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Di cosa si parla

I colloqui preliminari in psicoanalisi

15/2/2021

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​Intervento nel dibattito
Inizi d'analisi tenutosi online il 25 settembre 2020

di Joaquín Caretti
 

Ci interessa in questo secondo dibattito mettere in discussione l'inizio di un'analisi. Quando inizia? Come inizia? L'analista può fare qualcosa per favorirne l'inizio? C'è una differenza tra l'inizio di un'analisi e l'ingresso in essa? Quale sarebbe la funzione dei cosiddetti colloqui preliminari?
Ci sono molti modi di iniziare, che sono tuttavia accompagnati da qualcosa come una costante. Questa costante, lo notiamo ogni volta, è che il soggetto è stato toccato da un disagio superiore alla sua capacità di risposta, abituale o nuova, che è diventato per lui un enigma. Il soggetto ha sperimentato l'incontro con il reale, certamente fastidioso o inquietante, che funziona come un sassolino nella scarpa o come un trauma – qualcosa che non va – e che lo porta ad alzare il telefono e a rivolgere una domanda a chi dovrebbe essere in grado di aiutarlo. La domanda è dunque sostenuta da un sintomo che sarà messo in parole nel corso dei colloqui. Possiamo dire che un'analisi inizia quando il disagio, il sintomo, diventa per il soggetto una domanda senza risposta. Il presupposto è che qualcuno debba sapere cosa gli sta succedendo: si instaura così il soggetto supposto sapere, quel che chiamiamo traslazione.


Il soggetto si rivolge all'analista perché suppone in lui, o nella psicoanalisi stessa, un sapere su quel che gli sta succedendo. La traslazione precede così la chiamata. Il senza-senso del suo disagio potrà essere chiarito dall'analista che gli dirà il significato mancante dei suoi sintomi. Il sapere sul suo disagio non lo possiede però l’analista: risiede piuttosto, come un sapere non saputo, nell'inconscio del soggetto. L'operazione della traslazione è una traslazione di sapere – di questo sapere non saputo – nell'analista, una traslazione che affiorerà in un analista particolare. Quest'ultimo, avvalendosi di questa traslazione, farà posto al sapere dell'inconscio e al godimento che racchiude. Si tratta di un inconscio che, come ha sostenuto Jacques-Alain Miller, ha già fatto la sua interpretazione.
I primi colloqui con l'analista, i cosiddetti colloqui preliminari, sono in realtà secondi colloqui rispetto a una traslazione già presente. Possiamo dire che questi colloqui possono svolgersi grazie alla traslazione preliminare su un soggetto supposto sapere (che può essere la psicoanalisi, un amico che gli dà l’indicazione, l'analista...). In questi colloqui il sintomo viene messo in parole e, come indicano Lacan nel seminario sul L'angoscia e successivamente Jacques-Alain Miller in Sottigliezze in psicoanalisi, il sintomo passa da uno stato amorfo, l'amorfo mentale, all’assunzione di una forma. Cosa significa questo? Significa che il soggetto racconta a un'altra persona i propri  pensieri più intimi, i pensieri che lo infastidiscono, che lo angosciano, ai quali non riesce a dare un senso, oppure parla dei suoi sintomi fisici, o di qualche brutto incontro, o di una difficoltà nel legame sociale, o di problemi con il partner, o.... Tutto questo che arriva in modo informe, senza nessuna tessitura, e grazie al fatto di raccontarlo nelle sedute prende la forma di un discorso. Può darsi anche il caso contrario, il caso in cui la forma del detto è così consolidata, così ordinata, che non risulta possibile penetrarvi: è un testo senza pertugi. Sarà allora necessario disturbare la forma affinché il discorso si fenda e si renda presente l'enunciazione del soggetto. Nei colloqui si sperimenta allora una vera e propria trasformazione, un mutamento da qualcosa che prima era amorfo a qualcosa che poi diventa un discorso rivolto all'analista, e che dà luogo a delle rivelazioni. Jacques-Alain Miller lo esprime così: "Un'analisi che inizia si sviluppa in un'atmosfera di rivelazione. Non necessariamente inizia quando si avvia una sequenza di incontri regolari, ma piuttosto nel momento in cui il soggetto fa lo sforzo di trasferire l'evento dal pensiero alla parola. L’analisi così regolarmente si sviluppa, se posso dire, come un fuoco d'artificio di rivelazioni".
Ci siamo chiesti cosa possa fare l'analista per spingere in questa direzione. Questi colloqui sono l'occasione per ascoltare i significanti primordiali del soggetto e per realizzare una rottura tra questi significanti primordiali e il sapere consolidatosi intorno a essi. Occorre isolare questi significanti padroni dalla catena nota di spiegazioni che li inquadrano e smontare la catena del senso: S1//S2. Si tratta di lasciarlo solo perché possa liberare un po' della soddisfazione che lo abita, un po’ della marca del godimento che è la causa della ripetizione. Potremmo dire che questa operazione genera smarrimento nel soggetto, lo toglie dal discorso abituale per introdurlo nell'enigma del proprio inconscio. Si produce un vero e proprio superamento di soglia: c'è un prima e un dopo nel fatto di chiedere un'analisi.
È interessante domandarsi come l'analista riconosca questi significanti speciali nello sciame delle parole che ascolta, come li individui. Sono parole che si presentano legate a una sofferenza, e che rivelano una singolare modalità di relazione con l'Altro. È questo a orientare l'analista.
Teniamo presente che nei colloqui ciò che all'inizio funziona è la domanda: “Cosa significa?" È una domanda sul significato assente del sintomo, ma l'analista è guidato anche, fin dall’inizio, da un'altra domanda: “Cosa gode lì?”
Sia Freud sia Lacan assegnano un posto centrale ai colloqui preliminari. Così Freud in L'inizio del trattamento (1913) dà indicazione di un periodo di prova con la motivazione diagnostica di discernere chi può fare una psicoanalisi e chi no. Vale a dire, con quale paziente l’analista può mantenere una promessa di guarigione e con quale no. Freud sostiene che questo periodo di prova è già l'inizio della psicoanalisi, e che deve rispettarne le regole, con la differenza che in questi colloqui si fa parlare il paziente senza interpretare più del necessario, ovvero più di quel che serve perché il paziente continui a parlare e, come abbiamo detto, perché il sintomo prenda forma.
Da parte sua, nel Seminario XIX Lacan dice: "Tutti sanno – ma molti ignorano – la mia insistenza sui colloqui preliminari all’analisi con coloro che mi chiedono consigli. Questi colloqui per l’analista evidentemente hanno una funzione essenziale. Non è possibile entrare in analisi senza colloqui preliminari".
Si vede che Lacan pone i colloqui come condizione d’entrata nell'analisi: senza di essi non ci sarebbe possibilità di fare analisi. È un passo che non sarebbe possibile saltare. Il lavoro dei colloqui è necessario per entrare in un'analisi. Deve succedere qualcosa nei colloqui perché si diano le condizioni necessarie. Non c'è quindi una linea continua tra questi colloqui e l'analisi propriamente detta.
Questo dispositivo, proposto da Freud e innalzato da Lacan alla categoria dell’essenziale, valorizza la possibilità del soggetto di sostenere la posta in gioco analitica. Potremmo dire che contraddistingue il tempo in cui si valuta se il soggetto di fa responsabile o meno del proprio disagio, che è il luogo in cui si creano le vie portanti di questa responsabilità. È il tempo in cui si verifica la disposizione soggettiva ad accedere al sapere inconscio e la possibilità di rispondere alla richiesta di associare liberamente, condizioni queste necessarie per far partire il dispositivo analitico. Sono il terreno preparatorio di una possibile analisi.
In questo l'analista mette in discussione ciò che è evidente, ciò che è ovvio, mostrando fin dall'inizio la differenza tra parlare con chicchessia e parlare con un analista. L'analista non dà nulla per scontato, non accetta la complicità immaginaria sul senso del detto ma mette in evidenza che i detti possono significare qualcosa di diverso da ciò che sembra. Nell'analisi nulla è dato per scontato. La domanda stessa instaura l'inconscio e indica la divisione soggettiva marcando la differenza tra l'enunciato e l'enunciazione: “Lei dice questo, ma cosa intende dire?" Essa rompe, come dicevamo, il legame tra S1 e S2.
L'interrogazione è figlia dell’incomprensione, e fa sì che il soggetto ritorni sul proprio testo, per ascoltarsi e per interrogarsi su ciò che ha detto. Questo favorirebbe l'emergere della traslazione sull'analista come depositario del soggetto supposto sapere, indicando che ciò che il soggetto dice può avere un senso diverso o, semplicemente essere un senza-senso. Nell'Introduzione al metodo psicoanalitico Jacques-Alain Miller lo formula in questo modo: "È possibile convincere il paziente della nostra capacità di ascolto solo introducendo il malinteso".
Bisogna precisare che l'interrogazione non è una mera prescrizione tecnica da trasmettere ai futuri analisti come: "Bisogna interrogare l'ovvio perché questo favorisce l'instaurarsi della traslazione”. Questa necessità d’interrogare ha piuttosto un fondamento etico, poiché l'analista non sa nulla del soggetto che viene a consultarlo, né comprende i testi del paziente; l'analista rifiuta radicalmente la comprensione come modo di avvicinarsi al detto. Ci sono due pericoli che Lacan segnala: uno è quello di non essere abbastanza curiosi, l'altro è quello di capire, poiché si capisce sempre troppo. Afferma infatti che: "(...) le porte della comprensione analitica si aprono sulla base di un certo rifiuto della comprensione".
L'analista sospende il proprio sapere teorico, perché non gli serve sapere a priori e universalmente quel che affligge il paziente, non lo inserisce in una categoria. Questa posizione di ignoranza non implica che l'analista non sappia, ma piuttosto che si pone in una posizione di ignoranza in attesa del nuovo che deve presentarsi. Sospende il proprio sapere. È l'analista a introdurre l'ignoranza nell’esperienza – l'ignoranza del soggetto su ciò che gli succede – introducendo come polo la ricerca della verità. Lacan chiarisce però che questa ignoranza del soggetto non è in realtà una vera ignoranza, che si deve piuttosto precisare come un vero e proprio misconoscimento costituito nel processo di Verneinung (Il "non è mia madre" che Freud riferisce nel suo testo La negazione del 1925). Il misconoscimento infatti non è un’ignoranza, perché implica una certa conoscenza di ciò che deve misconoscere.
D'altra parte, è importante sottolineare come nei colloqui l’analista mostri  di astenersi dal giudizio, sia morale sia pragmatico: né per convalidare moralmente ciò che il paziente fa, né per dirgli quel che deve essere fatto allo scopo migliorare la propria vita o per ottenere effetti analitici. La regola analitica – la libera associazione – lascia il Superio fuori dalla scena e instaura l’esigenza propriamente analitica di dire tutta la verità, mostrando che il discorso analitico è un discorso diverso dagli altri.
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