![]() Jacques-Alain Miller Conferenza tenuta a Curitiba il 25 luglio 1987 Ho parlato spesso dell'etica della psicoanalisi. Oggi invece mi concentrerò su un altro aspetto dell'esperienza: quello della tecnica, quello della pratica. Tendiamo sempre a parlare concentrandoci sull'inizio e sulla fine dell'analisi. Non c'è tuttavia un solo punto di tecnica in analisi che non sia legato alla questione etica. È per comodità che distinguiamo i due aspetti, è semplicemente un modo di esporre. Nell'analisi, invece, le questioni tecniche sono etiche per un motivo molto preciso: nell’analisi dirigiamo il soggetto. La categoria del soggetto non è tecnica, ma etica. Le analisi lacaniane non hanno la prospettiva dell'Io. Non esiste in realtà un modo lacaniano di fare analisi. È stata una sorpresa ieri ritrovarmi a confrontare il mio punto di vista con il nuovo modo di lavorare che si può trovare qui. È davvero piacevole, per chi viene dall'estero, notare l'estrema attenzione con cui qui si segue quel che stiamo facendo a Parigi, perché seguirlo è un modo di contribuire a questo lavoro.
Sono rimasto sorpreso dal contributo presentato dalla Biblioteca freudiana brasileira in questi colloqui, e dalle osservazioni fatte a partire dal seminario che ho tenuto l'anno scorso a Parigi sulla rettifica soggettiva. Vedo che il mio seminario ha incontrato un grande interesse in Brasile, e che ha anche dato luogo a uno sviluppo proprio. Ieri sera ho letto il primo numero del Correio do Simposi do Campo Freudiano a Belo Horizonte, che contiene lavori ispirati dalla stessa fonte. Notevole anche il lavoro della Clínica Freudiana di Bahia, dove è presentato un caso che, secondo Antonio Quinet, è paradigmatico per la questione discussa, e vorrei pubblicarlo su Ornicar? con un'introduzione generale, o anche solo il caso, che si inserisce perfettamente nella continuità transazionale del nostro lavoro. Vedo quindi che sto parlando a un pubblico ben formato e di persone che lavorano sodo. Mi preoccupo in particolare di quel che facciamo con il nome di Campo freudiano, che ha un carattere chiaramente visibile, che non si può nascondere, è manifesto. Nell'orientamento lacaniano non ci sono schemi. In un certo senso abbiamo deregolamentato la pratica. Si vede bene se confrontiamo il nostro lavoro con quello dell'IPA, sviluppatosi principalmente negli Stati Uniti e in Inghilterra., Se non abbiamo standard abbiamo tuttavia principi, ed è necessario formalizzarli. La parola "principio" è stata usata da Lacan nell'articolo La direzione della cura e i principi del suo potere. Sono principi della pratica, e si trasmettono attraverso l'analisi e attraverso la supervisione. Questi principi non si spiegano: c'è una grande differenza tra quel che si può fare con l'analisi o con la supervisione in incontri singolari, uno per uno, e quel che si fa con vere e proprie folle che si radunano sotto la bandiera del Campo freudiano. Dobbiamo così cercare un modo per trasmetterli anche alle folle, nonostante le difficoltà. È importante che l'analista non segua solo la sua pratica, ma che osservi anche quella dei colleghi. Ci sono cose che non riusciamo a vedere quando siamo a Parigi, perché lì sono abituali. Bisogna essere in un altro paese, con altre consuetudini, per poterle vedere, per notare per esempio il carattere particolare della nostra pratica abituale, che richiede un fondamento formalizzato. Parlerò di questa pratica abituale a Parigi, giustificandola a partire dal primo momento della cura, farò cioè un "discorso sul metodo" della psicoanalisi, cercando di lasciare aperte le questioni. Ne La direzione della cura, vediamo che Lacan accetta l'idea di un trattato sul metodo psicoanalitico e che si potrebbero enumerare i principi dell’interpretazione pertinenti a questo metodo. Tuttavia Lacan non l'ha fatto, ma tutti possono provarci, poiché si tratta di un preciso orientamento. Accoglienza e atto analitico Per accogliere un nuovo paziente, a Parigi come qui, possiamo dire: “Benvenuto!” Possiamo dirlo sia per motivi economici, sia perché ci interessa iniziare una nuova ricerca, un nuovo trattamento. Abbiamo infatti il piacere della novità e, allo stesso tempo, la tendenza ad annoiarci, anche se spesso il primo è più forte della seconda. Altre volte, è necessario indirizzare il paziente a un collega, che avrà per noi un sentimento di gratitudine. Notate che non sto iniziando con i matemi, che sono la mia specialità. Chi ci cerca come analista non è un soggetto, ma qualcuno che aspira a essere paziente. È una cosa molto strana perché il paziente, nella pratica psichiatrica, può essere designato da altri: dalla famiglia, dal medico, dalla società, dalle istanze sociali che ti dicono di curarti. Nella pratica analitica non è così, fatta eccezione per l'analisi con i bambini, solitamente portati dai genitori o da altri, con problematiche specifiche che qui non tratteremo. C'è una netta differenza tra il paziente psichiatrico, designato da altri, e quello della psicoanalisi. Ho sviluppato questo argomento alcuni anni fa a San Paolo, presso l’Hospital do Servidor Publico Estadual, ed è presentato in un testo pubblicato nel primo numero di Falo – Revista Brasileira do Campo Freudiano. Cosa significa per lo psicoanalista trovarsi di fronte a qualcuno che vorrebbe essere un paziente? In analisi, non è paziente se non chi si dichiara tale. Si può dire che la prima domanda, nell'esperienza analitica, è quella di essere ammesso come paziente. Questa domanda precede tutte le altre. In psicoanalisi la prima valutazione la fa il paziente stesso. È lui per primo a valutare il proprio sintomo, poiché si presenta all'analista con una domanda basata su un'autovalutazione dei propri sintomi, e chiede una ratifica di questa autovalutazione. L'atto analitico comincia così, con la richiesta di una ratifica, autorizzando l'autovalutazione di chi vuole essere paziente. Questo aspetto non appare chiaramente nell'orientamento dell’IPA, salvo quando qualcuno si presenta chiedendo di diventare analista, e non di essere un paziente, quando qualcuno dunque chiede una formazione. In tal caso, l'analista IPA propone un altro livello: non può infatti accogliere la richiesta senza prima avere l'autorizzazione istituzionale. Chi chiede una formazione analitica viene rinviato a un collegio, a una giuria che lo trasforma in candidato analista. Nell’IPA vengono distinte infatti l'analisi terapeutica e quella didattica. Noi invece non distinguiamo l'una e l'altra analisi. Per noi è naturale, anche se è pur sempre una novità. Qualcuno viene da noi e dice: “Vorrei fare l’analista.” Dobbiamo rispondere che prendiamo atto della domanda, anche se questa può nascondere un altro desiderio che entrerà a far parte del processo analitico. Non autorizziamo subito questo tipo di domanda, che esprime un Wunsch, un desiderio senza garanzie su come si evolverà l'analisi. Il fatto fondamentale è: chiunque si presenta ha il desiderio di essere paziente, ed è, in un certo senso, un candidato con la possibilità di farsi autorizzare dall'analista. Questa domanda appare fin dall'inizio di ogni esperienza analitica, fin dal primo appuntamento, dal primo minuto e anche dalla prima telefonata. Non possiamo chiudere gli occhi: accettarla o rifiutarla è già un atto analitico. Nella pratica dell'IPA invece l’atto c’è solo quando si tratta di un candidato analista. Si compie allora una sorta di processo giudiziario: un analista consulta diversi didatti per sapere se può iniziare un'analisi didattica. Nella pratica lacaniana ogni paziente è considerato un candidato, e l'analista deve rispondere con spirito di profonda responsabilità. Per questo l'atto analitico entra in gioco sin dall'accoglienza. È il motivo per cui i colloqui preliminari non sono solo un espediente, un modo di fare di Lacan. Ci sono persone a Parigi e negli Stati Uniti che chiedono se facciamo anche i colloqui preliminari. Possiamo dire che è una pratica abituale, che fa parte dell'etica. La pratica dei colloqui preliminari non ha senso al di fuori da questo contesto, poiché sono in gioco l'atto analitico e l'etica della psicoanalisi. Cosa significano i colloqui preliminari? Nella pratica lacaniana – e questo è un principio, quasi uno standard, un tratto distintivo – i colloqui preliminari sono una diretta conseguenza della necessità di strutturare l’accoglienza. Significano che l'inizio è posticipato, che l'analista ritarda l'avvio del processo fino a quando non sente possibile autorizzare la domanda di analisi e, in conseguenza, si sente di avallarla in base a ragioni precise e chiare. In caso contrario, tale domanda non dovrebbe essere ratificata. Non concediamo l'autorizzazione presentando il paziente-candidato ad altri colleghi, che diventano giurati, facendo passare la domanda attraverso una riformulazione. Questa riformulazione deve invece avvenire nel corso dell'analisi stessa, e può prendere molto tempo. Non esiste uno standard. I colloqui preliminari possono durare un mese con una frequenza di una volta alla settimana, quattro in tutto. Possono però durare anche un anno, e a volte l'analista resta con il paziente per diversi anni in una situazione preliminare, come in una sorta di preliminare permanente. Questo preliminare permanente è una pratica che appartiene all’analisi ma che, e vedremo perché, non può effettivamente consentire lo sviluppo dell'analisi nel suo rigore. Bisogna distinguere gli scopi, i livelli della pratica analitica. Ci sono tre livelli, ciascuno dei quali entra nel successivo, senza che ci sia una separazione completa perché, in realtà, si sovrappongono. È qualcosa che sto provando ora, non l'ho ancora presentato a Parigi. È un tentativo di precisare i principi pratici, gli stessi della supervisione. Quando ci viene chiesto cosa fare con un paziente, torniamo sempre all'inizio per sapere come sono andate le cose in entrata. Questo sforzo è il principio metodico dell’analisi. I tre livelli che descriverò, svilupperò ora e continuerò ad articolare nel seminario sono: 1 – Valutazione clinica ––––>soggettivazione 2 – La posizione soggettiva ––––>rettifica 3 –Introduzione all’inconscio Tra questi livelli ci sono dei collegamenti. Chiamiamo soggettivazione quello tra (1) e (2), e rettifica quello tra (2) e (3). Questo ha interessato molte persone, al punto che sembra si sia creata una scuola brasiliana di rettifica soggettiva. Valutazione clinica Inizieremo con la valutazione clinica, cercando di essere semplici ed esplicativi. Non sono cose difficili, la difficoltà sta nel grado di precisione che vogliamo ottenere, relativamente a un effetto nella direzione del trattamento. Nonostante tutto quel che di solito sentiamo dire sulla pratica un po’ sciolta dei lacaniani, i colloqui preliminari per l'analista hanno la funzione di tramite per fare la diagnosi. L’analista deve poter giungere a una conclusione, in via preliminare, sulla struttura clinica della persona che è venuta a trovarlo e dovrebbe rispondere, sulla base dei colloqui preliminari, alla seguente domanda: è un caso di nevrosi, di psicosi o di perversione? E non si può dire che c’è una certa nevrosi, con qualcosa di perverso che può rasentare la psicosi. Dal punto di vista lacaniano non si può appartenere a due strutture, non c'è sovrapposizione di strutture. Ci sono casi in cui è difficile differenziare le strutture. A volte, dopo un colloquio diagnostico preliminare, lo psicoanalista rimane in dubbio, e questo può portarlo a rifiutare la domanda, a prolungare la durata dei colloqui o addirittura ad assumere un rischio più o meno calcolato. La valutazione clinica è di vitale importanza quando siamo portati a pensare che il paziente possa essere psicotico. Non è poi così difficile riconoscere la psicosi quando ha già avuto un’insorgenza, perché da quel momento in poi il quesito che si pone è se l'analista possa o meno fare qualcosa, se possa o meno curare il paziente. La questione diventa però cruciale se la psicosi non si è ancora manifestata, perché, come sapete, l'analisi può portarla all’insorgenza. Per questo è fondamentale che l'analista sappia riconoscere lo pre-psicotico, cioè lo psicotico la cui psicosi non si è ancora espressa. C'è una regola secondo la quale dovremmo rifiutare la domanda d’analisi del paziente pre-psicotico. Se non la rifiutiamo, dobbiamo stare molto attenti a non provocare la psicosi attraverso qualsivoglia parola. A volte la semplice proposta di sdraiarsi sul divano è sufficiente a provocare l’insorgenza, mentre in altri casi ci vuole un anno, o ce ne vogliono anche cinque, perché la psicosi si attivi. Per questo nella pratica lacaniana della psicoanalisi è necessario che l'analista, anche se non ha a che fare con la psicosi, abbia una conoscenza profonda ed estesa della sua struttura. La settimana scorsa, a New York, ho ascoltato un interessante lavoro di un analista americano che sarà a Buenos Aires il prossimo anno: ha presentato a lungo il caso di una paziente che inizialmente aveva giudicato schizofrenica e che, dopo qualche lettura di Lacan, ha riconsiderato valutandola come isterica. La bravissima persona a cui mi riferisco è stata allievo di Winnicott, prima di interessarsi a Lacan. Il suo lavoro è "transizionale" tra i due. Gli era sembrata meravigliosa la risposta che Winnicott, nell'ultimo anno della sua vita, aveva dato a dei gesuiti inglesi che si occupavano di psicoanalisi. All’incontro a cui ho assistito erano presenti con noi dodici gesuiti molto interessati all’Ecole freudienne di Lacan. La storia che vi riferisco è stata raccontata da Masud Khan. I gesuiti hanno posto a Winnicott una domanda molto semplice: quando dovremmo mandare un paziente all'ospedale psichiatrico e quando no? Dopo averci pensato un po’ Winnicott ha risposto: "È facile: se il paziente vi dà fastidio, mandatelo all'ospedale psichiatrico, altrimenti tenetevelo". Sembra uno scherzo, ma non lo è. È la conseguenza, diciamo, della posizione etica non solo di Winnicott, ma di chi pensa che la contro-traslazione abbia un valore operativo nell'esperienza analitica. Secondo Lacan, la contro-traslazione non significa semplicemente che l'analista prova dei sentimenti verso il paziente, ma che dobbiamo lavorare a partire da questi sentimenti, a partire dai pregiudizi dell'analista. In questo caso invece, vediamo che Winnicott si prende per una superficie sensibile, e legge in se stesso come il paziente è. Se gli dà fastidio, significa che qualcosa non va nella sua struttura clinica. E il nostro amico di New York, riferendosi a Masud Khan, dice che l'analista deve osservare le proprie reazioni corporee: i dolori di stomaco e i mal di testa possono essere correlati alla struttura clinica del paziente. Tale pratica invita l'analista a osservare le proprie reazioni per conoscere la struttura del paziente. Questo fa paura, è un vero scandalo, è la porta aperta a tutti gli errori diagnostici. Quante ragazze ricoverate negli ospedali statunitensi sono classificate come schizofreniche, quando in realtà sono buone isteriche che potrebbero essere curate e che, invece, finiranno per passare tutta la vita tra le mura di un ospedale? Questo è solo un esempio. Una risposta come quella di Winnicott, con tutto il rispetto per la sua memoria, per la sua pratica e per la sua amicizia per Lacan, mi sembra un delitto. La risposta lacaniana alla domanda dei gesuiti sarebbe: non è attraverso il fastidio personale che l'analista distingue il paziente psichiatrico da quello che i gesuiti possono seguire, ma attraverso il sapere clinico, che è insostituibile. Le esigenze che poniamo noi analisti lacaniani sono molto più stringenti di quelle dei cosiddetti analisti ortodossi. Chiunque può avere mal di testa o mal di stomaco, ma nessuna di queste manifestazioni costituisce il minimo il sapere clinico necessario per definire un grado maggiore o minore di isteria. Non basta essere flessibili al desiderio dell'Altro per occupare la posizione di analista. Può aiutare, ma non basta. Per essere sicuri, quando c'è un sospetto, se ci troviamo o no di fronte a un paziente psicotico, bisogna cercare i fenomeni elementari – categoria della clinica francese ripresa da Lacan e sempre utilizzata nella supervisione. Si tratta di fenomeni psicotici che possono precedere il delirio e l'insorgenza di una psicosi. Possono non essere attualmente presenti nel paziente, ma possono essere comparsi in passato ed essersi presentati una sola volta nella sua memoria. Se l'analista è sicuro che non ci siano, abbiamo allora una sorta di firma clinica, ma se si sospetta una pre-psicosi, una struttura psicotica, diventa allora necessario cercare i fenomeni elementari in modo metodico e accurato. In molte supervisioni, anche in casi di analisi già avviate, ci si domanda se l'analista abbia davvero cercato bene i fenomeni elementari. Questi fenomeni sono: 1– Fenomeni di automatismo mentale. Senza sviluppare un tale argomento, cosa che ho già fatto nella mia conferenza Psicoanalisi e psichiatria, pubblicata sul primo numero di Falo, dirò che consistono nell'irruzione di voci, di discorsi altrui nella sfera psichica più intima. Sono molto evidenti quando la psicosi si è già manifestata. Possono tuttavia essere presenti, in modo silente, per anni, con solo una o due irruzioni nell'infanzia o nell’adolescenza. È quindi necessario che lo psicoanalista si concentri su queste irruzioni. 2 – Fenomeni di automatismo corporeo. Riguardano la scomposizione del proprio corpo: senso di estraneità, sentire il proprio corpo come estraneo, senso di smembramento, sentire che parti del proprio corpo non appartengono. Senso di distorsione nella percezione del tempo e/o nello spostamento spaziale. 3 – Fenomeni riguardanti il senso e la verità. Non sono astrazioni, ma cose effettive dell'esperienza analitica: riguardano la testimonianza che il paziente dà di esperienze ineffabili, inesprimibili, o di assoluta certezza e, ancor più, relative all'identità, all'ostilità di uno sconosciuto. Sono ciò che nella clinica francese viene chiamato espressioni di senso o di significato personale [in quella italiana: delirio di riferimento]. In altre parole è quando il paziente dice di poter leggere, nel mondo, segni destinati a lui, carichi di un significato che non può precisare. Questi tre punti possono mostrare che nella valutazione clinica c'è un bivio nella scelta tra psicosi e isteria, un bivio che si trova nei fenomeni corporei di distanza rispetto al corpo, o nel fatto di sentire il corpo come un altro. Un soggetto psicotico e un soggetto isterico possono, in un dato momento, esprimersi allo stesso modo. Il fatto che alcune donne abbiano esperienze inesprimibili ha portato Lacan a dire che sono tutte folli, anche se si è corretto poi dicendo che non è affatto così. Accade talvolta che una donna venga a consultarci perché non ha avuto nemmeno un'esperienza di godimento ineffabile e inesprimibile. La follia c’è quando non c'è quel che lei cerca. Una donna deve scegliere tra psicosi e femminilità. Il problema però è proprio questo: non sentirsi abbastanza femminile. Succede abbastanza spesso che le donne non sappiano e non possano esprimere ciò che provano e ciò di cui godono. Per questo possono, per brevi istanti, sembrare psicotiche. Non succede solo sul piano corporeo. Anche su quello mentale l'empatia, la simpatia isterica per il desiderio dell'Altro possono essere confuse con l'automatismo mentale. C’è poi la possibilità isterica di prendere in prestito sintomi psicotici da un membro della famiglia o della cerchia di amici. È finanche possibile che un soggetto isterico porti al consulto tratti di un altro, e questo pone il problema di distinguere, nei colloqui preliminari, tra ciò che appartiene al soggetto e ciò che appartiene all'altro. Alcuni isterici sono psicologi, o psichiatri, e quando iniziano a mostrare sintomi psicotici, il sapere che ne hanno può indurli a confondere la loro conoscenza con le sensazioni che provano. Ci sono anche le allucinazioni dell'isterico, che non hanno nulla a che vedere con quelle dello psicotico. È necessario distinguerle. Alcuni punti sembrano essere comuni anche tra psicosi e nevrosi ossessiva. Lo si nota quando l'Uomo dei topi va da Freud in preda al panico, con un quasi delirio. La storia del debito – oggi sappiamo che si trova nella nevrosi ossessiva – all'epoca dell'incontro appariva come un delirio da debito. L'ossessivo, sempre in ritardo, ha bisogno della spinta di uno stato di urgenza e di panico per entrare in analisi, e spesso si presenta con tratti apparentemente psicotici. In questo caso è possibile sbagliarsi confondendo l'ossessione con l'automatismo mentale. Si può anche confondere la psicosi con la perversione. Per accertarsi della clinica perversa è necessario, ma non sufficiente, interrogare il paziente sulla sua vita sessuale. Bisogna ascoltarlo con molta attenzione quando racconta la sua esperienza, quando dice, in modo evasivo: “Ho avuto esperienze omosessuali ma ho chiuso”. Questo modo di ascoltare tuttavia non basta, perché la struttura perversa non è la la stessa cosa della condotta personale perversa. Anche perché essendo il godimento sessuale di per sé perverso, il desiderio sessuale nel soggetto può essere perfettamente nevrotico. Non capita spesso che il vero perverso venga in analisi, perché sa già tutto quel che c'è da sapere sul godimento. Chi viene invece in analisi è il nevrotico con un godimento perverso. Non solo perché non è soddisfatto della perversione, perché aspira a essere curato, ma soprattutto perché si interroga sul senso del suo desiderio con l'esigenza di riconciliarsi con il suo lato perverso, e non certo per normalizzarlo. Spesso è una questione etica per l'analista sapere se può accettare la richiesta dell'omosessuale che non vuole modificare la sua omosessualità, ma vivere meglio con essa. L'atto di accettare o meno tale richiesta senza promessa mette in gioco la posizione etica dell'analista. Il vero perverso non è frequente, e si tradisce quando viene a chiedere di formarsi come analista per soddisfare la spinta voyeuristica a conoscere e a rettificare il godimento degli altri. È una domanda che considero ricusabile. Tuttavia, ora che conosco bene l'ambiente analitico nel mondo, posso dire che questa domanda non sempre è stata rifiutata, e che il vero perverso spesso sfugge alla propria analisi, e si autorizza ad analizzare di sua iniziativa, perché ritiene di avere il sapere più importante, quello sul godimento. Il nevrotico con una perversione può essere distinto dal perverso, purché l'analista non si accontenti di valutarlo clinicamente e passi alla posizione soggettiva, da cui la diagnosi non può essere separata. È questa a permettere che la categoria linguistica dell'enunciazione sia considerata come un operatore concreto ed entri nella pratica analitica stessa. Traduzione di Marco Focchi
1 Comment
Giuseppe Perfetto
30/6/2023 11:18:45 pm
Testo cardine che conoscevo nell'originale versione spagnola, e che considero essere una magistrale introduzione al tema dell'ultimo Convegno Slp sull'entrata in analisi.
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Marco Focchi riceve in
viale Gran Sasso 28, 20131 Milano tel. 022665651. Possibilità di colloqui in inglese, francese, spagnolo. Archivi
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