Marco Focchi Un politico ha creato una quantità di guai, ha commesso illegalità, promosso abusi, corrotto, comprato voti. Per disimpegnarsi grida a voce spiegata di essere perseguitato, proclama che si cerca solo di incastrarlo, che c’è un complotto, ribalta la responsabilità su altri. È una scena che conosciamo, e che troviamo in genere piuttosto ripugnante. La mossa con cui ci si sottrae alle proprie responsabilità facendo la vittima è la stessa del capitano che abbandona la nave per primo dopo averla mandata sugli scogli. Si può però essere vittima di qualcosa di cui non si ha colpa, di una situazione, di un incidente, di un destino. Anche in questo caso non si può abbandonare la nave. Un esempio luminoso viene da un poeta, che fu anche soldato. Nella prima guerra mondiale, l’offensiva tedesca verso Parigi fu fermata sulla Marna, dove ebbero luogo alcune battaglie tra le più sanguinose di tutta la guerra. In una di queste, a Vailly, era schierato Joë Bousquet. In un contrattacco dei francesi allo scopo di liberare un battaglione accerchiato dai tedeschi, Bousquet viene colpito al petto da un proiettile che gli spappola il midollo spinale. Dopo alcuni mesi di lotta tra la vita e la morte, la vita prevale, ma lasciandolo paralizzato in tutta la metà inferiore del corpo. All’epoca ha ventuno anni. Invece di maledire il proprio destino o di chiudersi nel rancore di chi, in vita, resta escluso dalla vita, Bousquet trova un’espressione luminosa, che non è né di rifiuto né di rassegnazione, che lo innalza al di sopra dei meri fatti e della pura concatenazione della cause e degli effetti: “La mia ferita mi preesisteva, io sono nato per incarnarla”. In qualcuno che potremmo a pieno titolo definire vittima, perché ha subìto senza cercarlo il colpo che l’ha abbattuto, troviamo l’espressione di una dignità che lo pone all’altezza dell’evento incontrato, e del quale, proprio per questo, non si fa semplice ricettore passivo, perché se ne fa attore.
Lacan parla della pantomima nevrotica, che con Miller abbiamo imparato a declinare in rapporto con il fantasma. La pantomima è una rappresentazione muta, basata sull’espressione del volto, sui movimenti del corpo, sul gesto. La pantomima del nevrotico è quella in cui il soggetto si fa burattino del proprio fantasma, sentendosi mosso da fili di cui non regge i capi. Ma reggerne o non reggerne i capi non risale a un cieco determinismo. Se il punto di fondo della clinica psicoanalitica è l’etica, è perché in ultima istanza c’è una scelta possibile. Uscire dalla pantomima significa prendere parola, dar voce a quel che il fantasma esprime silenziosamente attraverso il corpo, farsi attore del proprio evento. Vorrei privilegiare questa espressione, “farsi attore del proprio evento” come contraltare del vittimismo contemporaneo e come indice di un’assunzione di responsabilità che non sia mero moralismo o volontà di padronanza.
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Settembre 2024
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