Presentiamo, in una sintesi redazionale, il resoconto degli argomenti esposti nell’intervento del prof. Mario Maj al Congresso tenutosi a Cagliari dal 21 al 23 settembre 2017, con il titolo La crisi del paradigma neo-kaepeliniano. È una chiara illustrazione delle difficoltà a cui sono andati incontro i presupposti fondativi che hanno sostenuto l’impresa del DSM dalla terza edizione del 1980 alla quinta del 2013. È anche un tentativo di delineare le linee prospettiche su cui tenta di muoversi la psichiatria dopo il fallimento del progetto diagnostico-statistico preteso ateorico. Da un lato è manifesto l’obiettivo di far convergere i più recenti orientamenti psichiatrici con la ricerca neuro-biologica per dare un fondamento organico alla formulazione dei nuovi schemi di lettura delle psicopatologie, e mantenere quindi la rotta terapeutica ben ancorata alla farmacologia. Dall’altro appare trasparente la necessità di tener conto dei fattori culturali, sociali, psicologici, di tutto quell’insieme di strati cioè che fanno vacillare il confine tra normalità e follia e che rendono impossibile definire una relazione di causalità lineare tra il farmaco somministrato e il suo effetto. La psichiatria sembra così riconoscere come inaggirabile l’esistenza del soggetto, il fatto che l’uomo è un essere parlante e che il linguaggio, con tutte le sue implicazioni relazionali, può dirottare l’effetto atteso di un farmaco, come può invece indurre un effetto terapeutico che viene di solito squalificato con il nome di placebo e che, grazie alla psicoanalisi, possiamo invece riconoscere nella sua potenza e nella sua verità come l’azione del transfert. Una nuova psichiatria si sta sviluppando presentandosi con nuovi obiettivi, nuovi modelli, nuovi strumenti terapeutici, e richiede una riflessione sulle nuove basi epistemologiche che stanno emergendo. Per quarant’anni anni il filone principale della pratica e della ricerca psichiatrica a livello internazionale è stato orientato dal paradigma neo-kraepeliniano lanciato negli anni ’70 da Gerald Klerman, che si fece promotore di quel che divenne il credo neo-kraepeliniano. Gli assunti di base di questo credo erano che il dominio clinico e scientifico della psichiatria consistesse di malattie mentali discrete, che ci fosse sempre in psichiatria un netto confine tra normalità e patologia, che la validità delle suddette entità di malattia sarebbe stata gradualmente incrementata attraverso studi di laboratorio, che una volta validate tale entità discrete di malattia la covarianza dei sintomi sarebbe stata spiegata, come sempre è avvenuto in medicina generale, da un’eziologia comune sottostante. Vi era cioè l’aspettativa che ogni categoria diagnostica, una volta validata, avrebbe rivelato un’eziologia specifica e, una volta validate, questa entità di malattia sarebbero state bersaglio di interventi terapeutici specifici.
Nessuno di questi assunti ha trovato conferma nella ricerca nei quarant’anni successivi, per cui il paradigma neo-kraepeliniano è entrato in crisi, e questa crisi è emersa con chiarezza nel dibattito che ha fatto seguito alla pubblicazione del DSM 5 (2013). Secondo Thomas Kuhn la crisi del paradigma dominante nell’ambito di una disciplina genera una transizione da un periodo di scienza normale, dove il paradigma rappresenta un punto di riferimento comune, a un periodo di scienza straordinaria, in cerca di diversi punti d’appoggi e di stabilità. Non c’è dubbio che la crisi del paradigma neo-kraepeliniano abbia generato nella psichiatria un simile periodo di scienza straordinaria. Stanno così emergendo nuovi assunti che contraddicono il paradigma neo-kraepeliniano, che già stanno guidando e sempre più guideranno la ricerca o la pratica in psichiatria. Quali sono questi nuovi assunti? Il primo è che il dominio clinico della psichiatria non consiste di entità discrete di malattia bensì di pattern, di esperienze riferite, in gergo medico sintomi, e di comportamenti osservati, in gergo medico segni, tra loro intercorrelati e che traggono validità predittiva e pragmatica, ovvero utilità clinica nella possibilità di individuare inferenze cliniche rilevanti per il decorso successivo e per la terapia. È significativo che l’espressione pattern di disturbo mentale al singolare compaia nel titolo di una delle ultime pubblicazioni di Emil Kraepelin, del 1920, in cui Kraepelin esplicitamente ritrattò la sua precedente formulazione, poi diventata classica, secondo cui in psichiatria esistevano entità discrete di malattia i cui prototipi erano la demenza precoce e la malattia maniaco-depressiva. in un certo senso così il paradigma neo-kraepeliniano era in conflitto con la posizione già sostenuta dallo stesso Kraepelin verso la fine della sua carriera. Oggi non si assume più che questi pattern di disturbi mentali siano entità naturali, cioè entità di malattia che demarcano la natura dividendola nelle sue giunture, come si diceva negli anni ’70 e ’80. Gli attuali sistemi sistemi diagnostici sono al contrario probabilmente una collezione di entità intrinsecamente differenti solo alcune delle quali, o alcuni sottotipi, si avvicinano al modello dell’entità naturale di malattia. Lo sosteneva già Karl Jaspers un secolo fa sottolineando l’intrinseca eterogeneità dei disturbi psichici e suddividendoli in tre gruppi: le vere entità di malattia, come la paralisi progressiva; i circoli, come la schizofrenia e la malattia depressiva; e i tipi, a cui riconduceva le nevrosi e le personalità abnormi. La nozione neo-kraepeliniana secondo cui questi pattern corrispondono a entità indipendenti è stata ampiamente disconfermata dalla ricerca di questi ultimi decenni. Sappiamo oggi che la comorbilità, ovvero la coesistenza di questi pattern, non è un artefatto, ma una caratteristica intrinseca della psicopatologia. La ricerca recente ha documentato che l’intero ambito della psicopatologia può essere ricondotto a una serie di network, di sintomi e di segni che non sono affatto tra loro indipendenti ma sono anzi densamente interconnessi, con la possibilità di individuare dei bridge symptoms, cioè sintomi che fanno da ponte tra un network e l’altro. Le prove di cui attualmente disponiamo non confermano l’idea di un confine netto tra normalità e patologia in psichiatria. La ricerca sui principali pattern di disturbo mentale suggerisce piuttosto una continuità tra le forme pienamente diagnosticabili che giungono alla nostra osservazione clinica e varie esperienze, comportamenti, o tratti che sembrano essere comuni alla popolazione generale. Lungo ciascuno di questi continua la soglia per la diagnosi clinica deve essere fissata arbitrariamente in base al livello di gravità o di compromissione funzionale, e deve essere validata in base al suo valore predittivo per gli esiti e la scelta del trattamento. Non sorprende che questa soglia arbitraria possa cambiare nel corso del tempo con le disponibilità di nuovi interventi terapeutici. Anche in altre branche della medicina. Per diverse patologie comuni la soglia per la diagnosi si è modificata nel corso degli ultimi decenni in seguito all’introduzione di nuovi interventi terapeutici. È stato il caso dell’ipertensione, è stato il caso del diabete, è stato il caso anche di alcuni tumori e per alcune di queste patologie la soglia per la diagnosi rimane tutt’ora controversa. Per esempio la soglia del diabete in gravidanza è stata modificata alcuni anni fa e rimane ancor oggi discussa. Così vale per l’abbassamento della soglia per la diagnosi clinica di depressione negli ultimi decenni, che è andata di pari passo con lo sviluppo e con l’efficacia di nuove terapie come gli SSRA (Selective Serotonin Releasing Agent) e varie psicoterapie. I farmaci più recenti, a differenza dei primi farmaci antidepressivi, come i triciclici e gli anti MAO (Monoamine Oxidase Inhibitor) che a differenza dei primi farmaci antidepressivi risultano attivi anche nelle forme più lievi di depressione. Anche il riconoscimento di una nuova condizione come di interesse medico dipende in modo cruciale dalla documentazione di interventi terapeutici efficaci. L’infertilità era percepita come un fatto di natura, ma è diventata una patologia nel momento in cui si è potuto intervenire per trattarla. Prima dell’invenzione delle lenti la presbiopia era considerata una conseguenza fisiologica dell’invecchiamento. È stata considerata una malattia a partire dal momento in cui si è potuto documentare la possibilità di intervento su di essa. Questo principio generale vale anche per la psichiatria. Nuove condizioni emergenti saranno considerate di pertinenza psichiatrica nella misura in cui potremo documentare la possibilità di intervenire su queste condizioni sul piano terapeutico. Un altro assunto fondamentale che sta emergendo contraddice il paradigma neo-kraepeliniano è che l’idea di una eziologia semplice e lineare non può essere esteso ai disturbi mentali, giacché essi sono il prodotto di un’interazione complessa di molteplici fattori di vulnerabilità. Non possiamo più aspettarci scoperte tipo spirocheta in psichiatria. Se l’aspettativa è che la ricerca eziologica in psichiatria debba scoprire la causa, per esempio della schizofrenia, nello stesso modo in cui il treponema pallidum lo è della paralisi progressiva, è allora questa aspettativa a essere inadeguata, non il progresso della ricerca eziologica in psichiatria. Questo progresso è andato in direzione diversa da come ci si aspettava quarant’anni fa. Non ha preso la direzione di scoprire le cause specifiche dei vari disturbi mentali, ma quella di identificare, validare e anche pesare dal punto di vista epidemiologico i vari fattori di vulnerabilità e protettivi coinvolti, e di costruire modelli dell’interazione complessa tra questi fattori. La grande maggioranza di questi fattori – oggi sappiamo – non sono specifici di determinati pattern di disturbo mentale. Ciò vale anche sul piano genetico e su quello ambientale. Emblematico di questa situazione è il modello del gradiente neuro-evolutivo che postula un gradiente di frequenza e di intensità decrescente della compromissione del neuro-sviluppo, che va dalla disabilità intellettiva ai disturbi dello spettro autistico, al DHD, alla schizofrenia, al disturbo bipolare. Questo gradiente ha trovato validazione nella constatazione che una compromissione del livello cognitivo è presente in tutte queste patologie, ma con una frequenza e un’intensità decrescenti lungo questo spettro. Piuttosto che cercare specifiche cause genetiche o ambientali specifiche per i vari disturbi mentali, dobbiamo studiare una molteplicità di fattori genetici e ambientali per identificare costellazioni di questi fattori che si associno in maniera significativa a determinati pattern di disturbo mentale. Emblematico è il caso della schizofrenia. Fino a non molti anni fa si riteneva che la vulnerabilità alla schizofrenia fosse legata a un unico gene, o a un numero molto ristretto di geni. Molti ricorderanno Tim Crow, autore di molti lavori in cui sosteneva l’esistenza di un unico gene per la vulnerabilità alla psicosi caratteristico della specie umana. O Samuel Gershon che sosteneva che i geni implicati nella vulnerabilità alla schizofrenia non potevano essere più di quattro, o cinque, o sei. Oggi si ritiene invece che i soci implicati siano oltre cento, e sembra improbabile che tutti questi geni conducano a un solo percorso patogenetico. Ken Kendler suppone saremo in grado di identificare un certo numero di sacche di coerenza biologica che riflettano percorsi relativamente discreti capaci di contribuire al rischio di malattia. Si spera insomma che per la schizofrenia possa accadere qualcosa di analogo a quel che è accaduto per il diabete melito, dove approfondendo la funzione biologica di alcuni geni si sono potuti identificare una serie di percorsi biologici che afferiscono tutti a quella sindrome. È possibile però che nel caso della schizofrenia queste sacche di coerenza biologica non conducano al disturbo mentale propriamente detto, bensì ad alcuni subfenotipi, mentre la sindrome vera e propria emerge a un livello più elevato unitamente a un’elaborazione e integrazione dei segnali biologici. In altri termini la relazione tra i subfenotipi e il disturbo mentale vero e proprio potrebbe essere solo probabilistica anziché lineare. Una varietà di processi di ordine superiore, psicologici e culturali, interviene tra il livello biologico e quello delle manifestazioni psicopatologiche per modulare, cioè ad aumentare a o a ridurre la probabilità che quei processi biologici si traducano in manifestazioni psicopatologiche. Gli stessi singoli sintomi psichiatrici devono oggi essere considerati oggetti ibridi, perché anche se emergono da un segnale biologico, non possono essere identificati con quel segnale, ma rappresentano il prodotto di un processo attraverso cui il soggetto dà forma all’esperienza primaria biologicamente determinata, utilizzando schemi in parte condivisi, socio-culturali, e in parte personali. Abbiamo oggi già alcuni pattern di disturbi mentali, per esempio disturbi del comportamento alimentare dove, malgrado la possibile presenza di alcune variabili neuro-biologiche, sicuramente il livello a cui il disturbo emerge è più elevato, psicologico o socio-culturale. Anche nel caso di disturbi come la schizofrenia ci potrebbe essere una distanza tra qualsiasi meccanismo neuro-biologico e il livello a cui emerge l’entità psicopatologica del disturbo. Se fattori biologici possono essere individuati come fattori di rischio, il livello a cui il disturbo emerge è più elevato, psicologico, e socio-culturale. A questa distanza si riferiva già un secolo fa Karl Jaspers quando scriveva che la situazione è analoga all’esplorazione di un continente sconosciuto da direzioni opposte. Conosciamo soltanto gli anelli finali della catena di causalità dal cervello alla psiche e viceversa e dobbiamo avanzare da entrambi questi punti terminali. Dai tempi di Jaspers più anelli sei questa catena di causalità sono stati identificati ma non c’è dubbio che il gap rimane tutt’ora e, come Jaspers sosteneva, è probabile che questo gap posa essere in futuro ridotto, ma non annullato. Per ridurre questo gap si può attuare è di ridefinire e dissezionare i sintomi e i segni complessi. Mentre infatti negli ultimi quarant’anni le sindromi psichiatriche sono state più volte ridefinite, le definizioni dei sintomi e segni psichiatrici sono rimaste immodificate, con il risultato che oggi molte di queste definizioni sono obsolete e troppo distanti dal livello della ricerca neuro-biologica. Possiamo portare come esempio le definizioni di delirio e di anedonia presenti nel glossario del DSM V. Si possono poi identificare fenotipi intermedi esperienziali che si aggiungono a quelli comportamentali, in grado di rappresentare un obiettivo per la ricerca neuro-biologica. L’esempio qui è quello della salienza aberrante. Ancora: ridefinizione e dissezione delle dimensioni oggi identificate, siano esse dimensioni trans-nosografiche, o siano dimensioni all’interno di un determinato pattern di disturbo mentale. Inoltre: ridefinizione di gruppi e spettri dimensionali più ampi da porsi come obiettivo della ricerca neuro-biologica. Recupero poi di elementi non sintomatologia degli elementi dell’informazione clinica. I nostri attuali sistemi diagnostici infatti, come gli strumenti di valutazione a essi collegati concentrano l’attenzione sui sintomo sui segni psichiatrici, mentre ci sono altri elementi, variabili precedenti e variabili concomitanti che andrebbero recuperati per costruire fenomi più complessi che fungano da obiettivo per la ricerca neuro-biologica. Ridefinizione poi degli stadi di alcuni disturbi. Lo si sta tentando per la schizofrenia e per il disturbo bipolare. In alcuni casi gli stadi precoci possono rappresentare un obiettivo più significativo per la ricerca rispetto agli stadi più avanzati, dove intervengono vari fattori confusivi. Infine: esplorazione delle dinamiche interne ai network di sintomi. Si tratta di individuare fattori di vulnerabilità per lo più trans-nosografici, come il trauma precoce per giungere a determinati nodi nei network di sintomi. Un ultimo assunto emergente sul versante terapeutico, che apertamente contradice l’impostazione neo.kraepeliniana è che la relazione tra un determinato pattern e la risposta a un determinato trattamento non è lineare ma soltanto probabilistica, e che la complessità etiopatogenetica deve riflettersi nell’integrazione di interventi di diversa natura. Non c’è, in altri termini, la pallottola intelligente per colpire un preciso disturbo. L’identificazione corretta di un determinato pattern di disturbo mentale, ovvero la diagnosi tradizionale, ha alcune implicazioni terapeutiche ma è sempre necessaria un’ulteriore caratterizzazione clinica del singolo caso sia riguardo a varie caratteristiche psicopatologiche sia ad altre varianti precedenti e concomitanti. In questa ulteriore caratterizzazione clinica già oggi possono entrare in gioco alcuni modelli alternativi agli attuali sistemi diagnostici proposti negli ultimi anni sia sul versante psicopatologico sia su quello neurobiologico. Sul versante psicopatologico abbiamo l’esempio del modello trans-diagnostico della psicosi di Jim van Os. Le dimensioni identificate in questo modello possono essere prese in considerazione nella caratterizzazione del caso diagnosticato come schizofrenia per meglio mirare l’intervento terapeutico Sul versante neurobiologico l’esempio è di nuovo quello del gradiente neuro-evolutivo, perché alcune delle varianti antecedenti e concomitanti sono attinenti a quel modello. Non disponiamo ora di strumenti che permettano di esplorare in modo sistematico, standardizzato, queste variabili antecedenti e concomitanti, ma ci stiamo lavorando, anche in dialogo con l’OMS. Il machine learning potrà aiutare nella personalizzazione delle cure, ma questa espressione ha due accezioni, non solo diverse ma conflittuali, in attrito tra loro. Da un lato l’espressione personalizzazione delle cure viene intesa nel senso dell’utilizzo di nuove tecnologie per raccogliere e analizzare dati che diano la possibilità di individualizzare la cura. Dall’altro personalizzazione delle cure viene idea nel senso di approfondire il rapporto terapeutico con il paziente dando spazio alla sua narrativa Un altro principio che non può essere ignorato è che tutte le terapie psichiatriche, comprese quelle farmacologiche, non agiscono in un vacuum, come presupponeva il paradigma neo-kraepeliniano, ma all’interno di un contesto sociale il cui impatto spiega una questa significativa della variabilità dell’esito dell’intervento. In altri termini, anche se la prescrizione farmacologica è assolutamente corretta, l’esito dell’intervento può risultare sfavorevole per l’interposizione di fattori contestuali di cui non si è tenuto conto, fattori che hanno a che fare con il paziente, con le dinamiche familiari, con il contesto macro-sociale, o che hanno a che fare con lo stesso terapeuta, e con la relazione dello psichiatra con il paziente. Si tratta quindi non di cercare nuovi interventi, ma di cercare di ridurre il gap tra i mezzi disponibili e il modo in cui funzionano per via della interferenza dei fattori suddetti.
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