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Di cosa si parla

A denti stretti. Il reality show dello stato islamico

26/5/2015

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Picture

di Mauro Panzeri

“Non devi guardare quel che non vuoi vedere”.
Dal film Timbuktu di Abderrahmane Sissako


Si fa un gran parlare della comunicazione efficace e tecnologica dell’Isis. Ma è poco più di un chiacchiericcio superficiale. In realtà chi si sta occupando con attenzione di monitorarne contenuti ed effetti sono, come spesso accade, gruppi indipendenti legati a centri di ricerca o università che non è difficile reperire in rete (1). In Italia se ne occupano news e talk show di prima serata che ne fanno spettacolo indecente, moltiplicatore di paure, poi ben cavalcato da quelle forze politiche di destra che attaccano con facili argomenti le difficoltà del governo italiano nell’accogliere le ondate migratorie prodotte dalle guerre, supponendo che da lì arrivino, nascosti tra richiedenti asilo, perseguitati politici e semplici civili in fuga, combattenti embedded del jihadismo islamico. (2)  

Le reti televisive, che sono i primi collettori dei materiali informativi, hanno a disposizione (e gratuitamente, in anteprima) tutto quanto è stato messo in internet ma non lo utilizzano in modo corretto e totale (presentazione, contestualizzazione e discussione) e se lo fanno, lo manipolano “per opportunità”. Tutti in Italia hanno visto nei telegiornali della sera, proprio quando si è a tavola, i tagliagole che brandiscono il coltello e si rivolgono a noi direttamente con fare minaccioso in perfetto inglese accanto alle loro vittime in tuta arancione. Poi ecco un’ellissi, e l’atto omicida viene epurato. Perché le reti televisive riusano e rimontano ciò che hanno raccolto?


È giusto, è efficace? Oppure questo atteggiamento alimenta, di fatto, il falso pudore voyeristico di chi vuole assolutamente vedere? Quanti se ne sono andati in rete a cercarsi l’originale full HD? Credo, senz’ombra di dubbio, in tanti. Ma in quel modo epurato la notizia televisiva è comunque stata data e la coscienza ripulita; il titolo di testa sempre lo stesso: “nuovo efferato video dell’Isis” e a seguire le banalità che conosciamo, quando l’immagine eccede la parola. Lo share però credo funzioni; il resto è responsabilità negata. Un comunicato Rai recente dice della volontà di censurare completamente (non trasmettere) i video provenienti dall’Isis. Motivo: non si vuole far loro alcuna pubblicità. L’informazione su questi spettacoli della morte non è mai stata comunque di grande interesse e spesso è datata. Motivo evidente è la totale sudditanza dei nostri media mainstream nei confronti della distribuzione di questi materiali che provengono direttamente da una fonte virale che come la rete. Non c'è infatti modo di essere presenti sul territorio e documentare con i propri inviati, testimoniare dall’interno. Nessun reporter occidentale vi mette volentieri piede in quel terreno, il rischio è mortale (3). Chi l’ha fatto è stato fatto prigioniero o è passato (davvero?) dall’altra parte o sarà (forse) scambiato, oppure ucciso. Questo punto è fondamentale e dimostra un’altra cosa: conferma l’autarchia produttiva di questa propaganda.

Da tempo noi assistiamo ormai al triste spettacolo di immagini e servizi riciclati (in attesa di nuovo materiale), decontestualizzati, usati come sfondo a talk show dove esperti e massmediologi ci devono convincere che esiste uno spiegamento di forze tecnologiche ed editoriali (il nome ricorrente dell’emittente ISIS è Al-Hayat Media Center) che produce materiali video e stampati di alta qualità (“patinati”, così vengono chiamati), per la propaganda e l’informazione del sedicente Stato di cui sopra.

In queste analisi banali è evidente un pregiudizio che vuole l’arabo (e il Medio Oriente tutto, ma si va fino al Maghreb e dove si vuole, secondo necessità) popolo e luogo culturalmente povero, fatto di tribù di pastori ignoranti, di subdoli mercanti, di ladroni e criminali; ovviamente, tra loro, i tagliagole. Che questi ultimi ci siano davvero, non vi sono dubbi; come i pastori, gli avvocati e le vittime civili. Mi permetto di dirlo: le teste mozzate non sono un’immagine nuova, direi anzi antica. Provate a pensarci. È solo il mezzo che cambia e un video d’effetto è più “carico” di una vecchia foto in bianco e nero. E poi c’è di mezzo la lingua araba (in Italia si dice ancora “parlare arabo” per dire che non ci si capisce niente): già planare su un sito internet scritto in caratteri arabi fa strano, crea quell’effetto che le scritture non comunemente leggibili producono. E così fa ancor più specie che usino internet, la rete della civiltà occidentale e del progresso a oltranza. Da qui la favola nera. In realtà l’uso di tecnologie crossmediali adottata dall’Isis si basa su una regola semplice: pubblicare e far rimbalzare, arrivando così, attraverso lo sciame indotto dal mezzo, a un pubblico esteso. Non usano subdolamente nulla, nel senso di un inserimento pirata: tutto avviene alla luce del sole e tutti possono vedere. I bambini ad esempio lo possono fare, e facilmente. E se questa difesa morale era nelle intenzioni del comunicato di cui sopra, siamo alle solite: l’importante è che non lo faccia chi deve informare.
Si dà anche per scontato che queste pubblicazioni dirette servano a un preciso scopo: propaganda e reclutamento. È provato che quest’ultimo avviene in tutt’altro modo, attraverso rapporti diretti e molto personali. La propaganda semmai è per chi è emotivamente coinvolto sul terreno (con lo scopo dichiarato di evidenziare potenza militare e aree conquistate, mostrando la capacità amministrativa dell’invasore) e si rivolge a tutti coloro che ne sono potenzialmente affascinati e vi trovano conferma, oltre ai collezionisti di visioni snuff (non vedo altri all’orizzonte).

Recentemente alcuni tecnici specializzati statunitensi della rete televisiva Fox (4) hanno analizzato l’efferato video della decapitazione in Libia di ventun ostaggi e hanno poi raccontato gli esiti della loro indagine. Oltre a trucchi software d’ogni genere (moltiplicazione digitale dei soggetti; uso del bluescreen e falsi fondali, troppo a fuoco; video in time-lapse, accellerazione da cartoon che impedisce di vedere e di capire; evidenti sproporzioni tra i soggetti dovute a un uso impreciso delle tecniche “roto”; non ultima, probabile anilina rossa nel mare a simulare il sangue), quel che si evince dall’analisi è un dato molto semplice: i linguaggi e gli effetti utilizzati, al di là dei consueti ed efferati contenuti, sono in comune dotazione a chi studi o pratichi video, motion graphics o altre tecniche mediali. Sono semplicemente software in uso; e, spesso utilizzati ingenuamente, facili da riconoscere e decostruire. Anche se è vero che: “un fake – possibile e probabile per alcuni di questi messaggi in termini tecnici – non influisce necessariamente sull’efficacia del comunicato nei confronti dei destinatari se la firma del califfato è confermata, ma esso rientra nella complessa strategia mediale di questo jihad mediatico.” (5)

Fotografare e mostrare il corpo umano offeso e senza vita è da tempo un tema di dibattito critico: dai reportage partigiani di Robert Capa alle scioccanti foto dei campi di concentramento (scattate da tutti, vincitori e vinti), sino ad oggi. Il gigantesco volume fotografico Inferno di James Nacthwey è stato oggetto di una critica feroce. War Porn, un recente volume del fotoreporter Christoph Bangert rimette il dito nella piaga, senza pietà. C’è un diritto-dovere a mostrare l’orrore di una morte violenta senza contesto o motivo apparente? (6)

Talvolta descrivere un’immagine è meglio che vederla. Ecco allora Dabiq (7), il magazine dell’Isis oggi al settimo numero, quella pubblicazione “patinata” sempre evocata dai media mainstream (ma mai mostrata) caricata periodicamente in rete in formato pdf in più lingue. Il primo numero, quello che ha mostrato al mondo le immagini narrative dell’Isis, è il più significativo. Poi gli argomenti, nei numeri successivi, si ripetono e prevale, di numero in numero, la componente testuale, quasi vi sia una necessità di dire piuttosto che mostrare. Quindi descriverò quella prima uscita, perché è provato che nel primo numero si avverte un tentativo più “sincero” e si intuiscono gli errori ma anche l’idea che ne sta alla base, quel che avrebbe voluto essere (e non è poi stato). Questo numero uno di Dabiq ha alcune immagini che ne fanno la parte più ideologica e la sua ossatura vera sono racconti per immagini. È un prodotto editoriale quasi “senza tempo” che dice semplicemente “eccoci”. Tutti i numeri sono comunque infarciti di istantanee di eroi e vittime che ai più risultano sconosciuti. L’estetica dell’eroe e del martire ha, per inciso, una lunga storia. L’esibizione di ritratti di caduti civili (vittime inermi) o di caduti volontari per la causa (sino ai giovanissimi-bomba, per esempio) è un leitmotif della visione cerimoniale della morte a cui ci siamo ahimè abituati. Madri fotografate che mostrano le foto dei loro figli. Dabiq pubblica molte di queste immagini, raccolte con i cellulari. In particolare abbondano foto di cadaveri di bambini mostruosamente violati dalle esplosioni, altre di miliziani caduti in battaglia. A cosa servano queste immagini se non a caricare di orrore e rabbia chi le guarda, è evidente. Nessuno piange i morti degli altri. Ma le immagini “ideologiche” sono altre: ad esempio la silhouette del cavaliere solitario sulla rocca che si staglia al centro di un tramonto infocato, stile Marlboro Country. Oppure un’altra di un gregge di pecore al pascolo: perfetta per materiali di propaganda anche di altre sette, ad esempio i pacifici (ma pur sempre fondamentalisti) Testimoni di Geova. Tra cadaveri, combattimenti e ingressi trionfali compare anche l’immagine di un esercito visto dall’alto che ricorda le orde compatte del Signore degli anelli. In queste immagini-spettacolo il debito è ancora più grande: se per i video l’estetica superficiale di un cinema mainstream con banali effetti speciali va a prevalere, nel magazine si blocca nell’infinito istante fotografico e rende evidente come non sia possibile uscire da un immaginario globale unificato, messo in funzione per questa battaglia iconica a distanza.

Ed è già domani: ciak, si gira! Deserto. Sole a picco. Un rapper londinese mascherato da uomo nero parla alla camera. Nel sottopancia scorre la traduzione in arabo. In alto a sinistra il marchio. Siamo in tv, signori! Un manipolo di fanatici, come ninja che sembrano provenire dal Giappone feudale, si appresta al rito. Nel video dedicato all’orribile morte del pilota giordano “ […] l’importante lavoro grafico crea uno sganciamento dalla realtà, ci trasporta in codici che tipicamente associamo alla cinematografia, al ‘verosimile’ e non al ‘vero’. Ci distaccano dalla compassione e dall’orrore istintivo per quel che sta toccando in sorte al giovane pilota giordano. [...] Eppure le sue grida sono tenute a volume basso, vengono quasi coperte. In questo punto esatto si ha l’idea che qualcuno abbia deciso qual è il livello accettabile dell’orrore.” (8)

Da una parte (questa, dove mi leggete), ci siamo noi: siamo quelli che difficilmente confondono spettacolo e realtà. Oscilliamo sempre, è vero, tra l'uno e l'altra ma qui sta il gioco e in questo proviamo godimento. Imitiamo ma non ci immedesimiamo. Così funzionano i reality, le docu-fiction, i mockumentary ma anche i video-giochi di guerra: un’intromissione nel reale, però addomesticata (9). Ed ecco che l’Isis ne approfitta ancora: immette online un rifacimento made in Isis di Grand Theft Auto, video gioco per Playstation nato nel 1977 che oggi vede impegnati milioni di giocatori; un gioco per ragazzi, che fanno i ladri d'auto inseguiti dalla polizia. Si chiama con lo stesso nome ma aggiunge il sottotitolo Salil al-Sawarim (che significa rumore di spade) dove i ninja mascherati e neri combattono gli apostati infedeli (10) .

Ed eccoci al punto. A che gioco ci vien proposto di giocare, quando i materiali video compaiono in rete? Vogliono forse confondere i piani? Dovremmo cascarci senza sapere di esserne intrappolati? Quale immagine dell'Isis si sovrappone al reale e al dato geopolitico? (11) Come in uno specchio, potrebbe essere la nostra, questa è la semplice risposta: usano le nostre immagini e il nostro modo di produzione. Ma, ingenuamente, si immaginano che noi non si sappia distinguere. Invece siamo in grado di stemperare l'orrore. Perché un gioco orribile come questo lo possiamo controllare. Se non porta quel godimento che conosciamo, lo spettacolo ci viene a noia e lo abbandoniamo; se è efferato, di fatto, lo disinneschiamo.

Una cultura che esprime solo immagini di potenza e morte ha il destino segnato. Definiamola pure una trappola comunicativa. Ai lettori la ricerca e la fatica psicologica di un confronto con le immagini aberranti di questo fascismo di nuova specie. Le immagini però scivolano via, come per eccesso; io ad esempio non le ho chiuse in un cassetto e non le colleziono. Con Žižek potremmo dire ‘dalla tragedia alla farsa’, ma a denti stretti.

Note

(1) Vedi ad esempio: http://www.clarionproject.org/

(2) Molto interessante è invece la recente e dettagliata pubblicazione ISPI (Istituto per gli studi di politica internazionale): Twitter e jihad: la comunicazione dell’Isis, a cura di Monica Maggioni e Paolo Magri, scaricabile in formato pdf: http://www.ispionline.it/articoli/articolo/sicurezza-mediterraneo-medio-oriente-italia/twitter-e-jihad-la-comunicazione-dellisis-12852

(3) È il caso del giornalista tedesco Jürgen Todenhöfer che fa eccezione con un’intervista a un connazionale foreign fighter effettuata nella Mosul occupata dall'Isis, visibile sul sito Facebook del giornalista (e replicata anche in altri siti) all'indirizzo: https://www.facebook.com/video.php?v=10152723644955838

(4) http://www.foxnews.com/world/2015/02/21/isis-army-7-footers-experts-say-video-copt-beheadings-manipulated/

(5) In ISPI, op. cit., p. 107

(6) James Nacthwey, Inferno, Phaidon, 1991; Christoph Bangert, War Porn, Kehrer Verlag, 2014. Per un approfondimento sull’immagine della violenza si consiglia la lettura di: Susie Linfield, The Cruel Radiance. Photography and Political Violence, The University of Chicago, 2012. http://press.uchicago.edu/ucp/books/book/chicago/C/bo5929941.html); trad. italiana: Una luce crudele. Fotografia e violenza politica, Contrasto, 2013.

(7) http://www.understandingwar.org/backgrounder/dabiq-strategic-messaging-islamic-state

(8) In ISPI, op. cit., p. 86

(9) Per verificare il tema è utile la lettura dei testi in controtendenza di Sherry Turkle, dedicati alle patologie da utilizzo intensivo delle interfacce di simulazione. A partire dal suo primo: Sherry Turkle, The Second Self: Computers and the Human Spirit, New York: Simon & Schuster, 1984; al più recente Alone Together, Basic Books, 2011; trad. italiana: Insieme ma soli, Codice Edizioni, 2013.

(10) Per il trailer del gioco vedi: http://www.itstime.it/w/grand-theft-auto-salil-al-sawarim-gamification-secondo-is-by-marco-lombardi/

(11) Per verificare lo stato reale del conflitto in atto con efficace infografica, il NYT fornisce un aggiornamento constante: http://www.nytimes.com/interactive/2014/06/12/world/middleeast/the-iraq-isis-conflict-in-maps-photos-and-video.html?_r=0

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