di Marco Focchi Sintesi degli argomenti presentati alla tavola rotonda tenutasi a Novara il 3 febbraio 2017 dal titolo: Solitudini digitali, organizzata dall'associazione Benvenuti in Italia Internet è diventato oggi decisivo per ogni settore della nostra vita, e questo investe evidentemente anche la psicoanalisi. Il rapporto tra psicoanalisi e Internet è indubbiamente diventato importante, e può essere considerato a partire dal punto di vista di quel che la psicoanalisi può dire sull'oggetto tecnico. Sembrerebbe esserci una spaccatura tra la prospettiva psicoanalitica, che nelle sue operazioni utilizza fondamentalmente la parola, e l'oggetto tecnico, che fa parte di una cultura diversa, di tipo, ingegneristico, che in un certo senso è opposta, antitetica a quel che consideriamo come l’elemento soggettivo, o semplicemente come il fattore umano. Oggetto artistico e oggetto tecnico Mentre l'oggetto artistico ha da sempre un capitolo dedicato nella nostra riflessione, perché implica il gesto creativo, l’invenzione, perché porta l’impronta di chi l’ha realizzato permettendo a tutti noi di rispecchiarci in esso, l’oggetto tecnico sembra incarnare l'antitesi della soggettività, un puro automatismo, presentifica l'icona dell'alienazione più estrema dell’umano. Il robot, che per l’uomo è come un doppio senza interiorità, progettato per aiutare, come una sorta di Golem tecnologico diventa minaccia incontrollabile e immagine di un’alterità atta a interpretare il ruolo di Autre mechant, l’Altro malvagio, fomite dei pensieri scuri della paranoia. Percorriamo l'immaginario moderno: il robot ginoide di Metropolis si anima prendendo le fattezze della dolce e buona Marie nella scena della trasformazione, che è, credo, una delle scene più famose della storia del cinema. Il robot ginoide creato dal dottor Rotwang assume l'interiorità di Marie ̶ e ce ne accorgiamo nel momento in cui tra i cerchi di luce che avvolgono il corpo del robot comincia a battere un cuore luminoso ̶ diventandone il doppio malvagio. O ancora, in 2001 Odissea nello spazio, Hal 9000, il computer di bordo, rifiuta di aprire il portellone della nave spaziale a Dave, l’astronauta in missione verso Giove, perché teme di essere disconnesso. Anche qui vediamo la macchina che, manifestando una propria interiorità, si rivolta contro l’uomo, proprio creatore, nel momento stesso in cui si sottrae al ruolo di mero strumento. Lo strumento: dalla scoperta alla presa d’anima
Il film di Kubrik disegna, con un solo tratto, la linea che dalle origini dell’umanità, al tempo della scoperta dello strumento ̶ la scena dello scimmione che si rende conto che l’osso può essere un’arma ̶ va fino alla presa d’anima dello strumento, con la rivolta di Hal 9000. Questo quadro riassume i termini del dibattito sulla macchina: essa è strumento della volontà di potenza, e sta inerte nella mano dell’uomo che la impugna come prolungamento del proprio gesto, o è proiezione della propria interiorità in un altro che può espropriarla rendendo l’uomo strumento al suo servizio. Questo aspetto dà forma al dibattito degli Anni ’80, in un momento in cui il computer, che ancora non è connesso in rete, diventa per il soggetto un prolungamento di sé - non un alter ego, ma un prolungamento dell’ego, un’estensione di sé. In questo ambito il dibattito sulle macchine riguarda il tema dell’intelligenza artificiale, ed è un dibattito essenzialista: il problema intorno a cui ci si interroga è se l’intelligenza del computer possa dirsi intelligenza a tutti gli effetti, se sia cioè paragonabile a quella umana. Un nuovo modo di amare e di desiderare? Con i nuovi prodotti tecnologici, il dibattito si è spostato. A partire da quelli che Sherry Turkle chiama “Artefatti relazionali”, non ci interroghiamo più sull’essenza dell’intelligenza del computer, ma sull’impatto emotivo che possono avere su di noi. Esistono compagni artificiali in grado di mimare espressioni emotive, di creare contatto oculare, di fare un gesto che si rivolge a noi. Sono robot creati dalla Hasbro, come “My real baby” o “Companion cat”, oggetti da compagnia per bambini o per anziani, con funzioni di accudimento, in grado di suscitare reazioni emotive. La domanda per Sherry Turkle, psicoanalista che si è particolarmente occupata del problema, non è più allora sull’intelligenza, ma sulle emozioni, e non riguarda più l’oggetto, cioè la macchina, ma noi, e il quesito è: come si può trasformarsi il nostro modo di reagire emotivamente, di amare, di desiderare, quando ci troviamo di fronte a partner artificiali che si rivolgono a noi? Sappiamo che l’interazione dei bambini, durante la prima infanzia, con le persone che si prendono cura di loro si ripete poi con i partner nell’età adulta. Come funziona questo passaggio di consegne dal mondo infantile a quello adulto quando le prime relazioni sono modellate nell’interazione con artefatti relazionali, cioè con oggetti che eludono ogni ambivalenza? Proprio per via di questo accantonamento dell’ambivalenza la Turkle ha osservato come spesso i bambini si trovassero più a proprio agio con i robot che con i giocattoli tradizionali, su cui a volte si scarica la loro aggressività. L’orsacchiotto tradizionale è infatti un recettore passivo su cui il bambino proietta le proprie emozioni, e che per questo diventa un polo di sentimenti ambivalenti, caricandosi dell’ambivalenza stessa del bambino. Gli artefatti relazionali sono poli emotivi attivi, che producono emozioni, non sono semplicemente terminali delle proiezioni, e i bambini spesso li identificano come viventi, allo stesso modo dell’animale di casa. La pericolosa scissione dell’ambivalenza Sciogliere l’ambivalenza dei sentimenti è però un’operazione estremamente pericolosa. La prima domanda che sorge infatti è: dove va l’odio, per questi bambini che sono sollecitati, nel rapporto con i loro partner giocattolo, soltanto sulla corda del sentimento positivo? È un problema da studiare, su cui potremo avere dati quando i bambini saranno cresciuti. Spostiamo però di poco il nostro angolo visuale e proviamo a studiare la scissione dell’ambivalenza in una altro contesto. Consideriamo la posizione dominante che ha acquisito man mano il linguaggio politically correct negli Stati Uniti. Il politically correct depura il linguaggio da ogni forma di discriminazione, razzista, sessista, omofoba, e così via. Fa parte ormai dell’ambiente naturale in cui si verificano le comunicazioni pubbliche, o nel giornalismo e nelle televisioni. Uno scrittore come Johnatan Safran Foer nel suo ultimo romanzo, dove deve scrivere la parola negro nella forma in cui in inglese risulta un insulto inaccettabile, può mettere solo la lettera iniziale, n. E non è un libro casto: termini forti e osceni si susseguono in tutto il testo, ma n. è una parola d’odio, e non può essere scritta per intero, neanche in un contesto finzionale. Ebbene cosa ci dà, dopo un certo limite, il prevalere di questo filtro nel linguaggio che lo bonifica da qualsiasi espressione negativa o che possa suonare come insulto o umiliazione? Ci dà Donald Trump, ovvero lo sdoganamento della scurrilità più vieta, il campione del politicamente scorretto, il fluviale vaniloquio del razzismo, del sessismo, del narcisismo più volgare. L’odio accantonato per anni dall’operazione cosmetica del politically correct trova modo di abbattersi come un’inarrestabile mareggiata nel momento in cui trova un suo rappresentante che gli dà voce ed espressione. Per un aspetto Internet svolge la stessa funzione di Donald Trump. Lo aveva già osservato Umberto Eco in uno dei suoi ultimi discorsi: i social media - aveva detto - danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un premio Nobel. Eco non era certo un demonizzatore di Internet. Lui prima di altri ne aveva messo in luce i vantaggi, mettendo in luce per esempio l’utilità di Wikipedia in un momento in cui il dibattito ancora verteva sulla sua affidabilità. Ma sicuramente c’è un lato oscuro di Internet, ed è quello per cui è in grado di dar la stura ai pozzi d’odio che prima circolavano solo nelle sentine della società. Anonimato e distanza Il cyberbullismo evidentemente attinge a questi inesauribili depositi d’odio, se ne alimenta dietro lo schermo dell’anonimato, ed è alla portata di tutti, perché non implica neppure l’uso della forza fisica o del minimo di coraggio necessario a esercitarla. C’è però anche un altro fattore importante oltre all’anonimato che va a comporre il disegno del cyberbullismo: è la distanza. Sappiamo che, anche in guerra, dove uccidere è lecito e necessario, è molto diverso colpire un puntino lontano, in un’azione rapida e confusa, e sparare a un uomo di cui si riconosce il volto e l’espressione. Il cyberbullismo mette a distanza elettronica la vittima, e anche quando la si conosce personalmente, l’azione nello spazio virtuale appare attenuata, il discredito gettato sull’altro risulta sminuito come quando si colpisce una semplice figurina, e non un uomo o una donna in carne ed ossa. Mi ha impressionato l’intervista di uno dei responsabili dell’azione di cyberbullismo nei confronti di Carolina Picchio, che alla domanda del giornalista se si sentisse colpevole per quanto aveva fatto, risponde: “Sì… abbastanza… ma non tanto, perché non volevo farle male”. C’è qui tutto il divario tra l’etica dell’intenzione e l’etica della responsabilità. La prima è stata derisa da Pascal nelle “Lettere provinciali", la seconda è a fondamento della grande riflessione sociale di Weber. Il senso di colpa viene dal sentirsi giudicato da un Altro di cui si condividono i valori, ma quali sono, in certi contesti, oggi i valori socialmente condivisi che permettono di giudicare e di far sorgere il senso di colpa? Dovrebbero esserci almeno i valori fondamentali, la differenza tra il bene e il male, che è proprio quel che il ragazzo intervistato, con le sue risposte, non sembra in grado di cogliere. La vergogna Più profondamente tuttavia, e in modo più primordiale, in questi casi è il senso della vergogna che vediamo entrare in scena. Carolina Picchio* si getta dal balcone perché evidentemente non riesce a superare il senso di vergogna che deriva dallo snudamento dell’intimità più intima, di quell’intimità in cui il soggetto stesso non si riconosce e che, in un certo senso, neppure conosce. A questo senso di vergogna che nella vittima è conservato, corrisponde dall’altro lato, dalla parte del tormentatore, una disposizione svergognata, un annullamento del senso di vergogna. La società capitalista del XVIII o XIX secolo era caratterizzata dai tratti del puritanesimo come nelle descrizioni di Max Weber. C’era un certo riserbo rispetto ai piaceri, una moderazione di marca calvinista. Il capitalismo moderno è piuttosto quello mostrato nel film di Scorsese The Wolf of Wall Street: orgiastico, tossicomane, smodato. È lo stampo che modella una società in cui si è perso il senso della vergogna. I temi della riservatezza, del diritto al controllo e alla protezione dei propri dati personali, sono essenzialmente moderni e hanno mosso il dibattito attuale perché la tecnologia contemporanea mette in effetti fortemente a repentaglio la possibilità di protezione dei propri dati sensibili, di ciò che non appartiene alla rappresentazione pubblica. Il confine tra pubblico e privato Ci siamo abituati per qualche migliaio d’anni all’idea che violare l’intimità di una persona era sbirciare nella sua finestra, o guardare dal buco della serratura, o origliare attraverso i muri. Anche i diari erano qualcosa di estremamente personale, che altri occhi non potevano vedere. Nel diario di Anna Frank vediamo Anna insorgere vivacemente quando altri occupanti del “rifugio segreto” le chiedono di dare un’occhiata alle sue annotazioni. Leggere lettere non destinate a sé è sempre stato considerato più che un’indiscrezione, una vera e propria violazione. Il confine tra il pubblico e il privato è sempre stato chiaro. Lo si poteva violare ma si sapeva cosa si stava facendo. Oggi questo confine è diventato più incerto. Facebook è la versione moderna del diario, ma è praticamente pubblico, qualsiasi grado di protezione di possa inserire. Ciò che è in rete va considerato comunque pubblico. Il caso Snowden ci ha mostrato come sia facile violare un computer, entrare in una stanza attraverso uno schermo. Osservare lo schermo del nostro computer può significare essere osservati. Non abbiamo ancora introiettato a sufficienza gli anticorpi necessari dopo questo immenso, illimitato potenziamento della possibilità di violare gli spazi privati. È significativo notare che i casi di cyberbullismo riguardano per la maggior parte giovani all’inizio dell’adolescenza, come Carolina Picchio, giovani in una fascia d’età fragile, dove tutto, dal corpo ai pensieri, si sta trasformando. Nel caso di Carolina i dati sono stati rubati, in altri casi possono essere stati ingenuamente resi pubblici senza l’esatta cognizione di quel che si stava facendo. Un adolescente pensa di rivolgersi alla cerchia stretta dei suoi amici, e i pensieri o le immagini che condivide schizzano in rete al di là di ogni confine. Nulla di quel che è condiviso in rete appartiene a cerchie delimitate, e questa è una condizione alla quale dobbiamo ancora abituarci. È necessario un grande sforzo educativo e di sensibilizzazione per ottenere che il concetto di riservatezza si adegui alle condizioni delle nuove tecnologie. E potremmo dire di più: che occorre attenzione da entrambi i lati della barricata, dalla parte della vittima e dalla parte del tormentatore. Perché quando i tormentatori, come nel caso di Carolina Picchio, sono dei coetanei che possono esprimersi in rete con frasi di odio che vanno al di là della distruzione fisica, che non sono soddisfatti della morte della persona presa a bersaglio e l’insultano post mortem, vediamo qui un fenomeno estremo, molto particolare e preoccupante. L’odio liberato e liberamente circolante sui social media, essendo come sdoganato, non richiede più di essere soggettivato, di essere assunto e vissuto in prima persona, perché sarebbe altrimenti quasi impossibile sopportarne il carico distruttivo. Anche i tormentatori, a volte trascinati inconsapevolmente, vanno aiutati allora a capire quel che stan facendo, vanno educati a collegare le loro azioni con le conseguenze che ne derivano nella realtà, vanno resi consapevoli che non tutto rimane chiuso nel circuito del mondo virtuale, com in un videogioco. L’odio e l’aggressività L’odio è molto diverso dalla semplice aggressività, che mette l’uno di fronte all’altro gli avversari avendo come posta il puro prestigio, il dominio. Nell’aggressività l’altro deve essere conservato perché il prestigio possa essere riconosciuto, perché il dominio possa esercitarsi su qualcuno. L’odio è invece una passione lanciata in un corsa senza limiti – come, per altro verso, lo è l’amore – perché ciò che ha di mira è non solo la distruzione dell’essere, ma il suo abbassamento, la sua umiliazione, la sua degradazione, uno sprofondamento verso il quale non c’è un punto di chiusura. Per questo non c’è nulla che soddisfi la brama dell’odio, come non c’è nulla che soddisfi la domanda d’amore. Dobbiamo renderci conto di queste passioni dell’essere, come le chiamava Lacan, perché non possiamo semplicemente nasconderle, farne una cosmesi, come nel linguaggio politicamente corretto quando questo diventa l’ironia di se stesso, come quando gli scrittori americani che per parlare di un personaggio indefinito devono dire “he or she” per non dar l’idea di privilegiare un sesso sull’altro. È necessario invece riconoscere queste passioni, e questo permette di farle esprimere entro determinati limiti. Un paziente in analisi che riconosce in sé dei fantasmi sadici non è condotto a sradicarli, ma il fatto di averli visti gli permette di non esserne preda, di non agire in modo automatico sulla spinta di un impulso cieco, gli consente di far valere la decisione soggettiva. Solo quando il soggetto non è più aggirato dalla marea montante della passione, perché questa deve invece passare per la strettoia della decisione soggettiva, allora abbiamo modo di incanalare anche questo negativo in una via di realizzazione dell’essere, che distrugge per creare, e non per perseguire un annullamento senza fine. * Carolina Picchio, suicida a quattordici anni nel 2013, è stato i primo caso in Italia di processo per cyberbullismo
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