo. In questo caso, si tratta del reale in quanto traumatico nel simbolico. Cosa succede? Il simbolico è governato da leggi metonimiche: un elemento nella catena significante può essere sostituito da un altro. È quel che permette di liberarsi dal sintomo: è possibile trovare un altro significante per reinserirlo nella catena significante e poi ricostruirlo in essa. Nel significante il sintomo si trasforma. Esiste un metabolismo proprio del significante relativamente alle immagini, che sono ugualmente suscettibili di variazioni. Passano dall'una all'altra, possono anche giocare a darci piacere, fumando, o annusando qualcosa. Su questo piano si producono cambiamenti piacevoli e non dannosi. Ciò che riguarda il reale non è invece suscettibile di metabolismo significante o di trasformazioni immaginarie perché, in tal senso, il reale resiste. La psicosi è in particolare ciò che resiste nella clinica. Per questo si cerca ciò che è reale nella psicosi, ciò che è reale nel sintomo, che non scivola via con il significante. Per lo psicotico il significante non viene né va. L'interpretazione sembra inutile. Nell'atto si cerca di operare su un altro registro tentando, allo stesso tempo, di restare nei limiti della psicoanalisi. È così che si può parlare del reale in gioco nella psicosi, e non se ne può dogmatizzare l’espressione. È necessario risituarla. D: Lacan ha collocato il corpo nella dimensione dell'immaginario, ma nel reale. Ho l'impressione che questo si sia mantenuto nei trentasei anni del suo insegnamento. Su questo corpo si sono dati giudizi e attribuzioni precedenti all'inizio del pensiero lacaniano, e poiché sullo psicotico non si arriva fino a lì, si creano storie, si fantastica sul corpo, anche se il suo riferimento non è reale. Continuo a pensare che il corpo sia reale, e il suo riferimento permette di immaginare, fantasticare, attribuire, giudicare, lasciando trasparire le differenze delle strutture. J.A.M.: Consideriamo il corpo di Schreber, quel corpo che, secondo lui, si è trasformato in donna: i suoi seni crescono e gli fa piacere vedere la propria immagine riflessa nello specchio. Dov'è l'immaginario e dov'è il reale? Il reale è l'allucinazione di Schreber, ma allo stesso tempo è attraverso l'immagine che coglie il corpo. Passa ore davanti allo specchio a contemplarsi come una bella donna. È così che gode, come anche quando Dio, un Dio simbolico, gli si avvicina e lo inonda di una voluttà senza limiti. Il reale, in questo caso, poiché c'è un reale del simbolico, è questo godimento che tiene per sé. In Lacan è necessario distinguere tra due reali: uno dell'immaginario e l'altro del simbolico, cosa che rende il suo pensiero estremamente complesso. Rende però impossibile l'equivoco tra reale e corpo, perché si tratta puramente e semplicemente di un volgare pregiudizio sostanzialista, che farebbe del linguaggio un blablabla e del corpo un unico reale. C'è la tendenza a pensare così quando si fa molta psicoterapia per le psicosi. Quando si sembra che il significante non sia niente, quando s’immagina che ogni significante sia un blablabla, mentre non sarebbe così per il nevrotico. Quando si fa psicoterapia delle psicosi si svaluta il significante, e si ripongono speranze in un rapporto diretto con il corpo, e questo mi sembra un punto di vista distorto. D: Stavo riflettendo un po' su questa questione del reale e del luogo del corpo, cercando di articolarla con altre questioni, che non sono chiare. Per questo siamo qui. La prima metafora del reale di Lacan sono state le stelle, perché tornano sempre allo stesso posto. Con il corpo invece non è così, il corpo cambia. D'altra parte, come dice lei stesso dell'elefante, dal momento in cui gli abbiamo dato un nome, abbiamo iniziato a ucciderlo. Quando tutto il corpo è simboleggiato, c'è il rischio della morte, si è di fronte alla castrazione, e questo è terribile, è lo psicotico dello psicotico. Potrebbe dire qualcosa di più su questo argomento? J.-A.M.: Dal momento stesso in cui abbiamo un nome, siamo già morti. Non si sa ancora perché si risponde al richiamo del proprio nome: si è chiamati con il proprio nome. Ma ci sarà un momento in cui il nome rimarrà da solo e nessun corpo andrà a rispondere alla chiamata. Ecco perché il nome di Jacques Lacan non suona più come prima della sua morte: perché era qualcuno che potevi chiamare. Potrei chiamarlo comunque spesso, alla fine tutti potrebbero farlo. C'è un momento in cui il nome rimane solo. Lacan ne ha parlato a lungo: il nome eterna il soggetto ma non il suo corpo. Poiché abbiamo nomi, siamo portati a immaginare la risurrezione dei corpi, così che finalmente il corpo trovi il proprio nome. Ci vuole molta buona volontà, bisogna credere fortemente nel significante per credere nella resurrezione dei corpi. Vero è che la simbolizzazione del corpo ha come risultato precisamente la sua mortificazione, la sua separazione dal godimento, che di fatto si concentra nei resti del corpo. Si è affascinati dal corpo. La psicoanalisi si occupa dei quattro resti essenziali del corpo – di cui ho parlato stamattina – più questa parte speciale che concentra il godimento in una forma negativa, che è il fallo. Ciò che resta del corpo mortificato dal simbolico si rifugia in quelle parti estreme, anche caduche, parti che cadono. Questo è l'oggetto della psicoanalisi che Lacan qualifica come reale. Non il corpo nel suo insieme – il corpo nel suo insieme è una forma – ma ciò che è reale del corpo, ciò che cade da esso. È più piacevole riflettere sul corpo nel suo insieme, ma questo non ha a che fare con il reale. *Il terzo termine del ternario immaginario, quello in cui all'opposto il soggetto si identifica col suo essere di vivente, non è altro che l'immagine fallica il cui svelamento in questa funzione non è il minore degli scandali della scoperta freudiana. (Scritti p. 549 Ecrits p.552) Traduzione di Micol Martinez
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