Lacan, nel seminario XVII si riferisce alla società attuale come a quella che ha perso il senso della vergogna. Qual era allora la società della vergogna prima che se ne smarrisse il senso? Quali sono i presupposti per cui una società possa sostenere la funzione della vergogna? E soprattutto: da dove viene il senso della vergogna? Partiamo da quest’ultima domanda, per la quale la tradizione ci dà una risposta. Nel Protagora Platone parla del mito della creazione dei mortali: gli dei producono un amalgama di terra e di fuoco da cui hanno origine tutti gli esseri viventi, e affidano a Prometeo ed Epimeteo il compito di distribuire le facoltà. Epimeteo, chiede di potersene occupare lui, e comincia così ad assegnare la facoltà naturali, cercando di stabilire un certo equilibrio. Ad alcuni esseri dà artigli per aggredire, ad altri corazze per difendersi, ad altri ancora la velocità per poter sfuggire gli assalti, o la capacità di moltiplicarsi in modo innumerevole, perché la specie possa continuare anche se molti soccombono ai predatori. Arrivato all’uomo Epimeteo ha finito le facoltà, e Prometeo deve rimediare come sappiamo, andando a rubare il fuoco in cielo, in modo che l’uomo, che non ha artigli, non ha corazza, è lento, abbia però la ragione, ovvero la tecnica, che supera in potenza ogni facoltà naturale. Gli uomini tuttavia, pur con la potenza della tecnica, possono procacciarsi il cibo ma non difendersi dalle belve. Devono così riunirsi nelle città per salvarsi. Succede però che ogni volta che stanno insieme, non conoscendo ancora la politica gli uomini usino la propria forza gli uni contro gli altri per combattersi. Zeus allora deve intervenire, e convocato Ermes gli ordina di distribuire altri due doni agli uomini: Aidos e Dike, cioè vergogna e giustizia, perché facciano da fondamento all’ordine delle città e ai vincoli di amicizia. Domanda allora Ermes: “Devo distribuirle nello stesso modo in cui sono state assegnate le altre arti, ad alcuni la medicina, ad altri l’ingegneria, ad altri ancora diverse capacità artigiane?” “No – risponde Zeus – queste devi distribuirle a tutti, e tutti devono esserne partecipi, e istituisci una legge per cui venga ucciso chi non ne partecipa, perché senza queste virtù non può esserci città”. Vergogna, insieme a Giustizia, è una delle due colonne senza le quali la comunità umana non si sostiene. Il monito di Lacan che ci avverte di come entriamo in un’epoca dove è smarrito il senso della vergogna non va quindi sottovalutato, perché è la diagnosi di una società sull’orlo della disgregazione.
La risposta alla prima domanda, quindi (“Qual era la società della vergogna?”) è che la vergogna è condizione di qualsiasi legame comunitario, perché c’è qualcosa che deve restare occultato del cuore di ogni esistenza, e che non può apparire senza avere effetti di distruzione. Non credo abbiamo bisogno di altre prove di questo fatto dopo i numerosi suicidi dovuti all’impossibilità di sopportare il senso di vergogna nato dall’ostentazione, nella gogna mediatica dei social, di comportamenti filmati in momenti rubati, che violavano l’intimità e che scatenavano un’onda di derisione mediatica insostenibile per il soggetto preso di mira. I suicidi di Carolina Picchio e di Tiziana Cantone sono due tra gli gli esempi più eloquenti. Delle loro storie ho ampiamente parlato in un altro testo: Il cyberbullismo e i suoi pozzi d’odio. Questi episodi sono esempi di una situazione in cui il senso della vergogna tiene in alcuni individui, di fronte a una moltitudine che lo ha perduto. Vediamo quindi la saggezza della risposta che Platone mette in bocca a Zeus nel Protagora: se la vergogna non è equamente distribuita tra gli uomini si crea un disequilibrio dove quelli senza vergogna possono schiacciare quelli che invece hanno conservato un senso del pudore. Cosa altro possiamo dire infatti dei persecutori anonimi, che senza il minimo imbarazzo, e mantenendo l’anonimato dietro la tastiera, coprono di insulti persone che spesso neppure conoscono. Notiamo qui naturalmente che l’assenza di vergogna è unita in modo essenziale alla possibilità dell’anonimato, che permette di sottrarsi allo sguardo della collettività. Abbiamo visto casi infatti in cui persone che, per esempio, avendo lanciato insulti lancinanti verso figure pubbliche, una volta portate allo scoperto si sono sentite in dovere di profondersi in scuse, soccombendo appunto al senso di vergogna. L’anonimato immunizza, rende insensibili alla vergogna. Una società che ha perso il senso della vergogna, per riprendere il tema di Lacan, è una società che scivola verso nell’anonimato, verso un conformismo omogeneizzante, verso il mimetismo nella massa. Veniamo allora alla seconda domanda: quali sono i presupposti perché una società possa sostenersi sul senso della vergogna? È più facile vederlo se prendiamo la questione da lato opposto, dal lato dell’onore, sentimento oggi un po’ desueto, ma che Jacques-Alain Miller tratta estesamente nella sua Note sul l’honte, presente nel corso del 2001-2002 Le dèsenchentement de la psychanalyse, dove riprende e commenta le affermazioni di Lacan. Miller si riferisce al senso dell’onore come a quel sentimento senza il quale la vita non ha più valore. L’onore, come sappiamo, è in particolare un valore nella vita militare. È memorabile il racconto di Joseph Conrad I duellanti, dove Armand D’Hubert e Gabriel Féraud, due ufficiali di pari grado nell’epoca napoleonica, si inseguono in un duello a più riprese e interminabile, a cui non è possibile sottrarsi senza perdere l’onore. La vita e l’onore vanno insieme: solo quando hai in mano la vita dell’altro, e glie ne fai grazia, puoi uscire dalla sfida conservando l’onore. Oggi l’onore è un valore messo meno in evidenza nelle nostre società. Appartiene piuttosto alle comunità dell’aristocrazia, che sono comunità numericamente molto ridotte, che non hanno niente a che vedere con le attuali società di massa. Andare “in società” significava allora andare in un certo tipo di società. Era considerata società quella di un ristretto numero di persone, dove tutti conoscevano tutti, o personalmente o come nome di famiglia, e dove proprio per questo non si potevano trasgredire certe regole non scritte, perché tutti lo avrebbero saputo, perché sarebbe stato sotto gli occhi di tutti. Questo valeva, naturalmente, sia per l’onore nella sua declinazione maschile, sia nella sua declinazione femminile. Chi avrebbe potuto sposare al tempo, anche volendolo, una ragazza che tutti sapevano disonorata? Onore va dunque insieme a visibilità, a controllo reciproco, a vincoli e regole di vita che delimitano e determinato le possibilità di comportamento degli individui. Chiaramente nelle nostre società contemporanee, dove la privacy è diventata un problema politico di prima grandezza, e dopo lo scandalo di Cambridge Analityca capiamo bene quali serie implicazioni ci possono essere per la violazione della privacy. Le nostre non sono più società dove il comportamento di ciascuno è sotto gli occhi di tutti. L’individualismo va per questo insieme a una maggiore libertà, ma la libertà rischia di diventare spudorata, e di fare dell’individualismo il cavallo di Troia di una disgregazione progressiva, di un’indifferenza nei confronti dell’altro, di un disinteresse nei confronti del vicino, di colui che abita nel nostro stesso condominio ma con il quale non abbiamo nessun rapporto perché si è perso ogni vincolo di comunità. Assistiamo anche a movimenti di reazione a questa deriva, reazione che fa leva sul digitale per contrastare la dissociazione individualistica che il digitale rischia di accentuare. Ci sono per esempio le comunità di quartiere, che mettendo in contatto gli abitanti di una stessa zona cercano di riavviare una socialità che si possa trasferire dal virtuale al fattuale. Certo comunque il velo del segreto oggi cala non sull’intimo che può essere violato dallo sguardo dell’altro. La prospettiva è diversa. Che circa il 10% degli adolescenti ammetta di aver praticato il sexting è significativo in questo senso. Nella società della pornografia diffusa è chiaro che il senso del pudore subisce della variazioni rispetto a quando intravedere la caviglia di una donna provocava nell’uomo incontenibili brividi erotici. Il velo del segreto deve oggi invece stendersi sui nostri dati sensibili, quelli che permettono la nostra manipolazione, l’abuso finanziario, il condizionamento delle opinioni, il dirottamento elettorale, lo sfruttamento dei dati sanitari da parte delle compagnie assicurative. Questa è in genere la privacy che la legge tutela. La dignità non ha tuttavia subito lo stesso occultamento del concetto di onore, così legata a forme di vita e di nobiltà d’armi che non hanno riscontro nel mondo attuale. La dignità è qualcosa che può ancora venire violato. La povertà, per esempio, da molti può essere vissuta con vergogna anziché con dignità, perché i valori trasmessi puntano sul successo, su una riuscita sociale che si misura con il denaro. Se l’onore è il metro di misura della vergogna nel discorso del padrone, dove l’onore si può perdere venendo meno a un S1, a un ideale, la dignità è ciò di cui ci si può sentire spogliati quando non si hanno i mezzi, cioè non quando si è inadeguati a un ideale, ma rispetto alla possibilità di fornirsi della paccottiglia d’oggetti di cui il consumismo fa le proprie insegne. Trovo estremamente eloquente il fatto che alcuni marchi di scarpe da ginnastica producano modelli a tiratura limitata per avere i quali gruppi di ragazzini si accampano davanti ai negozi dalla notte precedente al lancio. Dopo brevissimo tempo siamo stupiti che questi modelli di scarpe si possono trovare rivenduti su internet a cifre astronomiche per una scarpa, e che tuttavia trovano acquirenti. La dignità veicolata dal logo, dal marchio più che dall’ideale, implica un diverso rapporto con la vergogna suscitata dal non possedere, cioè correlata a delle merci piuttosto che a un sistema di valori. Nel medioevo, in un epoca di società povere rispetto alle nostre attuali, nessuno si sarebbe vergognato della propria povertà, del fatto di non possedere lo stesso corsetto del signore del castello, perché c’era una dignità nella povertà, che era una condizione di nascita, non una prova di disvalore del proprio essere. Naturalmente, come ha ben messo in luce Max Weber, con l’etica protestante, dove la riuscita negli affari diventa prova della salvezza dopo la morte, le cose cambiano prospettiva, e inizia la marcia che conduce al consumismo contemporaneo. Possiamo forse vedere nel mondo contemporaneo uno scioglimento da svincolo della responsabilità, che già nell’etica protestante si comincia a intravedere. Nell’etica protestante è Dio che ha scelto i salvati e i dannati, e i risultati ottenuti nella vita sono solo la prova per evidenziare quel che Dio ha voluto. Sappiamo che Dio ci ama perché le cose girano bene, perché non siamo caduti in miseria. Ma nella misura in cui la scelta è nelle mani di Dio il filo della responsabilità comincia ad assottigliarsi. E si spezza nel mondo contemporaneo, quando iniziamo a vedere i professori picchiati dai genitori che non ammettono il giudizio della scuola sui loro figli. Il senso della vergogna può sussistere solo se si mantiene il legame con la responsabilità dei propri comportamenti. Una società in cui è morto il senso della vergogna è una società in cui si è spento anche il senso della responsabilità. Sappiamo bene come questo si rifletta nelle cure analitiche, dove diventa più difficile la rettifica soggettiva, perché l’idea che sia colpa dell’altro è ormai propalata nei talk show da una politica che gonfia l’ego e ha perso ogni legame con l’idea di educare, di porsi come esempio. La politica tuttavia, sappiamo, purtroppo è solo l’epifenomeno della vita civile, il suo riflesso, ed è un’impresa cercare dove stia il bandolo da cui prendere le cose. Una vignetta recente recitava: “Il nuovo ritrovato italiano: la matassa senza bandolo”. In forma umoristica questa è una sintesi di verità. Non c’è un bandolo da cui prendere le cose: la politica degradata, il sistema educativo decaduto, la corruzione dilagante, qualcuno o qualcosa a cui dare la colpa. Sappiamo bene, nell’esperienza della clinica psicoanalitica, che non c’è un bandolo da cui prendere le cose. C’è sempre solo una matassa dentro la quale entrare per districare filo da filo. Ma la sola condizione per cui questo si possa fare è che il soggetto si metta in posizione responsabile, che sopporti di seguire il filo del fantasma come la cosa più intima di cui si vergogna, che dipani il sapere inconscio fino ad arrivare al torsolo di quella mela che Adamo ed Eva hanno morso per potersi vedere nudi e vergognarsene. L’altra genesi della vergogna che ci consegna la nostra tradizione, accanto al mito narrato nel Protagora, è infatti nel Genesi. Se nel mito greco Aidos deve essere distribuito a tutti perché ciascuno abbia un senso del limite, nel racconto biblico è solo a partire da una violazione del limite che si manifesta il pudore, quando entra in gioco una volontà di sapere nella quale ha origine la tecnica non come dono di un Titano, ma come stupro di una natura destinata a essere dominata. Recitano infatti nella Storia giudaica, le parole di Dio rivolte ad Adamo: “Io ti faccio padrone degli animali della terra, degli uccelli dell’aria, dei pesci del mare, dell’erbe e delle frutta degli alberi”(1). La vergogna nasce qui da un discorso del padrone che viola il sapere. Noi siamo eredi di entrambi questi filoni della tradizione: quello che vede la vergogna come freno e quello che vede la vergogna sgorgare dalla forzatura, una serena gestione dell’invisibile da una parte, e una sua drammatica violazione dall’altra, e forse ci è difficile per questo ritrovare la soglia di un pudore senza la quale l’umano è destinato a sprofondare nella propria irredimibile negazione.
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