Pubblichiiamo lo scambio d'idee provocato dall'uscita su questo bolg il 28 marzo 2015 dell'intervento di Valerio Canzian sul sul problema della contenzione nei servizi psichiatrici lombardi. Alle obiezioni formulate dal dott. Antonio Lora segue una risposta di Valerio Canzian Concordo con Valerio Canzian sul significato positivo dell’incontro, incontro che è stato stimolato dalle Associazioni e dal Forum e che ha permesso un utile confronto con le Associazioni e tra servizi diversi (Lecco, Mantova e Iseo) su temi importanti e sensibili, quali la contenzione e l’organizzazione degli SPDC. L’incontro ha avuto anche il merito di aprire una discussione su questi temi con gli altri soggetti istituzionali interessati (principalmente Forze dell’Ordine e Comuni).
Dissento invece dal resto dei commenti. In particolare dissento dalla sua individuazione di due categorie di servizi: i buoni (Iseo e Mantova), che mettono al centro del loro discorso il paziente, lo vedono come un soggetto e ne rispettano la libertà, ed i cattivi (Lecco), dove la persona è in subordine e quindi oggetto, dove il soggetto non trova spazio perché oppresso dalla psicopatologia e dai regolamenti del reparto. Affermare che gli operatori di Lecco trattano il paziente “come un oggetto” vuol dire disconoscere il loro lavoro di questi anni e la loro attenzione quotidiana alla relazione ed ai bisogni dei pazienti. Trattare con sufficienza il problema della pericolosità di alcuni pazienti (“è quello che ci sentiamo dire dagli psichiatri in ogni occasione”) significa non comprendere come questo rappresenti un problema centrale nel lavoro degli operatori in SPDC e come sia necessario parlarne alla luce del sole. Vedere l’attività psicoeducativa svolta in SPDC come una rieducazione che mira ad adattare i pazienti alle esigenza degli operatori e della struttura, vuol dire non sapere che la psicoeducazione è un intervento che dà al paziente una maggiore consapevolezza e capacità di gestione dei suoi problemi e che rappresenta un intervento terapeutico tra quelli con maggiore efficacia documentata nei disturbi mentali gravi. Sono convinto che le differenze tra i servizi che hanno partecipato all’incontro esistano, ma che siano più i punti di incontro. I servizi di Iseo, Lecco e Mantova lavorano sull’inclusione sociale, hanno attivato una rete nel territorio e nel caso di Lecco (che evidentemente conosco meglio) il DSM si occupa non solo di cura e riabilitazione ma anche di prevenzione del disturbo mentale, come nei progetti sui giovani immigrati o sulle donne in gravidanza. Ogni servizio ha punti di forza e criticità, la valutazione della sua efficacia può essere fatta solo pesando sulla bilancia il loro peso relativo e non può essere ridotta alla presenza o meno di porte chiuse in SPDC. Tutto è migliorabile ed il DSM di Lecco è impegnato da anni in attività di miglioramento della qualità della cura, mantenendo un rapporto aperto con le associazioni. Ma servizi per la salute mentale e associazioni hanno agende diverse, devono confrontarsi e devono sapere individuare punti comuni su cui concordano e su cui collaborare, evitando però giudizi ideologici. Cordiali saluti Antonio Lora Gentile Dr. Antonio Lora, Le sue osservazioni e interpretazioni della mia “restituzione” del seminario del 20 marzo mi obbligano ad alcuni chiarimenti in particolare sulla sua frase “Affermare che gli operatori di Lecco trattano il paziente “come un oggetto” vuol dire disconoscere il loro lavoro di questi anni e la loro attenzione quotidiana alla relazione ed ai bisogni dei pazienti.” Non vi è traccia nella mia restituzione che faccia risalire agli operatori il “trattare il paziente come un oggetto”. Ho bensì scritto “non si può non evidenziare come l’orientamento del loro operare sia foriero da una parte di riprodurre comportamenti e logiche contenitive e dall’altra di porre gli stessi operatori in una posizione di fragilità.” Più oltre scrivo : “si tratta di due “discorsi” diversi: quello di Lecco ruota intorno alla psicopatologia e alla centralità del servizio e la preoccupazione degli operatori, dove la persona è messo in subordine, vale a dire in posizione di oggetto.” Affermo che la persona è messa in “posizione di oggetto” e non che “gli operatori trattano il paziente come oggetto”. La differenza è sottile ma pure sostanziale. Un conto è dare un giudizio su una pratica (il contenere e le porte chiuse) che mette la persona in posizione d’oggetto, cosa che ho stigmatizzato, un’altro è colpevolizzare gli operatori, cosa che non ho fatto, che applicano tale pratica non frutto di orientamenti individuali ma di prassi istituzionali sedimentatasi nel tempo, considerata dagli stessi in certi casi una “necessità”. Talvolta vi può essere lo “stato di necessità” dell’art.54 del Codice Penale, ma non è ciò di cui si tratta solitamente. Affermo anche: “Non possiamo non manifestare comprensione per le preoccupazioni, difficoltà e sforzi profusi dagli operatori del DSM di Lecco nel portare avanti le loro pratiche contenitive.” Nel dire ciò riconosco le difficoltà degli operatori e gli sforzi profusi emersi dalle loro testimonianze. Ho riscontrato nelle loro testimonianze lo stesso interesse, passione e attenzione per la persona che ho avvertito negli operatori di Iseo e Mantova. Diversi sono però i risultati in quanto le pratiche sono orientate diversamente nella mente degli operatori stessi: da una parte a garantire il “contenimento” è l’accoglienza e la relazione che rappresentano prassi virtuose da estendere in tutti i DSM (porte aperte e no contenzione) e non nego che gli operatori di Lecco non cerchino la relazione, e dall’altra a garantire il “contenimento” sono le porte chiuse e l’eventuale contenzione. A fare la differenza è il diverso orientamento degli operatori, a parità di buone intenzione degli stessi. Dr. Lora sono convinto per esperienza che gli operatori di un DSM, e nello specifico del DSM di Lecco e anche lei che lo dirige, siano animati dal migliore desiderio di fare bene il loro lavoro e di occuparsi al meglio delle persone che hanno in cura o in carico. Lei afferma nella sua risposta “Ogni servizio ha punti di forza e criticità, la valutazione della sua efficacia può essere fatta solo pesando sulla bilancia il loro peso relativo e non può essere ridotta alla presenza o meno di porte chiuse in SPDC”. La contenzione e le porte chiuse non possono essere misurate sulla bilancia relativizzando il loro peso al pari di tante altre prestazioni. Non è una questione di quantità ma di qualità, del modo di porsi nel confronti dell’ospite, di rispetto dei suoi diritti, dell’evitare di aggiungere sofferenza a alle loro già precarie condizioni, nonché ai loro familiari. Si tratta di persone che hanno bisogno di cure in un momento di particolare fragilità, angoscia, confusione e agitazione. Si può pensare di combattere lo stigma con prassi che fanno della contenzione uno strumento “terapeutico” che si applica il 10 per cento e più dei casi? La Conferenza delle Regioni e Provincie autonome, dal titolo: “contenzione fisica in psichiatria: una strategia possibile di prevenzione”, del 29 Lug. 2010” cita: “ il parere espresso in merito alle pratiche di contenzione è che tali misure non facciano parte dei dispositivi ordinari di cura dei pazienti psichiatrici e vadano considerati interventi che scaturiscono da uno stato di necessità che andrebbe prevenuto con il massimo impegno, anche con un adeguamento delle condizioni assistenziali in modo da far fronte a situazione di acuzie, o almeno superato il più rapidamente possibile …” Il no restraint contempla prima di tutto un pensiero, una “visione” ci hanno raccontato gli amici mantovani, a cui va associato un lavoro quotidiano, costante e attento di accompagnamento e di inclusione sociale nel territorio, che permetta alla persona un minimo di sollievo al depauperamento delle sue risorse e alle sue pervicaci angosce. E’ il lavoro di accompagnamento nel territorio che fa la differenza: un Progetto personale che contempli un’offerta di interventi mirati ad una presa in carico integrata e la prossimità di qualcuno che non la faccia sentire sola. E’ questa offerta integrata come ci hanno raccontato gli operatori di Iseo che fa diminuire le recidive in SPDC, aumentare le opportunità di cure territoriali e rendere meno necessario il ricovero in SPDC. Quanto alla psicoeducazione “che dà al paziente una una maggiore consapevolezza e capacità di gestione dei suoi problemi” la consapevolezza non avviene per lo più per insegnamenti top-down dati dall’esperto alla persona sulle psicopatologie di cui è affetta, che per adesione al momento introietta senza tuttavia scalfire la sua condizione di fragilità, di disistima e d’angoscia. La consapevolezza avviene piuttosto per un processo interiore frutto di un buon ascolto e di un accompagnamento, che permetta al soggetto di riappropriarsi della propria singolarità, delle sue potenzialità e della sua sofferenza: i soli elementi costitutivi che gli restituiscono la percezione del suo esserci e di appartenere a una “famiglia”, a una comunità, di avere un posto nel mondo ritagliato per sé. Allora il problema sta talvolta nei diversi “giudizi ideologici” da lei evocati alla fine del suo testo che tali sono, i miei come anche quelli provenienti dalle cd “evidenze scientifiche” che lei evoca, su cui auspico, insieme alle prassi in SPDC, vi sia nel proseguo un proficuo confronto. Grazie per la disponibilità e per il futuro continuo confronto. Valerio Canzian
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