Intervento del filosofo Riccardo Fancilullacci presentato alla tavola rotonda l'11 maggio 2012 alla Casa della Cultura a Milano sul tema "L'eredità di Lacan nel mondo contemporaneo" in occasione della pubblicazione del Seminario XX, "Ancòra"di Lacan. di Riccardo Fanciullacci Chi si avvicina al Seminario XX, Ancora con l’intenzione di leggere “il seminario sul godimento femminile” e poi lo legge effettivamente ha delle sorprese. Io le ho avute. È vero che nel 1972-73, quando Lacan pronuncia queste lezioni, il movimento delle donne si è già sollevato e sta agitando il mondo occidentale, dalle piazze alle organizzazioni politiche fino alle camere da lette, cioè fino al luogo che Lacan dichiara fin dall’inizio di voler mettere al centro («comincerò col supporvi a letto, un letto a pieno impiego, in due», p. 4 [della nuova edizione Einaudi, a cura di A. Di Ciaccia]). È vero altresì che Lacan sa di questo movimento e lo evoca in più di un’occasione: anche se le evocazioni esplicite sono più che altro ironiche o critiche, non credo ci si debba concentrare solo su di esse per mettere a fuoco la questione. Proprio quando suppone i suoi ascoltatori a letto, Lacan aggiunge che le faccende di letto non sono senza rapporto con il diritto e questo è un modo di raccogliere uno dei punti fondamentali del discorso del femminismo degli anni ’70 e cioè che il “contratto sociale” si regge su un tacito “contratto sessuale”, cioè su una tacita regolazione della differenza e del rapporto sessuali. Si obietterà: “ma Lacan dice che non c’è rapporto sessuale!”. Esattamente: non c’è rapporto sessuale, cioè le cose in quella faccenda non vanno da sé, non c’è la complementarità che di due fa uno (l’uno degli innamorati o anche l’uno del figlio), ma c’è, c’è stata, una regolazione di questo non rapporto che nascondeva il non esservi di questo, definendo un gioco delle parti. Il movimento delle donne, col suo stesso sollevarsi, mostra che quella regolazione non funziona più e dunque rende pienamente visibile il non-rapporto, il fatto che il rapporto non abbia mai smesso di non scriversi. A Lacan va riconosciuto il merito di averlo effettivamente visto prima di alcune (non tutte) di quelle che, però, lo hanno reso visibile. È vero, infine, che Lacan afferma: «credo al godimento della donna in quanto esso è in più» (p. 72) e che questa affermazione va letta anche in rapporto a tutto lo scenario appena richiamato e dunque anche come una sorta di proposta teorica al Mouvement de Liberation de la Femme, fatta a distanza – una proposta esplicitata poco prima quando Lacan dice che, se l’MLF parlasse di “godimento al di là del fallo”, avrebbe «un’altra consistenza» (p.70). Tutto questo è certamente vero e incornicia le pagine, pochissime in fin dei conti e sparse qua e là, in cui Lacan effettivamente si sofferma su questo godimento “supplementare, ma non complementare” (p. 69), in particolare la pagina sempre evocata in cui si troverebbe “l’analisi” lacaniana della mistica, della scrittura di Teresa d’Avila e Giovanni della Croce, oltre che “lo studio” della scultura del Bernini, una pagina (p. 71-72) che effettivamente non è neppure una pagina intera e in cui, se vengono senz’altro offerte indicazioni decisive, è altrettanto vero che non vengono offerte altro che indicazioni e citati dei nomi. Carico di attese a causa di tutti i rinvii iperbolici a questa pagina, non posso nascondere di aver provato dapprima una sorta di delusione: “non può essere vero che tutto si riduce a queste dieci righe”, mi dicevo. Sia chiaro: so bene che Lacan ha detto queste cose per primo e che è sciocco, dopo averle viste vere grazie a lui, obiettargli che erano ovvie. Ciò nonostante, di solito, quando si rimanda a un testo, questo testo è poi più ricco del rimando, dice più di quello che dice il testo che a questo rimanda, mentre qui no: quando si dice che Lacan sottolinea come nella scultura del Bernini traspaia un godimento femminile che non è fallico, si sta dicendo esattamente tutto quel che Lacan dice su quella scultura. Sono rimasto sorpreso e dubbioso fino a che non ho formulato l’unica ipotesi che mi pareva ragionevole: “forse non è vero che al centro di questo seminario sta il godimento non-tutto de La donna barrata”. A questo punto ho riletto dall’inizio e il testo ha risposto, anche in modo esplicito con frasi che prima avevo come “non visto”, ad esempio questa: «Ho parlato un po’ dell’amore. Ma il punto cardine, la chiave di quanto ho proposto quest’anno riguarda il sapere, a proposito del quale ho sottolineato che il suo esercizio non poteva rappresentare altro che un godimento» (p. 131). La chiave è dunque il nesso tra sapere e godimento, cioè tra il godimento e la batteria dei significanti (S2). È a partire da questo chiarimento sul godimento in generale, che è anche chiarimento generale sui significanti e sul linguaggio, che si dovrà situare la distinzione tra il godimento fallico e il godimento in più, cioè la distinzione tra le due possibili posizioni logiche in cui ci si può trovare rispetto al “godimento del significante”. Questo, tra l’altro, significa che l’affermazione “non c’è rapporto sessuale” parla sì di uomini e donne, ma in quanto innanzitutto parla del linguaggio e dell’essere: sono innanzitutto il linguaggio e l’essere a non fare uno. Il parlare-pensare, che è niente meno che ciò che caratterizza «l’essere parlante, quelli che chiamiamo gli uomini [gli esseri umani]» non è dire o rappresentare l’essere, le cose stesse, ma è una modalità di godimento. Quando si intravede che cosa diventa l’essere umano in quanto parlêtre in questo Seminario, allora si può cogliere la differenza tra le due forme di sessuazione. Innanzitutto, Lacan ricorda (forse pensando ad Heidegger) che l’essere parlante non è signore del linguaggio, ma lo abita (p. 91), poi aggiunge che questo abitare è un godimento («l’essere, parlando, gode», p. 99). Che significa? Possiamo intenderlo in due modi, che sono compatibili, ma dei quali uno è più radicale dell’altro. Il primo modo dice che l’essere parlante, quando parla, gode («là dove parla, gode», p. 109); il secondo, più radicale, dice che l’essere parlante, è parlando che gode, cioè che il godimento non è senza significante. Ora dirò qualcosa solo sul secondo senso. Nel Seminario XX (ma anche già nei tre precedenti), il godimento non è ciò che il significante viene a sostituire con un’operazione metaforica che opera come interdizione. Vuol dire: il godimento non è ciò che è perduto per via del fatto che entriamo nel linguaggio e di cui non godiamo che attraverso dei resti: non è il resto che rimane impigliato in un’operazione di interdizione che separa da un godimento iniziale, il paradiso – che diventa perduto. Ora il godimento diventa ciò che è della stessa sostanza del linguaggio (è inter-detto p. 114)… solo che il linguaggio non è una sostanza (p. 11) e in questo modo ritornano i temi del vuoto, della contingenza, del fallire (p. 56), dell’inconsistenza dell’Altro (cioè del fatto che non c’è garanzia del linguaggio). Insomma, vorrei provare a riformulare così: non solo non c’è il godimento che immaginariamente associamo all’idea di un rapporto sessuale che ci sarebbe (all’idea di un incastro senza resti), ma non c’è nemmeno mai stato, per cui non ha neppure senso dire che è stato perduto o che è perduto da sempre (un’espressione insensata).
Questo ha conseguenze immediate, anche sul piano clinico: non solo non c’è da ritrovare il godimento perduto, ma neppure da “allentare” le maglie di quell’interdizione censoria che farebbe sì accedere alla cosa, ma solo per frammenti. Se ora “interdizione” va a significare che il godimento è nel detto, nella testura del linguaggio, allora il punto sarà sbroglairsela (p. 83) diversamente con i significanti. Ora, se il godimento è della stessa stoffa del significante, allora non va inteso come godimento dell’essere (dove ciò che si gode, cui si accede nel godere, è l’essere stesso, l’essere finalmente). Non è godimento immediato dell’essere, ma non è neppure godimento dell’essere mediato dal linguaggio: il luogo del godimento è il significante. L’essere è solo un supposto, un effetto del dire (p. 113). Questo può far pensare ad una deriva verso una sorta di idealismo del linguaggio (non c’è altro che linguaggio, tutto il resto sono effetti di linguaggio): Lacan, in qualche modo, lo ammette (p. 115), ma si tratta di un’affermazione facile da fraintendere. Il fatto è che i significanti non sono qui idee o rappresentazioni: il rapporto ad essi non è di comprensione, ma è di godimento. Non a caso, Lacan, verso la fine, comincia a dire che siamo “affetti dai significanti” e parla dei significanti come di affetti (p. 133), cioè poi come concrezioni di godimento. L’essere della significanza è l’essere del corpo godente (p. 67). Difeso questo punto, Lacan è quasi deduttivo nel trarne tutte le conseguenze: il linguaggio è così radicalmente apparecchio di godimento (p. 53), che non va più bene chiamarlo “linguaggio”. È lalingua. Il linguaggio è ciò che de lalingua elucubra la linguistica, ma in sé e per sé non esiste (p. 132). Il corpo godente, quello intrecciato a lalingua, non è il “mio”, non coincide con i confini dell’identità personale: il mio corpo è a sua volta un effetto della catena significante, cioè dei circuiti del godimento (pp. 134-137). «L’io non è un essere, è un supposto a ciò che parla» (p. 115). Anche il concetto di inconscio si ri-situa: c’è un dire, cioè un sapere, cioè un godimento, di cui il supposto parlante non sa, che gli sfugge (p. 133): «parlo con il mio corpo, senza saperlo. E dunque dico sempre di più di quanto io non sappia» (p. 114). E si trasforma anche l’idea del pensare: il pensiero è scrittura, cioè arrangiamento di significanti. (Questo vale sempre, mentre la differenza del discorso dell’analista è che ha attraversato il sogno per cui invece pensare sarebbe rappresentare e l’essere sarebbe il rappresentabile; è un discorsi che si pratica come scrittura del godimento). Forzando un poco la mano, potremmo voler trarre questa conclusione: quel che c’è è una superficie (p. 88) dove si articolano godimenti e, talvolta, e-viene un soggetto (p. 136). Lacan però, con il capitolo sui nodi borromei, ci mette in guardia dall’immagine della superficie: è, come minimo, una superficie bucata, in cui neppure il circuito del godimento si chiude senza impasse. Queste impasse che fanno andar male le cose sono, però, anche la condizione di quegli incontri inanticipabili (p. 89, 139) che, con un po’ di invenzione, possono diventare un amore degno di questo nome. Cioè che si concatena, ma senza assicurazione (pp. 139-140).
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Agosto 2024
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