![]() Conferenza tenuta a Curitiba il 27 luglio 1987 Jacques-Alain Miller Continueremo a parlare oggi di quel che abbiamo iniziato a dire nella prima conferenza a proposito della struttura dei colloqui preliminari. Domande, osservazioni, note e contributi saranno ben accetti, prendiamoci tempo per per dialogare con la massima libertà. L'argomento riguarda quel che succede sulla soglia dell'analisi, sul limite, sul confine a partire dal quale siamo nel discorso analitico. Da tempo sto riflettendo sulla questione dell’entrata in analisi dal punto di vista dell'analista, e la riprendo ora per rispondere all'interesse manifestatosi in diversi lavori brasiliani sulla rettifica soggettiva, termine usato da Lacan nel suo articolo La direzione della cura. Mi serve anche per cominciare a sviluppare le linee di un trattato sul metodo analitico. Possiamo dire che l'analisi non è solo un metodo. Considerando però l’esperienza psicoanalitica dal punto di vista del supervisore, sicuramente c'è in gioco un aspetto che riguarda il metodo. Vorrei tentare di verificare quel che è la pratica comune in Francia e cominciare un po’ a formalizzarla con elementi che sono famigliari, ma presi in un altro modo. La diagnosi in psicoanalisi Nella prima conferenza ho messo l’accento sull’importanza della diagnosi. Il risalto dato alla diagnosi può contrariare, può persino urtare, delle sensibilità ideologiche. Abbiamo tuttavia qualcosa da imparare da questo modo di urtare le sensibilità. Nel nostro ambiente, quando si parla di diagnosi, si pensa subito alla diagnosi psichiatrica, caratterizzata quasi sempre da una presunta oggettività. Questo può farla apparire meccanicistica. Noi, nel campo analitico, siamo invece dalla parte del soggetto. Si pone allora la questione se ci sia o no una diagnosi del soggetto, una diagnosi costituita non solo dalla pura oggettività, ma relativa al soggetto. È comprensibile che il primo impulso di un lacaniano possa essere quello di rifiutare l'idea della diagnosi. Questa situazione non si verifica solo qui, succede anche altrove. Ha a che fare con le deviazioni dalla psicoanalisi prodotte degli eredi di Freud, quelli ora nell'IPA che, possiamo dirlo, hanno meccanizzato l'insegnamento di Freud con la psicologia dell’Io. Bisogna aggiungere che, coerentemente con la pratica clinica esercitata nell’IPA, si sono consolidati gruppi e istituzioni caratterizzate da una gerarchia molto rigida. La deviazione storica della psicoanalisi dovuta, tra l'altro, allo spostamento del centro del potere istituzionale dalla vecchia Europa agli Stati Uniti, ha prodotto contraccolpi molto forti, come il movimento dell’antipsichiatria, animato da psichiatri e psicologi che lavoravano nelle istituzioni. Lacan lo chiamava "movimento per la liberazione degli psichiatri" e non dei pazienti. Si produce così un rifiuto della psicoanalisi, che si riflette nell’IPA e nella disciplina nel suo insieme, sia nella clinica sia nella pratica. Dalla sua posizione di escluso Lacan ha attirato una quantità di persone che rifiutava sia la pratica clinica sia la pratica istituzionale dell'IPA. Con l’andar degli anni queste persone si sono man mano riunite intorno a Lacan. Quando nel 1964 Lacan fondò l’Ecole freudienne a Parigi, eravamo poco più di un centinaio. Eravamo cento perché Lacan, in questo nuovo concetto d’istituzione che era la Scuola, aveva incluso come membri i suoi allievi. Se non l'avesse fatto non so quanti saremmo stati, forse venti o venticinque. Quando sono entrato nell’Ecole freudienne di Parigi conoscevo Lacan solo da sei mesi, ed ero tuttavia stato preso, questo mostra che la selezione non era poi tanto rigida. Lacan, come escluso, aveva qualcosa in comune con tutti coloro che rifiutavano la pratica clinica e istituzionale dell'IPA. Pur essendo nato all'inizio del secolo, Lacan aveva una sensibilità molto moderna, quasi postmoderna. La straordinaria crescita dell’Ecole freudienne di Parigi si verificò a partire dal maggio 1968. C'era tuttavia sempre un malinteso: le persone proiettavano su Lacan una posizione che non era la sua. Per tutta la vita, prima una volta alla settimana e poi ogni quindici giorni, Lacan si è recto all'Ospedale Psichiatrico Centrale di Parigi per presentare casi di pazienti seguendo l’impostazione psichiatrica classica, e sollevando l’indignazione di quanti avevano una sensibilità antipsichiatrica. Ho un ricordo personale in proposito. Negli anni Sessanta avevo tenuto una conferenza su quel che significava per me l’insegnamento della presentazione dei malati di Lacan. Questo aveva scandalizzato la cara Maud Mannoni, con la sua sensibilità antipsichiatrica. Poiché si trattava di un congresso in cui c’era, Lacan disse che avrebbe continuato la presentazione dei malati nonostante Maud Mannoni, ritenendo esatta la "fotografia che di questa presentazione aveva fatto Jacques-Alain”. Il malinteso così, a volte, era pubblico. Per questo motivo ho iniziato il mio discorso mettendo l’accento sulla valutazione clinica. Non sono sicuro infatti che l'equivoco sia scomparso. Accentuare l'importanza della valutazione clinica non vuol dire tornare alla psichiatria, così come, per essere lacaniani, non basta rifiutare l'IPA, o esserne rifiutati. Per essere lacaniani non basta avere come parola d’ordine: “Né padrone, né Dio”, l’insegna tradizionale dell’anarchia. E non basta neanche coltivare l’ignoranza pura. Cerchiamo di essere più espliciti: per essere lacaniani bisogna studiare la clinica, acquisire il sapere clinico e utilizzarlo nell'esperienza. È vero che proviamo un certo disagio nei confronti del sapere clinico, perché generalmente il sapere clinico è di origine psichiatrica. Si è formato fino agli anni Trenta, dopo di che nella psichiatria non c'è più stata alcuna elaborazione propriamente clinica. Lacan diceva che solo l'isteria è un tipo clinico basato sul discorso analitico. Gli altri tipi clinici vengono dalla psichiatria, e ci vuole da parte nostra uno sforzo di formalizzazione. Per questo, come avrete potuto notare, negli Incontri Internazionali, ormai da qualche anno, si ritorna sistematicamente alle categorie cliniche. Non è solo per importarle nel discorso analitico, ma anche per formalizzarle. La mia allusione all’ignoranza pura prima vi ha fatto ridere. Non l’ho detto per svalutarla. L’ignoranza ha una funzione operativa nell'esperienza analitica. Non si tratta, però, dell’ignoranza pura, ma della dotta ignoranza, dell’ignoranza di chi le cose le sa e che volontariamente, in una certa misura, ignora il proprio sapere, per far posto al nuovo che deve venire. Si tratta di una differenza molto importante, necessaria per distinguere la posizione dell'analista prima e dopo la soglia dell'analisi, prima e dopo il confine del discorso analitico. La funzione operativa dell'ignoranza è la stessa della traslazione, la stessa della costituzione del soggetto supposto sapere. Il soggetto supposto sapere non si costituisce a partire dal sapere ma a partire dall’ignoranza. Da tale posizione l'analista può dire, o far capire, di non sapere in anticipo che cosa il paziente vuole dire e suppone anche che dica qualcos’altro da quel che intende dire. In questo la supposizione di sapere non è vincolata al sapere costituito. Se infatti c’è un sapere costituito, non c’è nessun bisogno di una supposizione, anche se c’è una supposizione d’ignoranza. Abbiamo distinto tre livelli: quello della valutazione clinica, quello della localizzazione soggettiva e quello dell’introduzione all'inconscio, legando i primi due alla soggettivazione, e gli ultimi due alla rettifica. Valutazione clinica Soggettivazione Localizzazione soggettiva Rettifica Introduzione all’inconscio Dalla valutazione clinica alla localizzazione soggettiva: la soggettivazione C’è un vettore per tutto questo: è il vettore dell'atto analitico, il "sì" o il "no" dell'analista, che avalla o rifiuta la domanda del paziente, la domanda del paziente di essere paziente di un analista. ˘È il vettore della responsabilità a sostenere tutto questo, un vettore dove l'analista è il giudice e il paziente è il candidato. Certamente la valutazione clinica, nell'esperienza analitica, non si costituisce nell'oggettività. Quando parliamo di diagnosi, in questa prospettiva il soggetto è un riferimento inaggirabile. Lo abbiamo già visto quando abbiamo parlato della perversione. Possiamo facilmente diagnosticare un comportamento perverso, o un'omosessualità maschile, come fa il paziente stesso, il suo medico, i suoi amici o i suo famigliari. Non è necessario essere analista per farlo. Tuttavia, questa è un'omosessualità di fatto, è il modo di godere. Dobbiamo rispettare i modi di godere. La differenza, l’elemento nuovo che l'esperienza analitica può o deve introdurre, è la posizione che il paziente assume rispetto alla propria omosessualità, e questo è molto diverso dal considerare il suo comportamento. Non è la stessa cosa quando il comportamento è messo in atto da qualcuno che dice: “Lo faccio e lo confermo, lo faccio e lo ripeto", o da qualcuno che invece dice: "Lo faccio, ma sono contrario”. Anche se io comportamento è lo stesso, nel primo caso questo godimento risolve la questione del desiderio, nell'altro l’acuisce. Cercherò di spiegare la differenza. Ho parlato dell'omosessualità di fatto, ma si tratta di sapere se per il soggetto che si rivolge all’analista si tratta di un’omosessualità di diritto. Utilizzo qui l’opposizione tra de facto e de jure. Si tratta di sapere se ci troviamo di fronte a un’omosessualità confermata o no. Esiste un legame tra l'omosessualità maschile e il diritto. Nell’antica Grecia , in effetti, l’omosessualità maschile aveva uno statuto privilegiato tra i padroni, quelli che detenevano il diritto. C’era in questo caso un'omosessualità di diritto, perché era profondamente legata al fallo. Quando parliamo di diritto siamo molto vicini alla questione fallica. In analisi la questione di diritto è essenziale ed è molto più importante di quella di fatto. In generale, le persone che vengono in analisi si sentono fatte male. Questo in realtà è vero perché fa parte della condizione umana. Sono però i nevrotici a percepirsi come fondamentalmente fatti male. I nevrotici, fa notare Lacan, rappresentano eminentemente la dignità umana, perché sono quelli che soffrono di essere fatti male. La frase di Lacan: "Non c'è rapporto sessuale", significa appunto che il rapporto sessuale manca, per questo siamo fatti male. Una domanda fondamentale per il soggetto in analisi è: "A cosa ho diritto?” Il nevrotico può così rifiutarsi di abbandonare quel che gli impedisce di godere perché inconsciamente non sente di averne diritto. Sappiamo che il diritto è sempre una finzione simbolica, anche se è operativa nel mondo e lo struttura. Una persona ha un diritto e un'altra no, e questo diritto è una finzione, ma i risultati sono effettivi. Nelle società strutturate sulla relazione padrone-schiavo, per esempio, il diritto ha effetti molto concreti. Così, quando parliamo di castrazione simbolica, anche qui si tratta di una questione di diritto. Nella storia dell'umanità c'è una questione non ancora del tutto risolta: "A cosa ha diritto una donna?”. Freud l’ha chiamata penisneid. Questa questione è ripresa dagli uomini per eventualmente ridurre i diritti femminili privilegiando quelli maschili. Nell'esperienza analitica appare però che tale questione è ripresa anche dalle donne, e ciò significa che anche per le donne la questione rimane irrisolta. Il penisneid e la castrazione fanno sentire la differenza tra fatto e diritto. Esiste infatti l’aspetto biologico della riproduzione sessuale, motivo per cui una parte della specie è fatta in un modo e l'altra in un altro. Il punto è tuttavia che non si tratta di un problema di fatto, ma di simbolo, cioè di diritto. Come intorno al fallo irradia lo splendore del privilegio, dal lato femminile troviamo l'assenza di diritto. Ma, come ha detto Lacan, questo privilegio è più che altro un peso. Non averlo sembra dare alle cose nella vita, e al desiderio stesso, una prospettiva più adeguata. L'uomo è un po’ imbarazzato dal privilegio. Anche le donne possono risultare imbarazzate, ma l’uomo è imbarazzato di partenza. Torniamo al concetto di soggetto, per evitare che abbia tra noi il senso antico e comune. La considerazione metodica del soggetto è infatti ciò che in Lacan c’è di nuovo. Quando Lacan dice che il vero inizio del suo insegnamento è nel 1953, con l'articolo Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, quando ritorna su questo testo per ristamparlo nei suoi Scritti, quando deve ratificare questo articolo, fa una breve introduzione con il titolo Sul soggetto infine in questione. Segna con questo l'inizio del suo insegnamento: non con la linguistica, non con lo strutturalismo, ma con la considerazione del soggetto. Credo possiate ora vedere in che senso il soggetto nella clinica è un soggetto di diritto, che stabilisce la propria posizione in rapporto al diritto, e non un soggetto di fatto. Se qualcuno tenta di osservare il soggetto cercandolo nella sua oggettività non lo troverà mai, troverà solo percentuali. In Germania e negli Stati Uniti sono stati realizzati studi per quantificare l'esperienza analitica utilizzando questionari rivolti agli analisti, dove si chiede per esempio: "Quanti trattamenti avete condotto con successo?, Quanti sono stati interrotti?, Quanti sono terminati con esito negativo?” e così via. La difficoltà, tuttavia, è che su cosa si possa considerare come una cura conclusasi positivamente le opinioni degli analisti divergono. Occorre inoltre verificare l'opinione del paziente, che è abbastanza mutevole durante l'esperienza analitica e dopo di essa. In tal modo si vede che è proprio il soggetto a impedire la possibilità di quantificare l’esperienza analitica. Dire che il soggetto, nella clinica, non è soggetto di fatto ma di diritto equivale a dire che non si può separare la clinica psicoanalitica dall'etica della psicoanalisi. È quest’ultima infatti, nell’esperienza psicoanalitica, a costituire il soggetto. Questo tema è stato scelto per il primo Incontro brasiliano del Campo freudiano, nell'aprile 1989 con il titolo: L'etica della psicoanalisi, le sue incidenze cliniche. La prima incidenza clinica dell'etica della psicoanalisi è il soggetto stesso. Localizzazione soggettiva Come si vede, il livello descrittivo non ha molto peso nell'esperienza analitica. C'è stato un tempo in cui Freud cercava di verificare i fatti riferiti dal paziente, ma in seguito ha abbandonato questa pratica, poiché non si tratta di verificare i fatti. Ci sono analisti che ritengono estremamente importante osservare il paziente: vedere come si muove, come si veste, come si sdraia sul lettino, cosa fa con il corpo durante la seduta, come entra, come esce. Un eminente analista come Wilhelm Reich, quando era ancora freudiano, nel suo trattato sul metodo analitico sottolineava l'importanza di osservare il comportamento in modo un po' zoologico. Non dico ora che l''analista debba essere cieco. È bene considerare se il paziente è donna o uomo, anche se non sempre è facile fare la differenza. È bene tener conto anche dei cambiamenti nel modo di vestire, perché possono corrispondere a un cambiamento di posizione soggettiva, o rispondere a un'interpretazione. L’essenziale tuttavia non è questo, l’essenziale è ciò che il paziente dice. Soffermiamoci un po’ su questa frase: "L'essenziale è ciò che il paziente dice”, perché significa separarsi dalla dimensione del fatto per entrare in quella del detto, che non è molto distante da quella del diritto. Nel nostro metodo non basta tuttavia passare dalla dimensione del fatto a quella del detto. Presentare l’analisi come il meccanismo dei detti è un falso lacanismo. Il meccanismo dei detti non vale più del meccanismo della psicologia dell'Io. È vero che in Lacan ci sono cose che riprese in altro modo potrebbero diventare un meccanismo. Per esempio la differenza stabilita da Lacan, a partire dalla linguistica, tra metafora e metonimia. Questo fantastico e comodo binarismo sulla base del quale ci si può chiedere, ad ogni frase, se si tratti di una metafora o di una metonimia, può costituire un meccanismo pseudo-lacaniano. Alcuni degli allievi di Lacan si sono separati da lui pensando di aver già capito tutto con la metafora e la metonimia, ed sono entrati nell’IPA acquisendo prestigio grazie questo. Motivo per cui capita oggi di incontrare a New York analisti dell'IPA che dicono: "Lavoriamo anche noi con la metafora e la metonimia. È stato Lacan a inventare tutto questo? Come meccanismo è assolutamente compatibile con tutto ciò che pensiamo." Non basta quindi passare dai fatti ai detti, un secondo fondamentale passaggio consiste nel mettere in questione la posizione che il parlante assume rispetto ai propri detti. L’essenziale è, partendo dai detti, localizzare il dire del soggetto, ovvero quel che Lacan, riprendendo una categoria di Jakobson, chiamava enunciazione. Questa è la posizione che chi enuncia prende in rapporto all'enunciato. Su questo si pongono molte domande. Il paziente dice qualcosa, metafora o metonimia, ma quando lo dice per lui è qualcosa che considera vero o falso? Nello stesso detto c'è una distanza tra il dire e il detto. Qualcuno può dire qualcosa senza crederci completamente. In tal modo si tratta di una questione tra il detto e il dire. C’è un modo molto semplice per capire questo problema con la logica matematica. Possiamo avere una proposizione emetterci accanto la lettera V, per vero, o F, per falso. La proposizione è la stessa, però può avere un valore diverso, che indica la posizione rispetto al detto. Questo tipo di contrassegno, vero o falso, viene chiamato classicamente livello apofantico, anche se può avere un senso più profondo. La modalizzazione del detto C'è un altro modo che permette di vedere meglio la posizione soggettiva, un modo che serve a marcare il valore del detto. Posso dire per esempio: "Vengo domani”. Questo è il detto, ma se ne può indicare il valore in diverse maniere. Una può essere: "Vengo domani è una bugia”. Oppure: "Vengo domani, forse”. O: “Vengo certamente domani”. O: "Vengo domani, se non vado da qualche altra parte”. O: "Vengo domani, sicuro che vengo”. O: "Vengo domani, ma non credo”. O: "Vengo domani, dipende da quel che mi dici". Questi diversi modi sono classicamente chiamati modalizzazione, perché sono una modulazione del detto. Sono parole che per l’appunto indicano, nel detto, la posizione che il soggetto assume rispetto a esso, Questo va visto in contrasto con la logica matematica classica, dove ci sono solo due valori. Si può eventualmente aggiungere un terzo o un quarto valore, ma nella lingua, invece, i livelli di modalizzazione sono pressoché infiniti, per indicare sottilmente quel che si fa o quel che si dice. Anche il tono di voce può essere una modalizzazione. Sono questioni che l'analista deve costantemente porsi, e che hanno come riferimento il soggetto stesso. Qualcuno può dire qualcosa senza credere a quel che ha detto, e tuttavia, perché non dirlo? Questa è la regola. Può darsi che in analisi il soggetto dica qualcosa per verificare se l'analista gli crede e, in tal caso, lui stesso comincia a crederci. Oppure il fatto che l’analista gli crede convince il soggetto che l'analista è uno stupido. Non sempre però si tratta di un invito all'analista a mostrarsi intelligente. A volte il soggetto ha bisogno che l'altro sia uno sciocco, perché questo lo rassicura. Non dobbiamo quindi sembrare troppo intelligenti, perché una certa aria di stupidità può anche fare miracoli. Scherzo, ma il problema è serio: il paziente può pensare che l'altro si accorga di tutto e si senta visto come fosse trasparente. Per permettere al desiderio di svilupparsi occorre un luogo oscuro, e occorre far pensare ci sia qualcosa che l'altro non può percepire. Dobbiamo permettere al soggetto qualche inganno, e non dobbiamo andare subito a svelare il soggetto dietro il sipario, dicendogli che non è vero, che c'è una contraddizione. È al contrario necessario, soprattutto nei colloqui preliminari, consentirgli di mentire un po’, perché possa cogliere qualche antinomia nella logica dei suoi detti. Questo, infatti, costituisce già un’introduzione all’inconscio. Localizzare il soggetto è un modo di iniziare a introdurre all’inconscio. Anche dire la verità è una modalizzazione. Classicamente il detto può essere matematizzato su due livelli, il vero e il falso. Non è possibile matematizzare il detto sul piano della modalizzazione. Recentemente sono stati fatti tentativi di matematizzare la logica modale, ma questo le fa perdere tutte le sfumature, tutte le gradazioni della modalizzazione. A volte è semplice dire la verità, quando la si confonde con l’esattezza, ma la verità e l’esattezza non sono la stessa cosa. È facile dire la verità quando la conosciamo. Tuttavia in analisi lo sforzo di dire la verità, la verità più stringente, nasce dal fatto che non possiamo conoscerla, e la si produce con la regola di dire tutto, così come si presenta. Il primo risultato è che la verità non si può dire, poiché non la conosciamo, e l'unica cosa che si può fare è dirla senza conoscerla. Ci sono soggetti per i quali lo sforzo di dire la verità rende impossibile dirla, e questo diventa una sofferenza: questi soggetti sono gli isterici. La psichiatria tratta gli isterici a partire da concetti come il teatro, la mitomania. È uno scandalo. Sarebbe meglio piuttosto prendersi cura di soggetti che soffrono nel proprio essere per l'impossibilità di un’autenticità – quel che Freud aveva chiamato proton pseudos la menzogna originaria – come qualcosa che indica la loro sola possibilità soggettiva. La scatola vuota del soggetto Cercherò di formalizzarlo molto semplicemente per introdurre questa considerazione nel metodo analitico stesso. Si tratta di distinguere tra il detto e la presa di posizione di fronte al detto, che è il soggetto stesso. Vale a dire: occorre sempre inscrivere qualcosa, in seconda battuta, come indice soggettivo del detto. Per questo introduciamo oggi un semplice simbolo, quello di una scatola vuota. Non una scatola nera, the black box, ma una scatola vuota, dove possiamo scrivere le variazioni della posizione soggettiva. L'esempio freudiano per questo è la Verneinung. Come analisi della struttura del detto in relazione al dire. Il paziente dice, a proposito del personaggio del suo sogno: "Non è mia madre”, e Freud afferma con sicurezza che il fatto di dire: "Non è mia madre" conferma che il personaggio del sogno è proprio la madre. È difficile comprendere questo esempio in termini di oggettività: la psicoanalisi non ha senso sul piano della pura oggettività. Se il soggetto dice: "È mia madre", l'analista conferma: "Sì è sua madre”. Se il soggetto nega: "Non è mia madre", l'analista ribatte: "Sì, è sua madre". Quindi l'analista ha sempre ragione: sia quando dice "sì" sia quando dice “no". C’è qualcosa del genere in analisi quando è condotta in modo un po’ imprudente. L’esempio della Verneinung in Freud mostra la struttura del detto in relazione al dire. Freud distingue infatti il detto dalla modalizzazine della negazione, ovvero il diniego. In altri termini: prima c’è il detto: "È mia madre", seguito dalla posizione assunta dal soggetto nevrotico rispetto al detto, che consiste nel porvi il segno della negazione. C'è un personaggio nel sogno che il soggetto non sa chi sia. Per dirlo, però, tra tutti gli esseri umani sceglie sua madre e dice: "Non è lei". In tal modo il significante “madre”, presente nel detto in quanto tale, è distinto dall'indice della negazione che modifica il rapporto del soggetto con il detto. Come dice Freud, la negazione è un indice dell'inconscio, un Made in Germany o un Industria brasileira, è il marchio di fabbrica. Lacan nel Seminario XI lo chiama il colofone, l'indice soggettivo, e in questo caso l’indice soggettivo è il segno di negazione. In questo breve esempio possiamo vedere l'attività fondamentale della nevrosi, il rapporto del nevrotico con desiderio. Ci mostra infatti come il nevrotico non possa accettare il desiderio senza il segno di negazione. Un paziente nevrotico ossessivo, per esempio, non può desiderare una donna se questa donna non ha un difetto. All'inizio cerca di valorizzarla, ma nella nevrosi ossessiva la condizione per realizzare il desiderio è di focalizzarsi sul piccolo difetto non visibile a prima vista. La svalutazione dell'oggetto d’amore, che spesso s’incontra nella nevrosi ossessiva, è una condizione del desiderio. Questo ritrarsi dal desiderio fa parte del modo nevrotico di desiderare. A volte vediamo coppie, spesso molto solide, fondate sul fatto che la moglie è disprezzata dal marito perché incarna il segno negativo del desiderio. Questa donna, criticata quotidianamente, nell'esperienza analitica si rivela essere oggetto di un amore intenso. Come principio del metodo è quindi imperativo per l'analista distinguere sempre tra l'enunciato e l'enunciazione, e parallelamente tra il detto e il dire. Una cosa è ciò che viene detto, il detto come fatto, altra cosa è ciò che il soggetto fa di quel che dice. A volte c'è un rapporto strumentale tra il soggetto e le sue parole, cosa del tutto evidente quando qualcuno usa le parole per ingannare l'altro. Quel che cambia nella prospettiva analitica è che il soggetto usa la parola per ingannare se stesso. Un detto non garantisce nulla. Spesso un soggetto dice qualcosa ripetendo quel che altri hanno detto. Mi riferisco all'uso quotidiano della parola. Passiamo tantissimo tempo a parlare! Ora le mie parole vengono registrate, ma non si registrano gli intervalli, e anche questi fanno parte del discorso. Sarebbe quindi più interessante studiare quello che si dice nelle pause, non solo per mia informazione. Non c'è una sola frase, un solo discorso, una sola conversazione che non porti il segno della posizione del soggetto rispetto a ciò che dice. Viene pronunciata una frase, e subito dopo viene la posizione di chi parla rispetto quel che dice. Per esempio, se qualcuno chiede: "Ci credi?”, il soggetto può rispondere: ”Sì, ci credo”. Oppure: "Ne sono sicuro”. O ancora: “Me lo ha detto il tal dei tali". Tutti questi fenomeni sono inscritti nella struttura della posizione soggettiva rispetto al detto. Nella lingua questo è presente, ed è oggetto di certe discipline linguistiche, come notò Lacan in un testo molto preciso, di fondamentale importanza clinica a che prenderemo tra poco in esame. Questo è importante per capire che quando si prende alla lettera ciò che l'altro dice, si producono degli effetti. Se qualcuno dice: "Non ti amo più", e l'altro risponde “Lo dici tu", il primo può fare marcia indietro: "Ho detto che non ti amo più, ma quando tu…”, Il semplice fatto quindi di dire: "Lo dici tu" introduce la possibilità di dire: "L'ho detto, ma non è quel che volevo dire. Dicendo ‘Non ti amo più’, volevo dire che ti adoro.” Questi fenomeni di relazione tra enunciato ed enunciazione sono decisivi per l'interpretazione analitica. È lo stesso esempio della Verneinung, "Non è mia madre", a cui Freud risponde: "Questo prova che lo è". Il fatto stesso di dire "no" è la prova del “sì”. Chiaramente questo non ha senso nel registro dell’oggettività. Ha ragione, per esempio, un epistemologo come Karl Popper quando considera la psicoanalisi e dice: "Gli analisti non hanno prove scientifiche, che sia 'sì' o che sia 'no', la verità è sempre quella dell’analista.” Ha ragione perché sul piano dell’oggettività questo non ha senso, non ha senso se non si introduce la funzione del soggetto. Introducendo la funzione del soggetto si può rendere conto di ciò di cui si parla ora. Per questo l'interpretazione analitica minima è: “Ecco!" o, come la formula Lacan: "L'hai detto! Non te l'ho fatto dire io". L’interpretazione consiste nel presentare al soggetto il suo detto, come fosse: "Mangia quel che hai detto!”, Non si mangiano infatti solo libri, come nell'Apocalisse di San Giovanni, si mangiano anche le parole in analisi, e a volte per il soggetto mangiare le proprie parole non è proprio un piatto gustoso. Detto e citazione L'interpretazione analitica, che l'analista lo sappia o no, si basa su questa struttura: Ecco perché in ogni discorso c'è una sospensione. Posso per esempio spiegare le cose in modo chiarificante – è la mia specialità – affermando: "Questo è il primo passo, ce n'è tuttavia un secondo” e dicendo così sto modalizzando ciò che ho detto prima. Non esiste quindi discorso che avanzi senza mettere continuamente tra virgolette il detto precedente come fosse una citazione. Ogni volta che si costituisce una sequenza significante, ciò che è stato detto prima, ricade in una certa oggettività: “È quel che ho detto prima, ma ora dico un'altra cosa.” Un paziente, per esempio, dice: "Non sono nessuno". Affermazione che può essere corretta subito dopo: “È quel che diceva sempre mio padre", e questo cambia il valore della prima frase. C'è però qui una certa ambiguità: bisogna vedere infatti se il padre lo diceva del paziente o di se stesso. La sequenza risponde alla struttura minima del significante, secondo cui un significante – in questo caso una frase – assume significato solo retroattivamente a partire da un secondo significante. In questo caso la prima frase cambia significato quando viene formulata la seconda. il linguaggio funziona sempre in questo modo, in retroazione. Questo implica un continuo processo di citazione. Nessuno può parlare senza citare. Nell’esempio di prima il paziente è in buona fede, e dice: “Non sono nessuno”, lo dice però tra virgolette, aggiungendo: “È una frase di mio padre”. Il più delle volte però il soggetto non sa che quel che sta dicendo è una citazione del discorso dell’Altro, e che questo introduce un elemento fondamentale, una cesura, una rottura tra il detto e il dire. La dimensione della citazione è presente anche nei proverbi, quando, per esempio, si dice: “Tale il padre, tale il figlio”. È la citazione nel discorso della voce anonima della saggezza popolare. Seguendo l'analisi di Freud, ogni volta che si usa la negazione si fa una citazione, perché vi è un primo enunciato, sempre affermativo, e in secondo luogo c’è la posizione del soggetto, che può negare o confermare l’enunciato. Suppongo che questo sia chiaro a partire da quel che ho appena sviluppato sulla ripetizione. Dire una volta è una cosa, ripeterlo è un’altra cosa, e molto pericolosa. Ci sono cose che è meglio dire solo una volta e poi aggiungere: "Non l'ho mai detto". Ripetere è un atto fondamentale della vita e, per la precisione, riguarda il diritto. Per segnare la posizione soggettiva, che nel diritto non deve cambiare, esiste l’istituzione della scrittura. È sempre possibile infatti fare un contratto e, il giorno dopo arrivare dicendo: "A causa della mia analisi, la mia posizione soggettiva è cambiata". Vorrebbe dire rinunciare all’affare. Da qui l'obbligo di firmare, per garantire, in termini di diritto, che la posizione soggettiva non muti. Chi ha firmato non può poi venire il giorno dopo per ritirare il documento firmato. Il soggetto del diritto sociale ha le proprie leggi in contrapposizione con con il soggetto del diritto analitico. Utilizziamo allora il simbolo di Frege, un logico consapevole del fatto che la prima affermazione è sempre affermativa, e che dopo ne segue una seconda che nega o conferma. Per scrivere l'affermazione primaria Frege ha utilizzato un simbolo molto semplice: una linea verticale che tocca un'altra linea orizzontale, ma non in forma di croce. Prima di scrivere la proposizione: “Lo dico e lo ripeto", per esempio, dobbiamo porre una seconda barra che funge da conferma. on è infrequente trovare un ossessivo con il sintomo evidente e misterioso di non riuscire a firmare con il proprio nome, che si tratti di un assegno o di un modulo d'albergo. Ne ho trovato uno che non poteva firmare in presenza di altri. Firmare o ripetere sono atti simbolici. Non è la stessa cosa dire: "Non mi piaci" e, di fronte alla risposta dell'altro, aggiungere: "Lo dico e lo ripeto", oppure: “L’ho detto, ma lo nego". Ciò che Freud chiama Verneinung è, per l’appunto, dire e negare, e non dire e ripetere, o dire e confermare.
Questo ci porta immediatamente alla questione di sapere fino a che punto il soggetto parla a nome proprio, poiché non succede spesso che una persona venga in analisi parlando a nome proprio. Il soggetto può venire parlando a nome della coppia, a nome della sua famiglia, attribuendo ad altri il detto che i tuoi sintomi non si possono più sopportare Un paziente è venuto nel mio studio per richiedere un’analisi accompagnato dalla moglie. Parlava solo la donna, mentre lui, il futuro paziente, taceva. Si trattava infatti di un isterico che, nella sua domanda d’analisi, aveva bisogno di essere rappresentato da una donna. Questa domanda, nello strano modo in cui si era manifestata, portò in seguito anche la moglie a domandare un'analisi. Una madre può portare il figlio in analisi e chiedere poi un contatto con l’analista. Ma dopo un po’ si scopre che la domanda di fatto è sua, e che il figlio è lì come sostituto, perché il soggetto questa domanda non poteva assumerla. Attribuzione soggettiva Un analista non sa mai ciò che l'altro gli domanda davvero. Una domanda di analisi può passare attraverso una domanda di supervisione. Anche un invito all’analista a parlare per una conferenza può nascondere una domanda d’analisi. Sono fatti piuttosto noti. Se, tuttavia, un analista si regola solo in base a questo, non andrà molto avanti. Il problema si può invece vedere in modo più preciso se lo si formula nei termini di Lacan a partire da un paragrafo essenziale del suo testo sulle psicosi. È un passaggio ancora poco studiato, che si trova in Una questione preliminare, dove Lacan dice che per ogni catena significante si pone la questione dell'attribuzione soggettiva. Si tratta del fatto che non c'è una sola catena significante per la quale non si ponga la questione del soggetto, di chi parla e da quale posizione parla. Si tratta sempre di un'attribuzione del soggetto del detto. Ne ho discusso quest’anno nel mio seminario con le persone meglio informate sull'opera di Lacan, e mi sono reso conto di come sia difficile spiegare ciò a cui egli punta. Scrive Lacan: “La struttura che le è propria [alla catena significante] in quanto significante, è determinante in questa attribuzione che, di regola, è distributiva, cioè a più voci.” Questa frase è un assioma che vale non solo per le psicosi, ma per ogni catena significante. Lacan afferma che questa struttura, per ogni catena significante, pone la questione in termini di citazioni. Non c’è, in generale, unità della catena significante dal punto di vista dell'enunciazione. Una parola è, in realtà, la ripetizione del discorso dell’Altro, è una citazione. Quando il soggetto dice: "Non sono niente”, è la voce del padre che parla. In tal modo sarebbe un'altra voce e implicherebbe un'analisi. La catena significante è fondamentalmente polifonica, parliamo con più voci, modificando continuamente la posizione del soggetto. A volte stiamo seri, dopo un’attimo scherziamo, dopo un altro stiamo minacciando: il teatro esiste per questo, è un fatto umano fondamentale, perché in esso si incarnano le diverse voci. Questo è un punto chiave sia per la dottrina delle nevrosi sia per quella delle psicosi. Per il metodo analitico è l'importante anche la punteggiatura che, a dire il vero, dipende dal modo in cui l'analista fissa la posizione soggettiva. Non c'è parola più peculiare di quella dell'analista per fissare la posizione soggettiva, che rende possibile riconoscere una parola di verità. Prendiamo per esempio le allucinazioni. Il soggetto isterico ha tutto il diritto di avere allucinazioni, ma queste non sono affatto della stessa natura di quelle psicotiche. La posizione soggettiva di un isterico di fronte alle allucinazioni è molto diversa da quella di uno psicotico. Per lo psicotico, anche se non conosciamo tutti i dettagli delle sue allucinazioni, sappiamo che in esse vi è un punto di certezza. Tutto intorno può apparire confuso, ma non l’allucinazione: lo psicotico non hai dubbi di avere sentito una voce nella testa. Il soggetto isterico può sforzarsi di non dubitare, ma se lo facciamo parlare ci accorgiamo che per lui non c'è nessun punto di certezza. È importante che da subito l'analista, quando ha a che fare con un soggetto isterico, non indulga sul discorso sulle allucinazioni. Ho incontrato una volta una giovane isterica che per venire nel mio studio attraversava i Jardins du Luxenbourg. Si lamentava del fatto che tutti intorno a lei sembrava le parlassero nella testa, e che si verificava una trasmissione del pensiero con una certa persona nei Jardins. Dopo alcuni minuti di questo racconto, con cui voleva passare per pazza, è stato necessario tagliare il discorso dicendo: “Vuole presentarsi come pazza!” Ho puntualizzato, appunto, la posizione soggettiva, la posizione in rapporto al detto, dicendole di non pensare che prendessi sul serio tutto quel che diceva. In analisi non c’è niente di più importante di questo. È la direzione della cura: bisogna sapere cosa deve essere preso sul serio e cosa no. È possibile che l'analista s’interessi a un'allucinazione isterica. Se però rende manifesto questo interesse, l’allucinazione può durare mesi, perché il soggetto isterico può produrla proprio per soddisfare, o per frustrare, il desiderio che l’analista ha fatto trapelare. Non lo fa per fare teatro, ma per rispondere al desiderio dell'Altro. Ci sono casi in cui l'analista riferisce una serie di effetti che semplicemente è stato lui a produrre. Una depressione psicotica va presa sul serio, costituisce la premessa di un passaggio all'atto riuscito, il suicidio. Di fronte a un depresso dovremmo manifestare sorpresa, non partecipazione emotiva alla sua depressione. Prima di venir qui ho avuto un primo colloquio con una persona che soffriva di un’ansia terribile. Sapeva che stavo per partire e, nonostante ciò, o forse proprio per questo, si era presentata piangendo, lamentandosi che i suoi figli sarebbero partiti per il fine settimana senza di lei, motivo per cui le giravano in testa idee di morte. Ho parlato a questa persona che si è presentata in lacrime mostrando un sorriso che, spero, non apparisse ironico, ma di gentilezza. Al secondo colloquio questa persona si era dimenticata della sua depressione, che due giorni prima sembrava annunciare la fine del mondo. La decisione dell'analista di partire ugualmente è così un atto simbolico. Per l'analista non si tratta di partecipare emotivamente alle situazioni affettive del paziente, dimostrando comprensione o tenerezza. Dimostrare, da parte dell’analista, incomprensione per gli affetti dell'altro è una posizione estremamente importante. Questa dimostrazione d'incomprensione provoca in genere rimproveri di disumanità. Può succedere che non analizziamo uno stato e, improvvisamente, il giorno dopo, il paziente si suicida. Quando parliamo di responsabilità dell'analista, non parliamo invano. Tutti gli analisti sanno che una parola infelice può uccidere, in un momento di grande intensità. Se, invece, l’esperienza analitica è condotta in forma più lieve, come assistenza sociale personalizzata, i rischi sono minori. Prima di introdurre qualcuno all'esperienza analitica vera e propria, dobbiamo verificare che non ci siano eventualmente altri mezzi. Evoluzione della modalizzazione del detto Il detto può essere modalizzato in modo tale che la domanda di cambiamento: ”Voglio cambiare", può rivelarsi come una domanda di non cambiare. Per esempio, recentemente, a Parigi, mi è pervenuta una domanda di analisi da parte di un uomo arrivato senza moglie ma che si presentava come marito. Sua moglie aveva intrapreso un'analisi, e dopo pochi mesi dall’inizio dell’analisi non è più riuscito più a riconoscerla come sua moglie. L'analisi l'aveva trasformata. Lui stesso d’altra parte non era nuovo all’esperienza analitica, poiché era in analisi da molto tempo. Quel che chiedeva ora all’analisi era questo: supponeva che la moglie stesse pensando di separarsi da lui, e voleva, con un nuovo analista, prepararsi alla separazione. Questo è un tipo di domanda d’analisi. Dopo qualche minuto salta fuori la storia che per anni questo marito aveva tenuto la moglie molto stretta a sé, considerandosi come il suo punto di riferimento fisso, come il suo unico punto di riferimento. Nella misura in cui lei ne aveva bisogno, lui aveva assunto questa funzione. Pare fosse anche la posizione del padre con la propria moglie, la madre del paziente, che era pazza ma senza essere proprio psicotica. Suo padre si considerava in casa il capo assoluto, e il paziente credeva che questa posizione fosse esattamente ciò di cui anche sua moglie aveva bisogno. Con l'analisi la donna aveva preso distanza rispetto alla sua posizione precedente, iniziando a lamentarsi delle frasi spregiative che lui le rivolgeva. Ora si lamentava: "Mi fai sempre sentire inferiore davanti agli altri". Quando gli chiesi se era vero, lui rispose: "Sì, non sa cosa fare e ha bisogno di qualcuno che la guidi". Naturalmente, la sua domanda di analisi andava nel senso di non cambiare, avrebbe preferito accettare di perdere la moglie piuttosto che cambiare qualcosa di se stesso. La sua domanda era: "Aiutami a perderla", come se lei non fosse niente, e poter così confermare la sua iniziale posizione soggettiva. La mia prima risposta è stata: “Lei non vuole cambiare". Evidentemente la posizione che teneva gli sembrava la migliore del mondo, poiché era stata quella di suo padre. Si rivelava così decisamente come un nevrotico ossessivo, dove la presunta inferiorità della moglie era la condizione del suo desiderio. Dopo pochi minuti, la mia seconda risposta è stata: "Per lei le donne sono esseri inferiori". Questo mi ha portato a non accogliere una domanda di analisi così formulata. Accoglierla così com’era avrebbe da subito impedito la localizzazione soggettiva. Le ultime parole che gli ho detto, in italiano, sono state che mi sembrava avesse bisogno di un aggiornamento, e che avrei potuto rivederlo la settimana successiva. La sua posizione nevrotica era possibile, prima dell'analisi della moglie, perché la condizione dell'uomo come capofamiglia era ancora praticata, in modi diversi, in molti paesi, come l'unica possibilità di elaborare il rapporto sessuale, in un’epoca in cui le donne non potevano andare in analisi. Oggi la moglie va dall'analista e qualche settimana dopo un signore si ritrova senza la sua serva. Il problema nella localizzazione soggettiva, in questo caso, era come rovesciare la domanda di non cambiare in una di cambiare. La sua domanda era: “Fai in modo che possa perdere questa donna, che mi piace, come fosse una merda". Questo era l'aiuto che mi chiedeva, questo sarebbe stato il senso se avessi avallato la prima domanda. Ho quindi rifiutato la formulazione iniziale senza respingere il soggetto. Quando è tornato, la seconda volta si è reso conto di aver detto: "O tutto resta come prima, o non se ne fa niente", e ha capito che sua moglie voleva solo prendere le distanze dalla solita routine. Quel che voleva, dicendo: "O tutto o niente", era preservare la sua posizione di signore del gioco, stabilendo le regole per una donna senza altri punti di riferimento. È possibile infatti che lei non avesse altro riferimento che lui. Ci sono molte coppie in cui una donna isterica senza punti di riferimento, si lega a un nevrotico ossessivo che si sacrifica per costituirsi come tale. In questo caso però si può notare che il fattore stabilizzante di primaria importanza era che la moglie venisse apprezzata. La posizione soggettiva del marito era completamente destabilizzata dal fatto che la moglie avesse un po' cambiato la propria posizione, non accettando più i modi spregiativi con cui il marito le si rivolgeva. Il senso di realtà di questo soggetto è legato al fatto che sua moglie rimanga nella posizione assegnatale. Nel secondo colloquio -– finora ce ne sono stati solo due – è stato l’occasione perché il suo mondo si manifestasse come uguale al suo sintomo. Nei colloqui preliminari entra già in gioco una funzione essenziale per l’analista: l'equivoco. A volte un paziente cerca un analista per vedere se alla fin fine c’è qualcuno che riesce a capire quel che dice., Non è tuttavia possibile convincere il paziente della nostra capacità di capire, se non si ricorre sistematicamente all'equivoco. Per esempio, con la domanda: "Cosa intende dire?". Questa domanda fa già entrare la dimensione del soggetto supposto sapere, in quanto mostrando al paziente che solo per simpatia non lo capiamo, introduciamo il soggetto al fatto che lui stesso non si capisce. Quel che può essere presentato come: "Nessuno mi capisce" si fonda in realtà sul fatto che chi non si capisce è il soggetto stesso. È quel che significa l’associazione libera, l'incomprensione di sé, ed è il motivo per cui la passione analitica è una passione dell'ignoranza. La simpatia, o l’empatia, così importanti per la scuola inglese di psicoanalisi, non hanno posto nell'analisi propriamente detta, perché il sollievo viene proprio dal malinteso. È stato Lacan a sottolinearlo. Quando era psichiatra era un sostenitore di Jaspers, che considerava il principio della comprensione come un criterio speciale nelle psicosi. Nel Seminario III, Le psicosi, Lacan dice invece che la cosa più importante è non comprendere il paziente. Dobbiamo stare molto attenti alla comprensione immediata. Non dobbiamo dimenticare quindi che nella tesi di psichiatria di Lacan il suo riferimento fondamentale è il principio della comprensione. Quando successivamente Lacan critica questo principio, vediamo che cambia la propria posizione soggettiva nei confronti dell'affermazione precedente. Spesso, quando prende in giro un analista, in realtà Lacan parla di se stesso, non si tratta di un discorso ispirato, ma di una metodica rettifica del detto precedente. In questo modo, il consiglio di non comprendere è semplicemente la conseguenza del fatto che non c’è metalinguaggio, vale a dire che non si può spiegare una frase a partire da un'altra che sarebbe definitiva, senza che si riproduca e continui la possibilità di assumere ogni volta una nuova posizione soggettiva. Localizzare il soggetto consiste quindi nel far apparire la scatola vuota in cui si inscrivono le variazioni della posizione soggettiva. È come mettere tra parentesi quel che il soggetto dice, e fargli cogliere come assuma posizioni diverse, modalizzate, rispetto al proprio detto. A volte un soggetto può dire: "Non mi interessa quel che dici". Si tratta di vedere se è vero o no. Con un soggetto per il quale le parole non funzionano non siamo sicuri che si possa fare un’analisi. Se però: “Non mi interessa quel che dici” significa: “Mi interessa invece quel che dirai", allora cambia tutto. Qual è il soggetto? Il soggetto è la scatola vuota, il posto vuoto dove si inscrivono le modalizzazioni. Questo vuoto incarna il posto della propria ignoranza, e incarna anche il fatto che la modalità fondamentale che deve emergere, attraverso tutte le variazioni, è questa: "io – il paziente – non so quello che dico". In questo senso il luogo dell'enunciazione è il luogo stesso dell’inconscio.
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