Miquel Bassols Intervista di Leonora Troyanovsky “Crisi” è un significante del sociale. Cosa dicono gli psicoanalisti? Possiamo dire che introduce in qualche modo un ponte tra intensione ed estensione? Come pensa questa articolazione? In effetti la parola "crisi" è entrata nel discorso comune del mondo contemporaneo, e in modo tale che pare non vi sia alcuna possibile realtà sociale, economica o politica, che in qualche modo non evochi la crisi. C'è un posto oggigiorno che non risenta della crisi, se non altro perché la teme? Quel che veniva indicato come un momento più o meno transitorio – “Momenti di crisi” è stato, a Ginevra, il tema dell’ultimo Congresso della New Lacanian School – è venuto a essere una sorta di stato permanente, come il segno di un’epoca che si prolunga, senza che se ne percepisca un termine preciso. Fino al punto che la crisi, nell’era del neocapitalismo, pare alimentarsi della crisi stessa. Indubbiamente, in passato non era così. Sicché il significante “crisi” ha subìto a sua volta una certa crisi, nel senso che si dava al termine in altri tempi, di momento di decisione, di svolta improvvisa in una struttura, di punto di svolta, nel bene o nel male.
Ma non esiste una crisi uguale a un’altra. Questo significa che ogni soggetto sperimenta la crisi in modo singolare e non trasferibile. È quanto sentiamo dire in analisi: alla stessa realtà sociale, ogni soggetto reagisce in maniera diversa. Continua a sorprendere la varietà di risposte di fronte a uno stesso evento critico. Questa singolarità, che il termine crisi spesso occulta nel registro sociale, è quel che situiamo in ogni psicoanalisi come esperienza traumatica, propria e singolare di ogni soggetto. “Trauma” è come il nome analitico della crisi. E “trauma” è anche il nome del reale quando irrompe nella stabilità del simbolico. Qui siamo – come segnalava recentemente il presidente della ELP, Santiago Castellanos – nella "dimensione di rottura, di discontinuità, di buco, di disordine," di tutto ciò che lacera il tessuto del simbolico. Di modo che, se cogliamo l'essenziale di ciò che socialmente viene rilevato come crisi, dobbiamo collocarlo nell’esperienza che il soggetto fa di un buco, di un vuoto di fronte al quale mancano le parole. E questo è il vero ponte tra l'estensione della crisi – il suo significato comune, la sua denotazione, il numero di oggetti che ricoprono l'esperienza sociale – e l'intensione della crisi, il suo senso più intimo e non trasferibile, la sua connotazione unica per ogni soggetto. È quindi un ponte fatto di fori, di crepe, di parti mancanti, su cui non è facile muoversi. Ma anche ciò che chiamiamo desiderio è un ponte fatto di buchi, di parti mancanti. Così, quando un soggetto si rivolge all'analista afflitto da una crisi, vale a dire per un’ esperienza traumatica – sia per la perdita di una persona cara, per la perdita improvvisa di un ideale o a causa di qualsiasi altro incontro con un evento reale e irreversibile –, la prima domanda si pone, sempre singolare, a partire dal suo desiderio: che vuoi? Non si tratta di proporre immediatamente di rattoppare il tessuto lacerato, di tappare il buco, di suturare una crepa. Questo è piuttosto quel che propone un’ideologia psicologica che continua a promuovere l'adattamento alla realtà in base alla concezione preliminare che ciascuno ne ha. Questa proposta, che ha preso oggi il nome di “resilience”, ovvero capacità di recupero, si fonda sulla possibilità neurologica e cognitiva che ogni organismo ha di adattarsi alla realtà traumatica. Ma per la psicoanalisi di orientamento lacaniano, che segue la scia di Freud, il sintomo non è un disadattamento di fronte alla realtà, ma è quel che il soggetto inventa per cercare di adattarsvisi, è la sua risposta dinanzi ad una realtà che sarà sempre bucata dal reale. Si tratta quindi invece di saper girare intorno a quel buco in vari modi, anche dandogli una forma che non aveva, quando si è aperto nell'esperienza traumatica. Qual è la forma di un buco? Dipende da ciò che troviamo per girargli intorno. In catalano abbiamo una parola eccellente per dirlo, una parola che forma parte del significante “trauma”: si tratta di "trau", un occhiello, il buco necessario per far passare il bottone. E perché funzioni nel modo giusto, è necessario girare con il filo che intorno al bordo interno del “trau", senza fare un rammendo. Invece del rammendo, della “resilience”, che impedisce di far passare il bottone, abbiamo il filo del desiderio che gira intorno al buco "trau-ma". È più laborioso, ma è il modo migliore per potere allacciare il sintomo di ogni soggetto a una realtà sempre più traumatica. Per questo paziente lavoro di sartoria non possiamo seguire alcun modello preliminare, non vi è alcuna estensione, nel senso logico della parola – nel senso cioè di “significato comune” – Abbiamo solo l’intensione – la qualità singolare in ogni caso – del filo del desiderio che si tratta di decifrare e di seguire in un’analisi. Traduzione di Francesca Ferrarini
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Agosto 2024
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