Intervento presentato a Milano il 12 giugno 2016 nella tavola rotonda del Convegno SLP sul tema "Il tempo e l'atto nella pratica della psicoanalisi" Marco Focchi Siamo ancora tutti ipnotizzati dalla danza di Alessandra Cristiani cui abbiamo appena assistito. Nella danza tradizionale i ballerini prendono il passo della musica, entrano nelle figure ritmiche predisposte dal brano eseguito, si fanno dare il tempo dall’orchestra. Nella danza butō che abbiamo visto ora sembra invece avvenga il contrario: il tempo emana dal corpo della danzatrice che si apre, si dispiega, si dischiude man mano, fiorisce sulla scena. Alessandra poi, nel suo intervento, ha menzionato l’insegnamento del suo maestro, che la incitava ad alimentare l’attesa, un’attesa che non deve essere eccessiva, per non smorzare l’attenzione, ma che deve essere abbastanza prolungata da portare al giusto grado di tensione. E in effetti nell’esibizione di Alessandra vedevamo una studiata lentezza, dove il corpo prendeva tempo, nella stessa misura in cui si appropriava progressivamente dello spazio, inseguendo la luce nel buio, come facendosene scolpire, fino la momento in cui il buio è scomparso e il corpo è caduto in piena luce, mentre l’accompagnamento sonoro è taciuto, e il silenzio ha avuto l’effetto di riflettere la nudità della danzatrice sul pubblico: eravamo noi, il pubblico, a sentirci denudati dall’assenza dei suoni e dalla luminosità che invece investiva il palco, non protetti dallo schermo invisibile dei fari che, lasciando al buio la platea, solitamente separano gli attori dal pubblico.
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Marco Focchi Un politico ha creato una quantità di guai, ha commesso illegalità, promosso abusi, corrotto, comprato voti. Per disimpegnarsi grida a voce spiegata di essere perseguitato, proclama che si cerca solo di incastrarlo, che c’è un complotto, ribalta la responsabilità su altri. È una scena che conosciamo, e che troviamo in genere piuttosto ripugnante. La mossa con cui ci si sottrae alle proprie responsabilità facendo la vittima è la stessa del capitano che abbandona la nave per primo dopo averla mandata sugli scogli. Si può però essere vittima di qualcosa di cui non si ha colpa, di una situazione, di un incidente, di un destino. Anche in questo caso non si può abbandonare la nave. Un esempio luminoso viene da un poeta, che fu anche soldato. Nella prima guerra mondiale, l’offensiva tedesca verso Parigi fu fermata sulla Marna, dove ebbero luogo alcune battaglie tra le più sanguinose di tutta la guerra. In una di queste, a Vailly, era schierato Joë Bousquet. In un contrattacco dei francesi allo scopo di liberare un battaglione accerchiato dai tedeschi, Bousquet viene colpito al petto da un proiettile che gli spappola il midollo spinale. Dopo alcuni mesi di lotta tra la vita e la morte, la vita prevale, ma lasciandolo paralizzato in tutta la metà inferiore del corpo. All’epoca ha ventuno anni. Invece di maledire il proprio destino o di chiudersi nel rancore di chi, in vita, resta escluso dalla vita, Bousquet trova un’espressione luminosa, che non è né di rifiuto né di rassegnazione, che lo innalza al di sopra dei meri fatti e della pura concatenazione della cause e degli effetti: “La mia ferita mi preesisteva, io sono nato per incarnarla”. |
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Settembre 2024
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