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Di cosa si parla

Il declino delle identità forti

10/6/2019

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di Eugenio Diaz

Il lavoro al tempo del capitalismo impaziente, quello che cerca di ottenere il massimo beneficio nel più breve tempo possibile, genera condizioni lavorative, sociali e soggettive che, nei soggetti dell'ipermodernità, dell'edonismo di massa, della gestione generalizzata, producono nuova indifferenza, maggior precarizzazione, distruzione del legame sociale e, prendendo il titolo di uno dei libri di Richard Sennett, Corrosion of Character (1).


A partire dal libro di Sennett, il lavoro basato sulla modernità industriale si può suddividere in due periodi. 
Quello chiamato da Zygmund Bauman "solido", riferito in modo apparentemente arbitrario ma utile, al momento del terremoto di Lisbona del 1755, dove non potendosi “[... ] fidare della natura ostile, il mondo è posto sotto l'amministrazione umana […] È il tempo delle grandi fabbriche che impiegano migliaia di lavoratori in enormi edifici di mattoni, fortezze destinate a durare quanto le cattedrali gotiche.

Il primo di questi periodi si organizza grazie alla credenza in un Altro coerente – sia questo il padrone, il capo, il proprietario più o meno paternalista, includendo – e in che modo! – la sua ferocia e anche la sua credenza nell'ascensore sociale. Un’ascensore sociale dove grazie al legame e alla fedeltà a un'azienda, al saper fare, all'interesse per un mestiere e all'identificazione che produce, si ottiene una denominazione, quella di lavoratore, e la possibilità di un nuovo posto nel sociale, per sé e per i propri cari.

Una tale denominazione offriva una identità forte con cui rappresentarsi nel mondo, producendo un'illusione d’essere. Qui il lavoro sarebbe posizionato come qualcosa di interno al soggetto, anche se per molti al prezzo della propria disumanizzazione o derealizzazione. Con questi molti ci troviamo nel passaggio di Homo faber, locuzione latina che significa "l'uomo che fa o costruisce", usato da Marx a Hanna Arendt nelle loro varie critiche sulla strumentalizzazione che il lavoro produce – nell’animal laborans, colui la cui vita viene a mancare di mondo, o almeno di ciò che viene letto come mondo.

Vendiamo qui anticipato ciò che negli anni Cinquanta Lacan ha ironicamente chiamato, subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, "l'uomo liberato della società moderna, un soggetto condannato alla più formidabile delle galere". (2) 
Il secondo periodo, in cui siamo ancora immersi, va sotto un'altra logica. Caduto  l’Altro, il "solido" dell'Altro, appare un mondo del lavoro in cui parole come cambiamento, rischio, flessibilità, imprenditorialità, valutazione producono – detto più radicalmente: promuovono – individui sempre più distaccati, più soli. In questo secondo periodo, la denominazione non ha lo stesso effetto né lo stesso senso. Il lavoratore "è piuttosto un figurante o una cifra davanti alle utilità temporanee di una catena di montaggio, dove fuori restano a vagabondare le persone in eccesso”. (3)

Quest’era, dominata dalla produzione massiccia e industriale di oggetti per il consumo, forma una logica in cui il necessario, il bisogno, è esploso occupando l'intero campo della vita quotidiana, confondendo i diritti con i desideri e i desideri  con i bisogni. 

Qui non si tratta più tanto del lavoratore e della sua elevazione allo status di cittadino, quanto del consumatore. Consumatore consumato dagli oggetti che la tecnoscienza mette a sua disposizione e da un legame col lavoro che, come sottolinea Manuel Fernández, "dovrebbe servire per vivere, non morirne”. (4) 

La corrosione del carattere di Sennet può essere tradotta come un sintomo prodotto dalla sconnessione sociale, in questo nuovo mondo di lavoro che "nel complesso è sulla buona strada per diventare una macchina, il cui principio è il massimo rendimento e la massima espansione" (G. Anders, 1988). È un sintomo più difficile da collegare a una soggettività di cui rendersi responsabili.

E senza il sintomo, che è legato a un senso tutto suo, i processi di segregazione nel mondo globalizzato sono sempre più diffusi e inquietanti, come aveva segnalato Jacques Lacan nel 1967. Qui si apre una domanda che alimenta la discussione. Lavoro: alienazione o separazione? 

1 R. Sennet, L'uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, Feltrinelli, Milano, 1999 (R. Sennet, The Corrosion of Character, The Personal Consequences Of Work In the New Capitalism, Norton, New York-London, 1998 
2 J. Lacan, "Aggressività in psicoanalisi", in Scritti 1, Einaudi, Torino, 1974
3 F. Vilà y otros, A pragmática de la fragilidad humana. Vida y trabajo en el capitalismo impaciente, EdiUOC, Spagna, 2016


Traduzione di Micol Martinez​
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