L'esperienza di Ronald Laing e Aaron Esterson
Di David Shariatmadari "Sente il bisogno di essere d'accordo con quel che crede la maggior parte delle persone intorno a lei? " " Beh, se non lo facessi andrei a finire in ospedale. " Siamo a Londra, alla fine degli anni Cinquanta. Una donna, Ruth, si trova di fronte un medico scozzese, nel suo studio. Sulla scrivania gira lentamente il nastro di un registratore. La donna parla con aria di pacata sconfitta, avendo già avuto la brutta notizia, la diagnosi. È stata sempre la stessa, per molto tempo: schizofrenia. Per lei ospedale significa un regime di neurolettici, farmaci psicotropi, tranquillanti, forse significa anche andare ripetutamente in un coma indotto da insulina. Il dottore, per quanto empatizzi, non offre nessuna cura. Sta semplicemente conducendo una ricerca. Sebbene sia psichiatra non crede al modello medico della malattia mentale: capisce che la schizofrenia non è come il diabete o il cancro. Si tratta di una categoria diagnostica abbastanza recente, e capita spesso che gli psichiatri non siano d'accordo nel definire quale dei loro pazienti potrebbe essere schizofrenico. Non esiste infatti un test di laboratorio in grado di determinare chi è affetto dalla malattia e chi no. La maggior parte dei medici considera la schizofrenia come un funzionamento distorto della personalità, una cosa senza né capo né coda. Questo psichiatra, il dottor Ronald David Laing, pensa invece di poter capire anche le pazzie più stravaganti, e considera che siano leggibili. Ritiene che una diagnosi di schizofrenia vada vista come un fenomeno sociale piuttosto che medico. “La normalità, la follia e la famiglia”, riferisce undici interviste con schizofrenici e con i loro familiari, ed è un tentativo da parte sua e del suo collega Aaron Esterson di mostrare senza ombra di dubbio la comprensibilità della schizofrenia. La maggior parte dell'apparato istituzionale contro il quale Laing e Esterson rivolgono i loro strali era ancora intatto quando i miei genitori si sono formati come psichiatri un decennio più tardi. È durato fino agli anni Ottanta, quando mio padre mi portava all’ospedale psichiatrico vittoriano, dove ha lavorato restando seduto nel suo ufficio e facendosi assillare dalle infermiere. Dalla finestra vedevo nel cortile la cappella – usata per solo i funerali, mai per battesimi o matrimoni. Per molti, il cerchio della vita si concludeva qui. A quel tempo però si cominciarono a chiudere gli ospedali di lunga degenza, e i pazienti, spaventati, si chiedevano come diavolo avrebbero potuto vivere senza l'abbraccio soffocante in cui erano stati tenuti per venti, trenta a volte quarant’anni. Erano poi entrati in scena gli psicologi, dando modo agli infermieri di mettere in discussione figure professionali fino ad allora considerate inattaccabili . Incurante di questi cambiamenti, volevo semplicemente sapere perché la gente impazziva. Perché vedeva cose che non esistono, perché sentiva voci che non ci sono, perché pensava di essere Dio. Tutto questo aveva quasi un'aria soprannaturale, come se i pazienti che avevo intravisto nella sala comune, con lo sguardo perso nel vuoto, fissando il nulla mentre passava il carrello del tè, fossero posseduti, o fantasmi loro stessi. Nessuno mi poteva dare una risposta soddisfacente. Così, quando ho trovato “L’io diviso” di Laing, non negli scaffali dei miei genitori, ma in quelli della mia prima padrona di casa a Londra, mi sono accorto che non riuscivo più a metterlo giù. Qui c’era qualcuno che stava spiegando la follia, che stava mostrando come la frammentazione della persona fosse una risposta comprensibile a una pressione intollerabile, il più delle volte la pressione del famigerato doppio legame. I meccanismi del doppio legame sono meglio esplicitati da esempi tratti dal mondo reale, di cui “La normalità, la follia e la famiglia” costituisce un compendio. Prende la filosofia de “L’io diviso” e la rende concreta. Per alcuni mesi Laing e Esterson hanno intervistato uno per uno gli undici pazienti, i loro genitori e i loro fratelli, sia presi individualmente, sia a coppie, sia come gruppi. Il loro obiettivo era di avere un chiaro quadro del funzionamento della famiglia, e di scoprire se la follia del soggetto avesse un senso in quel contesto. Leggere le trascrizioni è stato per me come avere accesso ad appunti di casi rinchiusi negli archivi ospedalieri. Era una sorta di voyeurismo, ma disperatamente triste. C'era Maya, i cui genitori interpretavano ogni espressione d’autonomia come "non essere se stessa" e quindi come parte della sua malattia. Ogni pensiero o azione indipendenti erano etichettati come "essere difficile". Nel corso delle interviste si scopre che i genitori di Maya credono che lei abbia un sesto senso e sia in grado di leggere i loro pensieri. Furtivamente cercano di verificare questa teoria, scambiandosi ammiccamenti e sorrisi d’intesa. Interrogati da Maya negano di aver fatto tali gesti. Si tratta di una "mistificazione": le dicono che quel che ha percepito non si è affatto verificato. Viene abituata a "diffidare la propria sfiducia", e questo cosa altro è se non un invito alla paranoia? "Non siamo stati in grado di trovare uno spazio nella personalità di Maya che non fosse stato negato in molti modi", affermano gli autori. Il modello di mistificazione, invalidazione e doppio legame si ripete con Lucie, Claire, Sarah, Ruth e tutti gli altri, ognuno dei quali viene ripreso come se nulla di ciò che può dire o fare sia giusto. Laing è diventato il famigerato psichiatra che ha dato la colpa della schizofrenia alle famiglie. Ma chi lo rifiuta su questo presupposti deve chiedersi se possa mai essere fatto un qualsiasi tentativo di comprendere lo stato mentale di una persona senza riferirsi alle relazioni più intime. La più recente ricerca sui correlati neurologici della schizofrenia non contrasta con la tesi di Laing che questa diagnosi, ancora inaffidabile, possa essere meglio compresa prendendo in considerazione il contesto sociale. Le sue idee inoltre non escludono la possibilità di una predisposizione innata alla psicosi. Come accade per molti pensatori il cui lavoro è oggi un po’ trattato con sdegno, diversi aspetti del suo approccio sono stati tuttavia assorbiti nella corrente di riflessione principale. La psichiatria viene oggi praticata in modo più umano che non trenta o quarant’anni fa. Il modello medico, anche se sostenuto a fini di lucro dall’industria sanitaria, che incentiva le diagnosi troppo nette e il trattamento farmacologico, non dice più l'ultima parola. Ho anche imparato che, per quanto disperati potessero essere, non c'era nulla di inquietante nei pazienti ricoverati all'ospedale di mio padre. Non erano maledetti, o posseduti, come mi avevano fatto credere la mia fantasia infantile, e come aveva sostenuto la società per centinaia di anni. Il lavoro di Laing sulla follia vista in contesto può essere considerato come l'ultimo chiodo nella bara per la visione demoniaca della malattia mentale. Ma dovrebbe servire anche da monito costante per quanti sono tentati dall'idea, altrettanto ingenua, di sostenere che la follia è solo un capriccio della doppia elica. Fonte: The Guardian , Domenica 25 Agosto 2013
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