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Di cosa si parla

Il lessico dell'Antropocene

12/4/2016

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di Elisabetta Corrà - La stampa TuttoGreen

Nelle scorse settimane il quotidiano britannico The Guardian ha pubblicato un esteso e articolato contributo di Robert MacFarlane (http://www.theguardian.com/books/2016/apr/01/generation-anthropocene-altered-planet-for-ever) sul modo in cui l’Antropocene - la nuova epoca in cui il cambiamento climatico e l’erosione degli equilibri chimici, fisici ed evolutivi della biosfera ci hanno ormai catapultati - sollecita l’emergere di nuovi modi di raccontare il Pianeta. MacFarlane non si limita però a discutere il tema da un punto di vista scientifico, perché sin dalle prime righe chiama in causa il “disagio di civiltà” di noi umani conseguente alla crisi ecologica. Era infatti il 2003, ricorda MacFarlane, quando il filosofo australiano Glenn Albrecht coniò il termine “solastalgia” per intendere “una forma di disagio psichico o esistenziale causato dai cambiamenti ambientali. Albrecht stava studiando allora gli effetti di una siccità prolungata e di attività minerarie su larga scala sulle comunità del Nuovo Galles del Sud”.


La domanda che serpeggia per tutto l’articolo è decisamente nuova, almeno per il nostro Paese in cui il dibattito su come raccontare il cambiamento climatico e il collasso della biodiversità non sembra aver ancora lasciato i confortanti confini della cronaca. Questa domanda riguarda infatti il lessico necessario per confrontarsi con una epoca storica senza precedenti, chiamata Antropocene, “le cui correnti energetiche sono interattive, le caratteristiche emergenti e la struttura remota”. A sollecitare il linguaggio è cioè un fenomeno multidimensionale, un “iper-oggetto”, come dichiara MacFarlane, che ricorda molto da vicino l’ibrido fra Natura e Cultura con cui Bruno Latour ha descritto l’intreccio irreversibile tra artefatti culturali e le loro conseguenze sul pianeta vivente. Tutto questo significa che siamo giunti a un punto di scontro con una realtà che impone una rivisitazione  del nostro modo di dire le cose. In America gli antropologi culturali hanno inventato una sorta di Lessico in cui rileggere parole di uso comune nella narrativa ambientale degli ultimi venti anni sotto una nuova lente. E in mezzo a petrolio, scioglimento dei ghiacci e altro spunta fuori anche “sogno”. Ma a ben vedere tutto questo articolo è punteggiato da termini che indicano non solo il crescente senso di impotenza e di scoramento per il disfacimento degli equilibri sostanziali che da quattro miliardi e mezzo di anni presiedono alla vita su questo Pianeta. Questi termini indicano anche l’urgenza di confrontarsi con fatti e scelte nostre che allungano le loro pesanti ombre sul futuro, costringendoci a pensare la catastrofe come una sovrapposizione di dimensioni temporali molto diverse dalla sorridente semplicità, per non dire altro, dello spot della Tim che dichiara “già passati” i fossili dei vertebrati marini del Cretaceo esposti in un museo di storia naturale. Ecco queste nuove parole della nostra nuova epoca: ciò che è andato (the gone), il-se-ne-sarà-andato (the will be gone), sogno (dream), taxa ridotti a spettri (spectral taxa), tracce (traces), eco (echo), perdita (loss), natura contemporanea (contemporary nature), scomparsa (disappearance), neo-fauna (neo fauna), lo statuto dell’atmosfera (the agency of the atmosphere), ritorno (return), rituali (rituals), testo originario (Ur text), memoria ecosistemica (ecosystemic memory), linee del tempo profondo (deep time lines), auto-mitologizzazione (self-mythologisation), colpevole di vertice (apex guilty), tempo - ombra (shadowtime).

Si sta facendo insomma strada l’ipotesi, sia nel mondo scientifico che nei settori di ricerca di indirizzo filologico e filosofico, che il soggetto della conoscenza fissato da Cartesio non sia più sufficiente per spiegarci il mondo così come lo abbiamo plasmato. Non si tratta più, in altre parole, di pretendere che la capacità di presa sulla realtà definita dalle comprensione cognitivamente efficace delle cose basti per cogliere gli avvenimenti, in una “fusione” totale di dato e interpretazione. Il cinquanta per cento dei vertebrati terrestri persi nell’ultimo mezzo secolo ( WWF 2014), lo scioglimento irreversibile di una porzione della piattaforma continentale nell’est Antartico (Nasa 2014), la defaunazione delle foreste tropicali e dei sistemi a savana (Dirzo 2014) riposizionano l’intero discorso sulla biosfera riproponendo la domanda più imbarazzante di un tempo come il nostro: in che modo possiamo mettere in narrazione, cioè tradurre in consequenzialità storiche e simboliche, ciò che ci è accaduto nel nostro uso del Pianeta?

Perché i neologismi citati da MacFarlane sono post it giganti su altrettante nuove categorie del reale, come la perdita irreversibile, l’anelito verso forme di vita dissolte senza nemmeno un assessment che le classifichi correttamente, distorsioni ontologiche tra ciò che è vivo e ciò che è artificiale, la disfatta di civiltà impastata con un senso di orgoglio disperato. È proprio la carenza di linguaggio ( ridotto a sigle, a tecnicismi, disconnesso dai contesti sociali), il linguaggio autoreferenziale privo di significato una delle condizioni della estrema povertà interiore con cui assistiamo da anni al disastro. Impotenti, disattivati, stupefatti come ha ricordato di recente Marco Focchi.

Come uscire da questo circolo vizioso di parola atrofizzata e di isolamento totale da una condizione globale che dovrebbe rivoluzionare ogni nostro gesto quotidiano e invece si stempera nella negazione di realtà del gadget?

Anthony Barnosky, il più grande esperto del mondo di paleo-termodinamica applicata alle faune del Pleistocene, che insegna a Stanford, ha fatto un appello, in una intervista su Oximity.com, a superare i confini tra scienza e humanities: “Evitare il collasso sociale significa costruire ponti tra la scienza e il resto del mondo. I problemi che fronteggiamo sono infatti interdipendenti, e le scoperte scientifiche e tecnologiche non saranno sufficienti per produrre soluzioni. Su scala globale, gli ostacoli includono fattori politici, economici e sociali. Oltre alla scienza, le soluzioni richiederanno una effettiva collaborazione degli ecologi e dei fisici con i sociologi e gli esperti di scienze umane. In altre parole, dobbiamo riconoscere le interconnessioni tra questioni apparentemente distinte”. La piattaforma di discussione dell’università di Stanford per questa impostazione che in Italia suona quasi extraterrestre è The Millennium Alliance for Humanity and Biosphere (MAHB.STANFORD.EDU), un blog ricchissimo di notizie e commenti in cui i pittori stanno alla pari con i cli
matologi.

Perché tutto questo ha a che fare con la capacità di raccontare storie? E perché dovremmo metterci a riflettere su come raccontare una storia sia utile per stare sul Pianeta in modo più responsabile e critico? La risposta, aperta e sempre dinamica, mai data una volta per tutte, ma comunque una risposta, ce la fornisce il discorso psicoanalitico. Come ha spiegato in termini molto accessibili lo psicoanalista inglese di Hampstead, Londra, Stephen Grosz a Jon Henly del Guardian  (The psichoanalyst’s tale - why we need to tell stories to relieve our sorrow ): “La storie più importanti talvolta non possono essere raccontate perché non ci sono le parole per farlo. Una gran parte del mio lavoro riguarda persone che vengono da me con una storia che non sono in grado di raccontare. Possono essere anche intelligenti, dotate di ottime capacità espressive, ma non possiedono le parole. In qualche modo, allora, tramite l’analisi, entrano in possesso della loro storia”. Se allarghiamo il discorso, intendendo la psicoanalisi non solo come pratica clinica, ma anche come pensiero critico sul mondo, e quindi come politica, possiamo dire che costruire una storia vuol dire soprattutto fare un lavoro di costruzione del prima e del dopo, del come e del dove. Una storia è, al contempo, una possibilità, una opportunità di comprensione di tutte quelle interconnessioni, contingenze, strade senza uscita che la vita comprende. Una storia è un modo di sperimentare più opzioni, restando ben saldi sulla responsabilità della scelta. Una storia funzionante, una storia raccontata, non è archeologia o museo, è percorso dotato di significati che in quanto assunti dal soggetto gli riconsegnano l’opportunità di vivere. E questo vale più che mai per quanto ci sta accadendo con l’atmosfera e la biosfera, in una generale indifferenza che non è che il sintomo di un tracollo vertiginoso dell’esperienza, nei termini studiati da Agamben. Su questi punti di faglia - ritrovare un linguaggio e inventarcene anche uno nuovo - si gioca buona parte di quel “consenso al cambiamento” auspicato dal movimento ambientalista sin dai tempi d Rio 92.
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    Marco Focchi riceve in
    viale Gran Sasso 28,
    20131 Milano
    tel. 022665651.

    ​
    Possibilità di colloqui in inglese, francese, spagnolo.
    [email protected]

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