![]() Un’opinione sui progetti innovativi riferiti al disturbo dell’attenzione e all’iperattività ADHD, adolescenza e pre adolescenza. di Valerio Canzian E’ certo che ci troviamo da parte dei Servizi di salute Mentale di fronte a una spinta alla medicalizzazione di qualsiasi forma di disagio, comportamento, disturbo, malattia. Sappiamo che il difetto sta già nel Manuale Diagnostico dei Disturbi DSM IV ora DSM V che su basi statistiche tende ad attribuire una diagnosi di malattia a ciascun comportamento o sofferenza dell’essere umano tra cui l’ADHD. Il DSM V ha visto la moltiplicazione delle malattie, tra le quali anche un semplice lutto. Una tendenza a definire malattie i problemi umani e a cercare di porvi rimedio aggredendoli come se fossero malattie. Sappiamo che il DSM è sorto in America per soddisfare le esigenze delle compagnie assicurative alle quali serviva attribuire una misura alle prestazioni. Non una esigenza clinica quindi ma amministrativa. E tale è rimasta la sua funzione oggi. Sono stati smascherati e confessati i conflitti di interesse di tanti professionisti che hanno contribuito alla costruzione delle varie edizioni del DSM, portando ad associare alla misurazione delle prestazioni la diagnosi e la relativa prescrizione farmacologica. La crescita esponenziale dell’uso dei psicofarmaci ne è stata la conseguenza a tutto vantaggio delle case produttrici di farmaci che si sonno incuneate anche truccando i risultati delle sperimentazioni. Vedi al riguardo la recente pubblicazione del libro “ Indagine su un’epidemia - di Robert Whitaker - Giovanni Fioritti Editore - Lo straordinario aumento delle disabilità psichiatriche nell’epoca del boom degli psicofarmaci”. Una denuncia sull’abuso e conseguenze di psicofarmaci in America. Nessun carattere scientifico può essere attribuito quindi al DSM V, il Manuale Diagnostico. Perciò nemmeno l’ADHD può essere elencato tra le malattie. Anche Leon Eisenberg colui che gli ha attribuito il nome di malattia si è pentito è ha confessato che tale patologia non esiste. Vedi l’articolo allegato da Marando.
I termini con cui definiamo le varie manifestazioni delle “malattie” ( schizofrenia, disturbo bipolare, di personalità ...) non rendono conto della soggettività della persona, sono il nome attribuito a un gruppo di sintomi che ha una sua utilità per il medico ai fini amministrativi o di scambio tra professionisti ma è una riduzione della persona a una etichetta che non rende conto della sua complessità soggettiva. Il soggetto sfugge a qualsiasi misura, a qualsiasi etichetta. La sua sofferenza non può essere trattata solo in termini soppressivi come purtroppo avviene oggi, farmaco e/o comunità. La via più diretta per creare cronicità. Ciò che non è misurabile non è malattia, attiene al comportamento della persona, alla sua interiorità alla relazione con sé e con gli altri. Rimaniamo nel campo dell’incertezza per la quale non ci sono protocolli universali ma c’è un’arte da apprendere e da applicare al caso per caso, un saperci fare nella relazione per migliorare la vita delle persone, per andare incontro ai loro molteplici bisogni e desideri. L’unico arbitro di ciò che affligge una persona mentalmente e di ciò che la fa sentire meglio è l’interessato, è lui a definire ciò che è meglio. Thomas Szasz nel suo “Il mito della malattia mentale” sostiene che la malattia mentale in quanto tale non esiste. Il concetto di malattia si riferisce a una lesione fisica, a un’anomalia strutturale o funzionale del corpo. Il cervello come gli altri organi può ammalarsi, ma ciò pertiene al campo della neurologia. La mente, non essendo un organo corporeo non può ammalarsi, se non in senso metaforico per definire dei comportamenti che disapproviamo o che definiamo “bizzarri” perché li riteniamo sbagliati, attribuendo loro il nome di malattia. E ciò è ancora più vero applicato a dei giovani dove spesso le manifestazioni sono ancora fluttuanti, soggette a modificarsi nel tempo, anche se possono manifestarsi forme gravi già in giovane età. L’attribuire a un minore la diagnosi di ADHD non fa che renderlo oggetto di stigma e confinarlo in una etichetta di malato da cui può essergli difficile poi liberarsi. Entrare nel merito dei Progetti Innovativi non conoscendoli approfonditamente può essere difficile e forse azzardato. I risultati positivi che vengono loro attribuiti dai Servizi non sono sufficienti a giustificare interventi di carattere medicalizzante. Certamente il percorso previsto dal progetto attraverso cui il ragazzo è condotto può avere degli effetti cosiddetti terapeutici, riconosciuti dalla medicina come evidenze scientifiche. Se non altro il ragazzo può sentire riconosciuta la sua difficoltà, qualcuno se ne prende cura e questo può già avere certamente degli effetti positivi. Quanto durevoli? Quanto i benefici provengono dalla tecnica utilizzata o dalla dimensione relazionale implicata? Quanto quel percorso risponde al bisogno più profondo del ragazzo? Cosa esprime il ragazzo attraverso il “deficit di attenzione e/o l’iperattività” ?. Quali difficoltà di apprendimento, di interazione/integrazione in famiglia, nella scuola, con i coetanei, con gli adulti sta esprimendo da rendergli difficile l’attenzione e quindi l’apprendimento mentre è in classe? Dove sono concentrati i suoi pensieri? Che cosa lo distrae ? E’ un deficit di attenzione o non è forse un eccesso di focalizzazione dei suoi pensieri in qualcos’altro? O forse il bambino non è stato abituato all’attenzione perché non gli è stata chiesta attenzione all’origine. Quanto questi aspetti e domande sono state approfondite e prese in conto dal progetto innovativo? Chi può adempiere questo compito ? “ La Comunità educante” ? Quali sono i soggetti che la possono incarnare? Tutti quelli che ruotano attorno al bambino/adolescente. Tra questi può essere anche il medico, purché non ecceda nel medicalizzare l’intervento e purché il suo non sia il solo intervento. E’ sperabile che prima vi siano altri interventi: il coinvolgimento della famiglia, gli insegnanti, il lavoro degli insegnati con la classe, con i genitori. L’aiuto da parte di esperti agli insegnanti, ai genitori, agli operatori e ai medici. L’intervento nelle scuole e nei servizi da parte delle associazioni di familiari e delle persone con problemi di salute mentale con il loro sapere esperienziale. Sappiamo quanto tutto questo sia oggi carente, a partire dalla formazione universitaria sia essa degli insegnanti, dei professionisti della salute e del campo psicologico. La tecnica, il biologismo, le supposte cause genetiche o ereditarie, un uso distorto delle scoperte delle neuroscienze, gli interventi brevi e la delega allo specialista la fanno da padrone e il soggetto si perde per strada. Sono i professionisti della sanità gli unici portatori di competenze per svolgere questo ruolo? C’è bisogno di tecniche o c’è bisogno di accompagnare il ragazzo nel suo processo di crescita, di separazione dalle sue relazioni primarie e aiutarlo nel passaggio dalla dipendenza dall’altro familiare al domandare in proprio nel sociale, verso una integrazione con il mondo esterno e un’assunzione in prima persona delle proprie responsabilità? Gli agiti degli adolescenti, anche quelli gravi esprimono la difficoltà di questo passaggio di separazione, rappresentano i tentativi a volte mortali, come il suicidio riuscito, per uscire dalla morsa da cui non riescono a liberarsi. Il ragazzo ha da imparare a esprimere in parole ciò che vuole. Le nuove forme del disagio, anoressia, bulimia, droghe, alcolismo, devianza, disturbi dell’apprendimento sono i cosiddetti sintomi muti in cui il soggetto torna a soddisfarsi con gli oggetti infantili senza passare per l’Altro, evitando la parola e la domanda all’altro. É qui allora che viene richiesto a chi se ne occupa un lavoro di accoglienza, ascolto, sostegno, accompagnamento per aiutare il giovane nel suo difficile passaggio di acquisizione di autonomia dall’altro e di integrazione nel mondo. L’altro, dal quale non si può fuggire, con cui è necessario interagire apprendendo le parole per dire, per domandare e per esprimere emozioni, sofferenze, difficoltà, opposizioni; uscendo dal proprio autismo e imparando a comunicare. Tutto ciò però richiede un altro attorno, dalla famiglia, alla scuola, al curante, agli amici, al sociale all’altezza della situazione, disponibile a giocare la difficile partita. Senza stigma, utilizzando la scienza ma senza troppe deleghe al suo sapere, chiamando il soggetto adolescente a dirne qualcosa dando fiducia al suo sapere esperienziale. Adagio quindi con la medicalizzazione. Basaglia aveva affermato “mettiamo tra parentesi la malattia” senza per questo misconoscerla. Sappiamo anche come lo sguardo e le parole della psichiatria abbiamo in passato confinato i “folli” nella categoria dei pericolosi e degli inguaribili e sappiamo come questo pensiero sia ancora germinante oltre che nel Codice Penale tra tanti professionisti della salute e tra buona parte della popolazione. Professionisti, vittime di una formazione/deformazione professionale e di una carenza di formazione alla relazione che li porta spesso a un utilizzo deformato della tecnica e della scienza che li tiene lontani dal soggetto. In passato si sono costruiti i manicomi e gli OPG. I primi sono stati chiusi, i secondi sono ancora presenti e non si intende eliminarli del tutto, appunto perché si ritiene il folle pericoloso da cui ci si deve difendere, e si continua a contenere negli SPDC come nelle RSA. I muri possono essere buttati giù ma quelli più difficili da infrangere sono quelli del senso comune, della paura del diverso e delle sue richieste disturbanti, della cultura del sospetto, del rifiuto all’ascolto e al confronto, dell’indifferenza, nelle menti delle persone “normali”.
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