Seminario tenuto il 13 maggio 2024 presso la sede milanese dell'Istituto freudiano Cinzia Crosali Da molto tempo mi interesso alla depressione, la mia pratica clinica mi ci ha condotto e questo interesse si è sviluppato su due versanti: il primo è quello del malessere del soggetto, nella sua manifestazione singolare, quella della sofferenza particolare, presa caso per caso; il secondo è quello della depressione in quanto malessere sociale, in quanto effetto endemico della nostra epoca, iscritto nel discorso, vale a dire nel legame sociale, secondo la formalizzazione che Lacan fa del discorso. La parola “depressione” è talmente utilizzata nel discorso comune che ha perso consistenza, è diventata una parola valigia, un contenitore, nel quale le espressioni come malessere esistenziale, tristezza, disperazione, melanconia, blues, sono mescolate nel disordine più totale. La depressione come affetto
Per iniziare a fare un po’ di ordine, diciamo che la depressione è uno dei nomi della tristezza e che Lacan considera la tristezza come un affetto e non come una emozione. Emozione e affetto: come distinguerli? L’emozione è un movimento, una agitazione, è la risposta dell’Io a qualche cosa che accade nel mondo. La teoria classica delle emozioni – ci dice Miller- “è sempre stata una teoria dei rapporti dell’Io e del mondo”1. Diversamente, per la psicoanalisi l’affetto riguarda il soggetto e il significante. In definitiva, separare l’affetto dall’emozione significa per Lacan, interrogare l’affetto nelle sue implicazioni con il significante. Lacan ci dice che l’affetto è “il prodotto della presa dell’essere parlante in un discorso”2. La mia ricerca sulla depressione ha preso le mosse da una citazione di Lacan, dalla sua citazione più famosa sulla depressione, quella che si trova nell’articolo intitolato Televisione. Si tratta di un passaggio importante, uno dei rari casi in cui Lacan parla chiaramente della depressione, della tristezza, e ci dice quello che è per lui la depressione e quello che non è, e ci dà persino la formula del suo antidepressivo ….. un antidepressivo lacaniano! Vi leggo questo passaggio chiave: «La tristezza, per esempio viene qualificata come depressione, quando le si dà come supporto l’anima, o la tensione psicologica, (secondo la teoria) del filosofo Pierre Janet. Ma non è uno stato d’animo, è semplicemente una pecca morale, come si esprimeva Dante, o anche Spinoza: un peccato, il che vuol dire una fiacchezza morale, che in ultima istanza si situa a partire dal pensiero, cioè dal dovere di ben-dire o di ritrovarcisi nell’inconscio, nella struttura»3. Si tratta di formulazioni audaci che possono anche sembrare provocatorie rispetto al clima culturale dell’epoca in cui si situano (gli anni Settanta). Lacan osa qualificare la depressione come un peccato, come una viltà morale. Questo era impensabile in quell’epoca in cui il malessere individuale era interpretato unicamente come una conseguenza delle contraddizioni sociali, politiche ed economiche. Mi sembra che sia impensabile anche oggi, nella nostra epoca in cui il paziente è in qualche modo esonerato da ogni responsabilità soggettiva e che quando soffre di depressione è considerato come una vittima di una malattia, di un episodio scatenante, o di un conflitto sociale, piuttosto che implicato in quanto soggetto in ciò che gli accade. O ancora, sulla scia del movimento de-patologizzante, a cui siamo esposti, la depressione, anche severa, si riduce a una variazione dell’umore più o meno invalidante, privata di una vera connotazione clinica. Lontano da ogni giudizio o da una condanna moralizzante, la posizione di Lacan è qui una posizione etica, posizione che punta alla re-integrazione del soggetto, “il precluso” della scienza, e quindi punta a una reintegrazione della responsabilità soggettiva. È soltanto alla luce di questa reintroduzione del soggetto in quanto partecipe di quello che gli accade, che noi possiamo capire perché Lacan parla di Dante e del peccato. Dante, nella Divina Commedia, si era interessato ai peccati degli uomini e alle loro punizioni, nel regno dell’aldilà, nell’inferno e nel purgatorio. La visione di Dante in questa materia è nutrita dalla teologia della sua epoca, cioè dalla teologia tomista. Quindi Dante non poteva esimersi dal situare i depressi della sua epoca (gli accidiosi) nell’inferno o nel purgatorio secondo la gravità della loro condotta e secondo il modello dettato dalla dottrina della Chiesa e iscritto in una tradizione che datava dagli inizi del Cristianesimo. Questa tradizione, che è quella dei Padri della Chiesa, considera la “tristezza” (sotto il nome dell’accidia) come uno dei vizi più gravi: un peccato mortale e capitale. Dante mette i “tristi” (gli accidiosi) in Inferno: sono immersi nel fango, hanno il fango fino alla bocca, ne sono soffocati per l’eternità, è questa la loro punizione.4 È interessante notare che gli accidiosi danteschi condividono la stessa punizione dei collerici, cioè con coloro che sono stati dominati dall’odio e dalle tendenze aggressive. Perché Dante mette insieme questi peccatori? Che rapporto c’è fra questi due tipi di peccati? Quando Lacan dice che l’artista precede lo psicoanalista, dice bene. Dante, l’artista, il poeta, precede qui Freud e anche Abraham5, facendo della depressione l’altra faccia dell’odio e dell’aggressività. La depressione non è esente da queste posizioni del soggetto. L’altro nome citato da Lacan in Televisione a proposito della tristezza è quello di Spinoza. Come Spinoza, Lacan rifiuta l’idea di un rapporto causale dell’organico sullo spirito (sul pensiero) e sostiene il ruolo attivo del soggetto nell’affetto. Egli dice che “l’affetto viene a un corpo, la cui proprietà è quella di abitare il linguaggio”6, e così dicendo Lacan opera un rovesciamento rispetto alle concezioni psicobiologiche che vogliono tirare l’affetto verso la scarica corporea. “Che mi si risponda – dice Lacan – solo su questo punto: un affetto, riguarderebbe il corpo? Una scarica di adrenalina è del corpo o no? Ne disturba le funzioni, è vero. (…) È dal pensiero che arriva la scarica”7. Quindi la nostra prima bussola è che la psicoanalisi non considera gli stati depressivi dalla parte delle emozioni, ma piuttosto dalla parte dell’affetto, e quest’ultimo a sua volta dalla parte delle passioni. “Passione” è una parola complessa che sembra volerci condurre in due direzioni diverse: una veicola l’idea di una passione in senso passivo, qualcosa che si subisce, di cui si soffre, dall’altro c’è invece l’idea dell’uomo appassionato, che consacra tutte le sue forze per realizzare i suoi obiettivi. La filosofia8, la letteratura, l’arte si sono espresse lungamente attorno alle passioni umani. Come gli psicoanalisti si posizionano in questo discorso delle passioni e come situare in questo contesto la passione triste della depressione? Possiamo iniziare dicendo che la passione in senso lacaniano procede dall’impronta, dall’incidenza, dal marchio del significante sul soggetto, dallo choc del significante sul vivente umano. Affetto e passione Lacan parla delle passioni dell’Essere e delle passioni dell’anima9. Le prime: l’amore, l’odio e l’ignoranza, concernano il rapporto del soggetto all’Altro, l’Altro è chiamato a completare la mancanza del soggetto, ma non può farlo perché, ci dice Lacan: “anche a lui, l’essere manca…”10, da lì derivano tutte le declinazioni del rapporto, carico di passione, del soggetto all’Altro: rapporto di rivendicazione, di esigenza, di delusione, di odio, d’amore, di ricatto… Queste passioni dell’essere sono quindi le passioni del rapporto all’Altro, un rapporto appassionato e intenso, perché dal desiderio di questo Altro, dipende il destino del soggetto. Delle passioni dell’anima, Lacan inizia a parlarne in Televisione (1970) e ce ne dà la lista: la tristezza, il gaio sapere, la felicità, la beatitudine, la noia e il cattivo umore. (Nel suo seminario del 1996, Jaques Alain Miller ci illumina su queste passioni dell’anima, dicendoci che “ possiamo dar loro il giusto nome: le passioni dell’a, dell’oggetto a.”11) Lacan ha messo dunque la tristezza tra le passioni dell’anima, e se la depressione è un nome della tristezza, anch’essa allora, anche la depressione, è una passione dell’anima e come tale, ci mette sulla via dell’oggetto. Tuttavia il rapporto del soggetto all’oggetto non diretto, è sempre mediato dal linguaggio, dal significante. E non si tratta di una mediazione che semplifica le cose, tanto più che c’è un terzo elemento che entra in gioco, e che è: il godimento. Non possiamo trattare la questione della depressione senza articolarla a questi tre elementi con cui il soggetto ha a che fare: l’oggetto, il significante e il godimento. Come tutto questo si traduce nella pratica clinica? Costatiamo che gli esseri umani, per il fatto che parlano, sono confusi, impacciati dal sesso, si confrontano molto precocemente con la discordanza strutturale tra la cosa sessuale e il linguaggio, una discordanza che fa enigma. La discordanza, l’inadeguatezza tra sessualità e essere parlante non è legata, come si poteva pensare al tempo di Freud, alla repressione, all’educazione vittoriana, rigida e carica di divieti e di tabù. La nostra epoca, con il declino del discorso del padrone tradizionale, sembra marcata dalla abolizione dei divieti e da una libertà sessuale senza precedenti. E tuttavia riceviamo dei pazienti che sono impacciati, inibiti, sconcertati, di fronte alla cosa sessuale, e questo malgrado la rivoluzione e la liberazione dei costumi. La pulsione sessuale non è armonicamente ammessa, fa enigma, è eterogenea al soggetto, ma non a causa dell’educazione e della società, ma per questa dissonanza strutturale che essa ha con il registro del simbolico, cioè con il linguaggio. Per Lacan l’affetto risiede proprio in questo, risiede nella difficoltà di mettere in risonanza linguaggio e godimento. Propongo di riferire a questa stessa discordanza l’affetto della depressione, e di considerare la depressione come ciò che, del godimento, il sintomo non riesce a saturare. Diversamente delle neuroscienze noi non possiamo rassegnarci a chiamare “depressone” ciò è guarito dagli antidepressivi con una diagnosi basata sull’efficacia delle pillole e delle molecole. L’industria farmaceutica, alleata del DSM IV e V, partecipa da anni alla promozione del sintagma “depressione” per farne una malattia organica, giustificata da una disfunzione dei neurotrasmettitori e guaribile con i trattamenti farmacologici. Il grande assente di questo processo di produzione-consumazione, insito nel discorso capitalistico, è il soggetto dell’inconscio e la sua responsabilità in ciò che gli accade. Se le scienze positive hanno dispiegato i loro sforzi per qualificare e misurare l’insieme delle emozioni umane al fine di trovare delle causalità chimiche e biologiche iscritte nell’organismo, la psicoanalisi al contrario ha insistito fin dai suoi albori, sull’idea di causalità psichica, e non ha mai ceduto su questa idea. Essa ha sempre privilegiato l’ascolto della parola del soggetto in sofferenza, sull’osservazione del comportamento o delle sue connessioni neuronali. Occuparsi della causalità psichica significa non prendere il segno per la malattia, non prendere la febbre per l’infezione, questo significa occuparsi dell’inconscio (cioè del soggetto e delle sue implicazioni negli stati depressivi e nelle sue sofferenze). Il paziente si dice depresso quando il suo gusto per la vita si ristringe, quando uno stato di tristezza, in tutte le variazioni possibili della tristezza, è dominante nella sua esistenza, quando non c’è più niente che l’interessi, e quando la riduzione sempre maggiore dell’energia, del desiderio, della voglia, della libido, dà la tonalità generale del suo umore e delle sue giornate. Vorrei oggi restare il più vicino possibile alla parola analizzante, cioè alla parola dei pazienti che noi riceviamo in analisi, di coloro che riescono a rivolgersi a uno psy, a volte di loro iniziativa, a volte spinti dal loro entourage (dai loro amici e familiari), e che possono dire qualcosa della loro cosiddetta “depressione”, e cercherò di trarre dalla parola dei pazienti qualche traccia teorica e qualche indicazione clinica. Perdita e mancanza La prima costanza che mi ha colpito nel dire dei pazienti, una costante variamente declinata, ma comunque ricorrente, è il rapporto particolare del soggetto depresso, a due dimensioni: quella della perdita e quella della mancanza. Perdita e mancanza non sono sinonimi, il primo termine ci porta alla questione dell’oggetto, e precisamente all’oggetto perduto, il secondo ha a che fare sia con la castrazione che con la divisione, vale a dire con la negativizzazione fallica (– φ)12 e con il soggetto barrato ($). Nella depressione la mancanza, invece di alimentare il desiderio, affonda il soggetto nel vuoto. Possiamo dire che un’analisi, e questo non solo nel trattamento della depressione, un’analisi, in ogni caso, punta a uno spostamento soggettivo, a una mutazione del rapporto del soggetto con la mancanza, punta a un saperci fare con la mancanza invece di combatterla (saperci fare a partire dall’assunzione della castrazione simbolica, cioè a partire dalla rinuncia del bambino al godimento incestuoso illimitato). Dalla parte della perdita, è ancora la nostra esperienza clinica a orientarci e la parola degli analizzanti è la nostra bussola. Ascolto spesso formulazioni del tipo: “Ho perso tutto. Ho perso l’interesse per la vita, ho perso ogni slancio sessuale, ho perso ogni curiosità, niente mi interessa più, ho perso il lavoro, la voglia di uscire, di alzarmi da letto, di andare al cinema… ho perso il desiderio, l’energia, la forza…”. Ascolto dei soggetti in perdita. La prima associazione riguardante la perdita, ci conduce a un testo fondamentale di Freud: “Lutto e malinconia”13, in cui Freud riprende, almeno nella traduzione francese, il termine di depressione, e descrive un quadro clinico associabile a quello degli stati depressivi contemporanei: “La melanconia si caratterizza dal punto di vista psichico da una depressione (Verstimmung) profondamente dolorosa, una sospensione dell’interesse per il mondo esteriore, la perdita della capacità di amare, l’inibizione di ogni attività e la diminuzione del sentimento dell’autostima”14. Lo schema descritto in questo testo fondamentale è quello di un disinvestimento, dalla parte dell’Io, un disinvestimento dell’oggetto che lo sosteneva, al quale era identificato e che ora è perduto. L’Io è colpito dalla perdita dell’oggetto, e precipita in un abisso, si devitalizza, seguendo la stessa sorte dell’oggetto; per dirla come Freud, il mondo si spopola, e Freud su questo punto fa una distinzione chiara tra lutto e melanconia, dicendo che: Nel lutto il mondo si è impoverito e svuotato, nella melanconia lo è l’Io stesso»15; o ancora ci dice “L’Io è schiacciato dall’oggetto”16. Nell’articolo L’identificazione17, Freud ripeterà la frase già presente in Lutto e melanconia: “l’ombra dell’oggetto si è proiettata sull’Io”18, e insisterà sul processo di introiezione dell’oggetto da parte dell’Io. Quello che emerge è l’impossibilità per il soggetto di assumere la perdita dell’oggetto, perché perdere l’oggetto è come perdere sé stesso, cadere nel niente. L’affetto depressivo, sia che si presenti nella nevrosi, o che sia una prerogativa della psicosi nella sua forma melanconica, ci mette sempre sulla pista dell’oggetto, svela il rapporto del soggetto all’oggetto: un rapporto piuttosto, allentato, fissurato, difettoso nella depressione nevrotica, e un rapporto incollato, appiccicato, schiacciante nella depressione melanconica. Perdere l’oggetto significa allora perdere sé stessi, cadere nel nulla. In questo senso, possiamo dire che è il rapporto del soggetto all’oggetto, ciò che ci orienta verso una clinica differenziale della depressione. E questo anche se oggi noi parliamo di una nuova clinica, che qualifichiamo come continuista. Cioè una clinica non più orientata dall’Edipo e dal Nome del Padre ma dal reale e dal godimento. Continuiamo sulla pista dell’oggetto. A volte il soggetto ha sviluppato una dipendenza verso un’altra persona che diventa il suo solo punto di salvezza, la sua ancora o il suo salvagente. Non può perderla, perché la sua perdita comporterebbe la perdita di tutto l’essere del soggetto. Se un avvenimento o più avvenimenti si producono nel senso dell’allontanamento di questa persona, il soggetto può cadere in uno stato di derealizzazione, che fa tremare tutto l’edificio del suo essere, e che frattura la sua più intima giuntura del sentimento della vita. Senza arrivare all’esperienza del lutto, noi pensiamo per esempio alle rotture amorose, all’allontanamento dei figli che crescono e conquistano la loro indipendenza, cosa che può generare uno stato depressivo nella madre, o nel padre, o ancora le malattie degenerative di un genitore anziano, (ho ricevuto una donna per la quale l’Alzheimer pronunciato della madre era stato insostenibile e l’aveva portata a uno stato depressivo intenso), le esperienze di perdita possono anche contemplare: la perdita del lavoro, la perdita degli ideali, la perdita di quelle che Lacan chiama: le “insegne” e che funzionano come punti d’identificazione immaginaria e come appoggio della consistenza soggettiva. Tutto ha perso potere di attrazione agli occhi di un soggetto depresso, c’è un’operazione di perdita, ma noi non diremo che la perdita dell’oggetto è la causa della depressione (l’oggetto è perduto da sempre per ciascuno, per tutti gli esseri parlanti), nella depressione, più che della perdita dell’oggetto, dobbiamo parlare di “perdita della brillantezza fallica”19, della perdita della brillantezza fallica dell’oggetto. Serge Cottet, nel suo bell’articolo “La bella inerzia”, dà a questa perdita di brillantezza fallica il nome di “castrazione”, si tratta della “perdita del godimento fallico20. L’oggetto privato del suo paramento, della sua casula, come si esprimeva Lacan «fa la miseria del soggetto»21, cioè rende il soggetto misero e infelice. Nel Seminario “L’angoscia” Lacan propone un avanzamento rispetto all’elaborazione freudiana del lutto in questi termini: “Noi siamo in lutto solo per qualcuno del quale possiamo dire Io ero la sua mancanza. Siamo in lutto per persone che abbiamo trattato non importa se bene o male e di fronte alle quali non sapevamo di assolvere la funzione di essere nel posto della loro mancanza. (…) Noi le siamo mancati, mentre era proprio per questo che le eravamo preziosi e indispensabili.”22 Nel lutto noi non solo abbiamo perso una persona cara, ma abbiamo perso anche questo posto privilegiato e prezioso di essere la sua mancanza. Nella sua novella “Colloquio con la madre” Luigi Pirandello ha cercato di rendere conto di questo dolore di perdere qualche cosa del proprio essere perdendo una persona cara. L’autore immagina che la madre, morta da poco, gli appaia per consolarlo, e lui le dice che quando era viva lui, il figlio, poteva pensare: «Se lei, da lontano, pensa a me, io sono vivo per lei»23, lui quindi poteva mancare a sua madre, essere la sua mancanza. Il figlio non piange per la morte della madre, ma per la sua propria morte, di figlio, nel pensiero della madre, che da lontano pensava e attendeva il figlio. L’attesa Un altro significante che noi ascoltiamo nel dire del soggetto depresso è quello dell’attesa. O per meglio dire, dell’assenza di attesa: “non mi aspetto più niente dalla vita” dice il soggetto depresso. E ancora: “Niente mi attende e io non attendo nulla”. Delle formulazioni che lasciano intendere il rammarico, la delusione, di fronte alla difficoltà o all’impossibilità per il soggetto di iscriversi nel desiderio dell’Altro. Il soggetto non aspetta più niente e nello stesso tempo non riconosce nessuna attesa nell’Altro che lo concerne. Attendere, essere atteso, sono delle declinazioni del desiderio, e la carenza dell’attesa nella depressione, è segale di un ritiro del desiderio da parte del soggetto, di un “cedere sul proprio desiderio”24», dice Lacan. Vediamo così che la fiacchezza (viltà) morale della depressione lacaniana è all’opera in questa posizione soggettiva. La dimensione stessa del desiderio si trova così devitalizzata, il soggetto non è né desiderato, né desiderante, e svanisce nell’impossibilità di accedere alla mancanza-d’-essere che lo costituisce in quanto soggetto, in effetti egli non consente a cedere qualche cosa del suo essere, condizione indispensabile per vivere, amare, e desiderare. Noi pensiamo con Freud che nell’angoscia il soggetto è alle prese con l’attenzione ansiosa, è allarmato per l’imminenza di un’insorgenza che non sarebbe sopportabile (insorgenza dell’oggetto a), mentre nella depressione, questa insorgenza, questa emergenza, è evitata senza che tuttavia la mancanza possa operare per istaurare il desiderio. Lo stato depressivo sarebbe allora una sorta di fuga molto particolare di fronte all’angoscia, una fuga senza movimento, una fuga al rallentatore. La lentezza del depresso, i suoi movimenti rallentati, già cantati da Dante a proposito dei depressi-malinconici medioevali (gli accidiosi), nella sua Divina Commedia, la stessa percezione accorciata, agglutinata, del tempo e dello spazio, (che ha il depresso), sono i segni fenomenologici di questa immobilità. Secondo questa logica, la depressione si configura come difesa di fronte all’angoscia. Il soggetto che precipita nella depressione testimonia dell’insopportabile confronto con la sua “mancanza-d’–essere” strutturale, che costituisce la sua condizione di parlessere. La clinica psichiatrica dà numerosi esempi di pazienti che trascorrono dei periodi di forte angoscia prima di cadere nella melanconia; e spesso gli psichiatri testimoniano che il paziente consulta dapprima per della crisi di angoscia molto marcate di cui non può dire niente, poi escono progressivamente dall’angoscia per entrare in uno stato depressivo. In questo senso la pecca morale di cui parla Lacan sarebbe una pecca di fronte all’angoscia, una fuga dall’angoscia. La questione che si pone è: possiamo concepire un miglior uso dell’angoscia? L’insegnamento di Jacques Alain Miller propone che dell’angoscia “si può farne a meno, a condizione di servirsene”, così come Lacan preconizzava a proposito del Nome del padre25. Che cosa significa? Miller distingue due statuti dell’angoscia: l’angoscia costituita e l’angoscia costituente26. La prima è quella che blocca il soggetto nel suo cerchio infernale dove è quasi paralizzato, l’altra, la seconda, l’angoscia costituente, è l’angoscia produttrice, quella che mette in moto la macchina desiderante. Propongo di situare la depressione dalla parte dell’”angoscia costituita”. Essa si configura così come un tentativo del soggetto di risolvere l’angoscia “senza servirsene”27, senza poter veramente superarla, e restando quindi condannata alle vie labirintiche del cerchio infernale di cui parla Miller, alludendo anche a Dante. Restare al di qua dell’angoscia è una posizione incompatibile con la pratica psicoanalitica. Lacan non manca di mettere in guardia gli psicoanalisti su questo punto e dice a chiare lettere: “Disgrazia allo psicoanalista che non avrà superato lo stadio dell’angoscia!”28. La depressione, che noi situiamo dalla parte dell’“angoscia costituita” in opposizione all’“angoscia costituente”, è un affetto ingannatore. Un affetto che non si situa dalla parte dell’etica. Lacan tratta gli affetti sotto l’angolo dell’etica e li interroga sul versante del reale. Tratta quindi gli affetti a partire dai loro effetti di godimento, i loro effetti reali che vengono al corpo e non dal corpo, come dice Lacan in “Televisione”29,. (Cit. ivi p. 3) Il depresso non racconta la sua fuga davanti all’angoscia, non racconta di non sapersi servire della sua angoscia, del resto, un depresso non racconta granché. Spesso la domanda di un paziente depresso non si articola in una catena significante sviluppata, il paziente depresso non parla molto, non domanda quasi niente, una pillola forse, che l’estragga dalla sua inerzia, dal suo deserto. Si tratta allora di entrare nella fortezza e di disturbare le difese30. La psicoanalisi opera attraverso la de-sidentificazione: si tratta di rompere la definizione monolitica della autodefinizione “sono depresso”, per introdurre un po’ di divisione, per fessurare l’identificazione a un’etichetta. Al posto dell’etichetta, si tratta di far posto a un enigma, a un’interrogazione, a una questione. Il nostro orientamento è che il paziente possa dire qualcosa di più della frase “sono depresso”, frase che non vuole dire niente se il soggetto non riesce a parlare di sé, di come, di quando, in quale momento, a partire da quando, del perché… è depresso. Non è l’enunciato, didascalico, che ci interessa, ma l’enunciazione, dove risuona un residuo di desiderio del soggetto. L’effetto antidepressivo della psicoanalisi risiede nella possibilità di far consistere un sintomo che possa ridurre l’angoscia, e quindi produrre uno spostamento, rispetto alla posizione del soggetto che tende a trincerarsi nella depressone. Il trattamento della depressione comincia con il trattamento dell’angoscia. È per questo che se, in analisi, il depresso può incontrare dei momenti di angoscia, paradossalmente questi rappresenteranno dei momenti preziosi, perché essi sono il segnale che ci mettono sulla via dell’oggetto, causa di desiderio. Il seminario l’Angoscia ci dà questa indicazione: “Ad ogni tappa della strutturazione del desiderio, se noi vogliamo comprendere ciò di cui si tratta nella funzione del desiderio, noi dobbiamo (reperire) individuare ciò che io chiamerei il punto di angoscia”31. ((In questo stesso Seminario, Lacan indica il posto dell’angoscia ponendola tra il desiderio e il godimento32.)) L’angoscia è già presente nella questione del “Che vuoi ?”33 (cosa vuoi da me?) che il soggetto rivolge all’Altro, in effetti è il desiderio dell’Altro che è angosciante, per il fatto che il soggetto non sa che oggetto a egli è per questo desiderio34. Il desiderio dell’Altro, enigmatico, carico com’è di mistero, diventa un pericolo, una minaccia, fa sorgere il punto d’angoscia, momento di vacillamento, di oscillazione, in cui il soggetto è chiamato a scegliere: o la fissità dello stato depressivo, o il sorpasso dell’angoscia e il confronto con il desiderio. La clinica differenziale degli stati depressivi ci autorizza a sostenere che essi non possono essere tutti trattati allo stesso modo. Poiché noi non consideriamo la depressione come un sintomo, nel senso classico del termine, ma quasi come uno scacco del sintomo, non si tratta in analisi di affrontare l’affetto depressivo direttamente con l’interpretazione significante, ma piuttosto si tratta di operare tramite la gestione del transfert, direi il maneggiamento del transfert. L’interpretazione, almeno nel primo tempo della cura, resta inoperante. La presenza reale dell’analista, è il punto più importante per l’istaurazione del transfert, una presenza che non indietreggia davanti al silenzio, alla chiusura, alla penuria di parole, e alla tendenza del soggetto a sottrarsi dal dispositivo. Penso a una mia paziente che puntualmente spariva dalla scena, non usciva più di casa, staccava tutti gli apparecchi di comunicazione con il mondo, telefono, computer, internet, mail, social… e aveva una particolarità: toglieva la piccola carta elettronica dal suo cellulare – la cartea SIM – (abbozzo di estrazione dell’oggetto a?) la metteva in una busta, metteva un francobollo e scriveva il suo nome e il suo indirizzo sulla busta, e la imbucava. Per un certo tempo era così sicura di non poter cedere alla tentazione di usare il suo cellulare e nello stesso tempo faceva fare un circuito nella città alla sua scheda elettronica, e aspettava, attendeva (ecco l’attesa) l’oggetto, e lo recuperava qualche giorno dopo, spesso ricominciava e rispediva l’oggetto appena ricevuto, facendogli fare così, più giri. Impossibile contattarla quando disertava le sedute durante quei periodi. Mi sono allora adattata alla sua invenzione, ho anch’io utilizzato la modalità della lettera postale per ricontattarla, per scriverle e per farle sapere che non l’abbandonavo, che l’aspettavo. Cosa che l’ha molto toccata e sorpresa, producendo un ritorno in analisi. La presenza dell’analista non può sempre limitarsi all’ascolto silenzioso e neutro, ma può essere una presenza viva, che risveglia, che disturba il soggetto nella sua tendenza all’abdicazione generalizzata della sua vita. Non parlerei comunque di una clinica specifica della depressione, perché la pratica analitica è sempre centrata sul caso per caso, e sulla singolarità, tuttavia possiamo dire che l’affetto depressivo concerne la posizione di un soggetto che, disancorato dall’oggetto, sganciato dall’ancoraggio che gli dava l’oggetto, testimonia della sua disconnessione dall’Altro, dal discorso, e quindi dal legame sociale. Il lavoro analitico partirà quindi da questa disconnessione, per sostenere tutte le scoperte, le invenzioni, che il soggetto costruisce per bordare l’abisso al quale è confrontato, e rimettere in circolazione il desiderio della vita. 1 Miller J.A., «Les affects et l’angoisse dans l’expérience psychanalytique», Actes de l’École de la Cause freudienne, ECF, Paris, mai 1986, p.124. 2 Lacan J., Le Séminaire, livre XVII, L’envers de la psychanalyse, Paris, Seuil, 1991, p. 176 (Il rovescio della psicoanalisi) 3 Lacan J. Televisione (1973), in Id., Altri Scritti, Einaudi, Torino 2013. p.520. 4 Alighieri Dante, La divina commedia, Inferno , Canto VII, 121-124, «Fitti nel limo dico: “Tristi fummo ne l'aere dolce che del sol s'allegra, portando dentro accidïoso fummo: or ci attristiam ne la belletta negra ». La Divina Commedia, Inferno, Canto VII, 121-123. 5 Karl Abraham,(1912) rintracciò una spiccata ambivalenza nel melanconico dovuta alla presenza dell’ira, da lui stesso definita “ostilità inconscia”. La reazione per la perdita dell’oggetto d’amore si carica di rabbia e di odio. 6 Lacan J., Télévision, (1973) in Autres Écrits, 2001, Paris, Seuil, p.527 7 Lacan J., Télévision, op. cit., p. 524. «Qu’on me réponde - dit-il - seulement sur ce point : un affect, ça regarde-t-il le corps ? Une décharge d’adrénaline, est-ce du corps ou pas ? Que ça en dérange les fonctions, c’est vrai. Mais en quoi ça vient-il de l’âme ? C’est de la pensée que ça décharge». 8 Descartes (1596-1650) : «Traité des Passions», Spinoza (1632-77) : «Ethique», Hume (1711-76), Kant (1724 -1804), Hegel (1770-1831), Kierkegaard (1813-1855) : “On a plus perdu, quand on a perdu sa passion que quand on s’est perdu dans sa passion” (Journal du séducteur) 9 Lacan J. Lacan J., «La direction de la cure et les principes de son pouvoir», op. cit., p. 613. Miller J.A., «Les affects et l’angoisse dans l’expérience psychanalytique», Actes de l’École de la Cause freudienne, ECF, Paris, mai 1986, p. 121. Pour la distinction entre Passions de l’âme et passion de l’être, voir l’article de Carolina Koretzky, in « La cause du désir », n°93, Navarin Éditeur, août 2016, p. 73 : «À la différence des passions de l’être, les passions de l’âme doivent être reliées à l’effet de séparation d’avec la chaîne signifiante ; les passions de l’âme ne sont pas l’effet du rapport à un Autre dont on attend le complément. On aime, on hait ou on ignore l’Autre, alors que dans ces passions de l’âme, l’Autre semble absent. Ce qui ressort est le rapport du sujet à son âme, à son a, à sa propre manière de vivre la pulsion (avec tristesse, gai savoir, bonheur, béatitude, ennui ou mauvaise humeur), ainsi que sa propre manière de vivre ce reste des marques signifiantes sur le corps». 10 Lacan, La direction de la cure… p. 358 11 Miller J.A. L’orientation lacanienne, «Extimité», enseignement prononcé dans le cadre du département de psychanalyse » de l’université Paris 8, leçon du 17 juin 1986, inédite. 12 https://www.champlacanien.net/public/docu/5/rdv2020-prelude3.pdf Secondo Lacan invece, il linguaggio si sostiene nella sua funzione di buco nel Reale. Il corpo non è primario, ma dev'esserci una negativizzazione del godimento per via del significante, un Uno che diventa meno Uno per dedurne lo zero. Negativizzazione che permette di mettere fuori ciò che è impossibile da rappresentare e che non è esattamente un organo, come lo vorrebbero Crick e Watson. E' a causa di un desiderio che ha fatto nascere la parola, che l’organo o il corpo si desertificano di godimento e possono parlare. Come? Attraverso i sintomi, Lacan lo afferma quando propone la tesi “il Reale è il mistero del corpo parlante, è il mistero dell’inconscio” (3). 3. Jacques Lacan. Il seminario . XX. Ancora. 1972/1973. Editore Guido Einaudi s.p.a. Torino 1983 e 2011 pag. 125. 13 Freud S., «Deuil et mélancolie», Métapsychologie, (1915), Paris, Gallimard, 1968.// S. Freud, Lutto e melanconia, in Opere vol. 8, pp. 102-118. 14 Freud S., ibid., p. 146, souligné par nous (précisons que le choix du mot « dépression » par les traducteurs français rend compte du mot : Verstimmung, qui signifie plutôt : «changement d’humeur»). 15 S. Freud, Lutto e melanconia, op.cit., p. 105. 16 Ibid., p. 161. 17 Freud S., «L’identification», in Psychologie collective et analyse du moi, Essais de psychanalyse (1921),Paris, Petite Bibliothèque Payot, 1979. 18 Ibid., p.131. 19 Cottet, «La belle inertie» in Ornicar n.32 janvier-mars 1985, p.79 20 Idem : «Cette mise à nu de l’objet corrélative de ce désépaissement narcissique s’accompagne bien sûr d’une parte : celle de la jouissance ; mais n’importe laquelle : la jouissance phallique». p79 21 Cf. discours de Lacan tenu le 6 décembre 1967 et publié dans Scilicet n°2/3, Paris, Seuil, 1970, p. 9-29 dont nous soulignons la phrase suivante p. 11 : «Ainsi fonctionne l’i(a) dont s’imaginent le moi et son narcissisme, à faire chasuble à cet objet a qui du sujet fait la misère. Ceci parce que le (a), cause du désir, pour être à la merci de l’Autre, angoisse donc à l’occasion, s’habille contraphobiquement de l’autonomie du moi, comme le fait le bernard-l’ermite de n’importe quelle carapace». 22 Seminario X L’angoscia (1062-63) p. 152-143 it.) 23 Pirandello L., Novelle per un anno (sotto la direzione di Costanzo M., prefazione di Macchia G.), volume tre, tome II, Milano, Mondadori, «I Meridiani», 1990, p. 1138-1153 (Questa citazione si trova a p. 1152): La madre: “Tu, del resto, tu che mi sei stato sempre lontano, così lontano, pensami ancora viva! Non sono forse io viva per te?”; Il figlio: “Oh Mamma, sì ! (...) Ma io piango per altro, Mamma! Io piango perché tu Mamma, tu non puoi dare a me una realtà! (…) Perché tu non puoi più pensarmi com’io ti penso, tu non puoi più sentirmi com’io ti sento! È ben per questo, Mamma, ben per questo quelli che si credono vivi credono anche di piangere i loro morti e piangono invece una loro morte, una loro realtà che non è più nel sentimento di quelli che se ne sono andati. Tu l’avrai sempre, sempre, nel sentimento mio: io, Mamma, invece, non l’avrò più in te. Tu sei qui; tu m’hai parlato: sei proprio viva qui, ti vedo, vedo la tua fronte, i tuoi occhi, la tua bocca, le tue mani; vedo il corrugarsi della tua fronte, il battere dei tuoi occhi, il sorriso della tua bocca, il gesto delle tue povere piccole mani offese; e ti sento parlare, parlare veramente le parole tue: perché sei qui davanti a me una realtà vera, viva e spirante; ma che sono io, che sono più io, ora, per te? Nulla. Tu sei e sarai per sempre la Mamma mia; ma io? io, figlio, fui e non sono più, non sarò più…”. 24 Lacan J. Le Séminaire, livre VII, L'éthique de la psychanalyse, Paris, Seuil, 1986. p. 368. 25 Cfr. Miller J.-A., intervention inédite prononcée lors des Journées d'automne de l’ECF pour présenter le Congrès de l'AMP en 2006 : «Le nom-du-père, s'en passer, s'en servir». Publié in «Introduction à la lecture du Séminaire L’Angoisse», La Cause freudienne, n°59, Paris, Navarin, 2005, p. 67-103.) 26 Miller J.-A., «Angoisse constituée, angoisse constituante», extrait d’une intervention aux journées d’automne de l’ECF en 2004 pour présenter le congrès de l’AMP de 2006 : «Le Nom-du-Père, s’en passer, s’en servir», disponibile su internet. 27 Paraphrasant l’aphorisme lacanien sur l’usage du Nom du Père, Jacques Alain Miller propose dans le même article que de l’angoisse aussi «on se passe à condition de s’en servir» 28 Lacan J., «Il ne peut pas y avoir de crise de la psychanalyse», Magazine littéraire, n° 428, février 2004, p. 29, traduit de l’italien par Paul Lemoine (propos recueillis par Emilio Granzotto dans un entretien accordé en 1974 au magazine italien Panorama). 29 Lacan J., «Télévision», op.cit., p. 527. («ainsi l’affect vient-il à un corps dont le propre serait d’habiter le langage») 30 Lacan : «déranger la défense». On trouve, en effet, l'expression en question dans la leçon du 11 janvier 1977 Lacan J., Le Séminaire, livre XXIV, L'insu-que-sait de l'Une-bévue s'aile à mourre, leçon du 11 janvier 1977, Ornicar ?, n° 14, p. 7. : « L'inconscient, c'est qu'en somme on parle (…) tout seul. On parle tout seul, parce qu'on ne dit jamais qu'une seule et même chose – sauf si on s'ouvre à dialoguer avec un psychanalyste. Il n'y a pas moyen de faire autrement que de recevoir d'un psychanalyste ce qui dérange sa défense. » -Lors de sa présentation du thème du IX congrès de l'AMP, Jacques-Alain Miller a indiqué que « pour entrer dans le XXIe siècle, notre clinique devra se centrer sur le démontage de la défense, désordonner la défense contre le réel » (Miller J.-A., «Le réel au XXIe siècle. Présentation du thème du IXe congrès de l'AMP, La Cause du désir, n° 82, « Engouement pour la clinique », Navarin éditeur, 2012, p. 94). https://www.congresamp2014.com/fr/template.php?file=Textos/Desir-de-lanalyste_Pierre-Naveau.html (Naveau) 31 Lacan J., Le Séminaire, livre X, L’Angoisse, op. cit., p. 266. 32 Ibid., p. 208. 33 Cf. Lacan J., « Subversion du sujet » Ecrits, op.cit. p.815. 34 Cf. Lacan J., Le Séminaire, livre X, L’Angoisse, op.cit. p. 376.
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